Questi sono anni strani. Siamo tornati al manicheismo che fu delle ideologie, della contrapposizione tra est ed ovest, tra comunismo e capitalismo. Questa battaglia tra grandi categorie di pensiero degenerò tra gli anni ’60 e la fine del comunismo reale in una serie di estremismi che sfociarono in violenze inaudite. Tutto sembra tornare come allora.
La storia ci presenta il conto di tutto ciò che non abbiamo fatto per uscire da quell’epoca con soluzioni concrete, eque, capaci di rimettere ordine nel caos dentro il quale un pessimo secondo dopoguerra ci aveva fatto entrare. Nella crisi attuale, con il Medioriente in fiamme, ci troviamo a pensare ad una nuova contrapposizione, quella tra Islam e Occidente. Non c’è nulla di più sbagliato in questa affermazione.
Non c’è nessun attacco del mondo islamico a quello rappresentato da Europa e USA. L’Islam è la più giovane delle tre grandi religioni monoteistiche. Vive oggi gli stessi drammi che il cristianesimo visse tra il 1618 e il 1648, quella che conosciamo come la Guerra del trent’anni. La contrapposizione tra stati cattolici e stati protestanti portò ad uno stravolgimento degli assetti politici dell’intera Europa. Ma da questa contrapposizione violenta inizia anche una cammino verso un’evoluzione completa del rapporto tra religione e potere che porterà, dopo infinite diatribe, lotte e sofferenze alla Rivoluzione francese e all’Illuminismo con tutto ciò che questi due eventi hanno introdotto nella cultura europea.
Ciò che sta avvenendo oggi nel mondo islamico è una sorta di Guerra del trent’anni tra fazioni contrapposte, in grandi linee definite Sciiti e Sunniti. L’Islam non ha mai fatto i conti con la modernità. Oggi ne sta pagando il prezzo. Le ragioni di questo arretramento culturale sono molteplici e difficilmente si può articolare una analisi esaustiva in un breve testo. Si può solo accennare ad alcuni fattori che hanno determinato questa condizione.
Innanzi tutto l’assenza di una vera e propria gerarchia ecclesiastica sul genere del Vaticano che ha impedito il confronto fra le varie anime del mondo islamico all’interno di istituzioni definite. Il secondo fattore è da ricercare nell’essenza stessa della dottrina islamica, il Corano. A differenza di altri testi sacri questo non è solo un testo religioso. Al suo interno troviamo l’essenza stessa di quella che è la giurisprudenza islamica. La sharia e la ficu, le due articolazioni giurisprudenziali del Corano determinano una sorta di impedimento di fatto alla laicizzazione degli stati a maggioranza islamica.
Mentre in Europa correvano paralleli il potere ecclesiastico e la giurisprudenza laica, nel mondo islamico le due cose venivano a intrecciarsi all’interno di uno stesso contenitore, il libro sacro dell’Islam. Un ulteriore aspetto, tra i tanti, è la difficoltà di gran parte dei fedeli di leggere direttamente il Corano. Più della metà del milione e settecentomila fedeli non sono arabi ed anche tra gli arabi molti non leggono e non sanno interpretare il Corano. Essendo questo un testo che indica comportamenti non solo privati ma anche sociali e politici l’intero mondo islamico è facilmente influenzabile da quegli imam che con il loro carisma e la loro potenza anche (se non soprattutto) economica sono capaci di orientare le masse.
Da qui la strumentalizzazione a fini economici della religione, da qui le interpretazioni più distorte del Corano, da qui la degenerazione violenta del rapporto tra l’Islam ed il mondo esterno e, più ancora, all’interno dello stesso mondo islamico. Per comprendere quanto complessi siano questi problemi, quali articolazioni ci sono delle stesse dinamiche, quali sono i fattori culturali e quali i pregiudizi che da tutto ciò derivano può essere utile più che letture dotte di storia, filosofia o religione leggere libri di autori arabi contemporanei che raccontano la situazione dall’interno partendo da punti di vista intimi e personali.
