La Cina afferma che sta mettendo al bando una società di ricerca statunitense e due analisti che hanno ampiamente riferito di denunce di violazioni dei diritti umani commesse contro gli uiguri e altri gruppi di minoranza musulmana originari della regione nord-occidentale dello Xinjiang.
Gli uiguri sono appena lo 0,6% della popolazione in Cina, eppure sono vittime di persecuzione e repressione nello Xinjiang da ormai molto tempo. Una storia, quella di questa minoranza musulmana, che si incrocia con interessi di vario genere, lotta al terrorismo internazionale e una realtà fatta anche di campi di concentramento e diritti violati.
«Potrebbero essere 500 mila, ma anche un milione gli uiguri detenuti nei “campi di ri-educazione”» predisposti dalla Cina nella Regione autonoma dello Xinjiang, che ha come capoluogo Urumqi. Si tratta di centri clandestini in cui le persone vengono rinchiuse arbitrariamente e per un periodo di tempo imprecisato per il solo fatto di appartenere alla minoranza turcofona-musulmana uigura.
A ribadire la gravità della situazione, il 26 luglio 2018, ci ha pensato anche il vice presidente degli Stati Uniti, Mike Pence, intervenendo a una conferenza sulla libertà religiosa a Washington (da 15’13”).
Secondo il professore tedesco Adrian Zenz, in Xinjiang «si sta assistendo alla più importante carcerazione di massa di una minoranza etnica della storia recente e a una delle più grandi violazioni dei diritti umani dei giorni nostri».
Cina: lotta al terrorismo e repressione degli uiguri
Fin dagli anni ’90, la comunità uigura è stata presa di mira dalle autorità di Pechino per le sue aspirazioni indipendentiste. E per le continue denunce di discriminazione e repressione religiosa subite dai propri membri.
Manifestazioni spesso pacifiche, ma in alcuni casi anche violente, che il governo cinese ha sempre definito come atti di terrorismo.
Uiguri dallo Xinjiang alla Siria: l’inchiesta della Ap
Negli ultimi anni la Cina si è difesa dietro lo scudo della lotta all’estremismo islamista. La possibilità che ci siano delle inflitrazioni jihadiste nella regione non è da escludere. Un’inchiesta di Associated Press parla di almeno 5 mila gli uiguri che hanno lasciato lo Xinjiang per andare a combattere in Siria. Ma questo non giustifica la detenzione di un numero di persone così elevato.
Quel che è certo è che la struttura centralizzata della Repubblica Popolare non ha mai tollerato le spinte centrifughe delle minoranze, come dimostrano le migliaia di morti in Tibet.
Etnie cinesi: la soppressione culturale degli Uiguri arriva da lontano
Ci sono stati diversi momenti in cui la Cina ha provato a togliere ossigeno ai milioni di uiguri che vivono da sempre nello Xinjiang, “Nuova Frontiera”, la regione che confina, tra gli altri, con Russia, Kazakistan, Afghanistan, Pakistan e India.
Con il processo di sinizzazione messo in atto sin dal 1949, nel corso degli anni i cinesi han (gruppo etnico maggioritario) sono passati dal 6% all’attuale 40 per cento. In tempi recenti, scontri violenti tra le popolazioni delle due etnie ci sono stati nel 2009, a seguito della decisione, da parte della autorità cinese, di radere al suolo il centro storico della città di Kashgar, abitata sopratutto da uiguri.
La recente escalation in Xinjiang
La prima vera svolta è arrivata nel 2014, l’anno di lancio della campagna “Strike hard”, dopo gli attentati terroristici a Pechino, Kunming e Urumqi da parte di alcuni separatisti con bombe e coltelli. Proprio al 2014 risale la condanna all’ergastolo, con l’accusa di separatismo, di Ilham Tohti, docente universitario uiguro noto anche con il soprannome di “Mandela cinese“.
Dalla fine del 2016, quella che ha tutte le sembianze di essere una campagna di repressione culturale è diventata sempre più asfissiante. La situazione è ulteriormente peggiorata dopo che, a ottobre del 2017, il 19° Congresso del Partito Comunista Cinese ha affidato di nuovo il mandato di segretario al presidente Xi Jinping, elevandolo di fatto a politico cinese più influente, secondo solo a Mao Zedong.
La “novità” dei campi di ri-educazione
A dare le stime del numero di detenuti nei campi di ri-educazione è Peter Irwin, Program Manager del World Uyghur Congress, un’organizzazione internazionale con sede in Germania che si spende per difendere i diritti degli uiguri in modo pacifico e non violento. I dati sono comunque approssimativi, per le ovvie difficoltà di raccogliere informazioni in un paese che si è sempre dimostrato poco permeabile al concetto stesso di trasparenza.