E’ il caso di Fatema Manrissi, una della voci femminili più incisive del mondo musulmano, che con il suo romanzo “La terrazza proibita” ci conduce all’interno di quello che è uno dei nuclei più importanti che compongono la tradizionale struttura sociale araba, l’harem. “Venni al mondo nel 1940 in un harem di Fez, città marocchina….” Così l’incipit di questa che è un intenso ricordo della sua infanzia. A dispetto delle idee che noi occidentali ci siamo fatti sull’harem, soltanto quello del sultano è composto di ragazze a sua disposizione.
In realtà gli harem erano delle comunità di persone dove esisteva una senso di condivisione e di collaborazione molto forti e dove i legami familiari e sociali erano regolati sulle basi di una rigorosa etica solidaristica. Ciò nonostante, anche queste comunità hanno dovuto fare i conti con la modernità e presto emerge il contrasto tra tradizione e modernizzazione che sovverte la società marocchina in quegli anni ben rappresentato nella narrazione di Fatima. La vita privata e quella pubblica s’intrecciano costantemente. Il desiderio di una piena libertà femminile si mescola all’orgogliosa difesa della propria cultura d’origine. E’ un romanzo che fa giustizia degli stereotipi negativi così come delle visioni idealizzanti dell’harem.
E’ per l’opera di un altro scrittore, Abdo Khal, che veniamo a contatto con un ulteriore aspetto della società araba, particolarmente di quella saudita. Nel suo “Le scintille dell’inferno” il personaggio narrante, Tareq, vede una via d’uscita dalla sua vita di microcriminalità in un meraviglioso palazzo costruito sul lungomare di Gedda, in prossimità del suo infame quartiere. Il contrasto tra la ricchezza sconfinata e l’altrettanto disperata povertà emerge in tutta la sua drammaticità. Tareq riesce ad entrare nel palazzo ma il sogno si trasforma rapidamente in un incubo. Il palazzo è governato da un padrone enigmatico, Tareq scopre presto il compito che gli verrà assegnato: è stato scelto per un singolo terribile compito, torturare e stuprare i nemici del padrone. L’impunità di certi ambienti, la violenza e la prevaricazione che lambiscono la schiavitù sono, in questa per altri aspetti modernissima società, il retaggio della tradizione tribale che caratterizza la penisola arabica.
Azar Nafisi è una scrittrice iraniana ora residente negli Stati Uniti. Il suo libro più celebre è il bestseller “Leggere Lolita a Teheran”. Nei due decenni successivi alla rivoluzione di Khomeini, nel 1995, trovandosi impossibilitata a continuare le sue lezioni senza attirare l’attenzione delle autorità, si licenzia ed invita sette delle sue migliori studentesse a seguire delle lezioni-dibattito ogni giovedì mattina in via del tutto privata a casa sua, lontane da orecchie e occhi indiscreti.
Mentre le strade e i campus di Teheran erano teatro di inaudite violenze, Azar Nafisi ha dovuto cimentarsi nell’impresa di spiegare a ragazzi e ragazze, esposti in misura crescente alla catechesi islamica, una delle più temibili incarnazioni del Satana occidentale: la letteratura. Dopo aver narrato della passione con cui letteratura e esperienza del regime khomeinista si sono intrecciate nella sua vita e in quella delle sue più brillanti allieve, attraverso identificazioni, opposizioni e addirittura allestimenti didattici di veri e propri “processi” alle opere letterarie, nelle pagine finali di “Leggere Lolita a Teheran” la Nafisi si dice convinta della necessità di aggiungere alla lista dei diritti umani anche il “diritto all’immaginazione”. Il risultato è un libro che, oltre a essere un atto d’amore per la letteratura, è anche una beffa giocata a chiunque tenti di proibirla.
Con Sophie Kasiki ed il suo lucido e drammatico “Fuggita dell’ISIS” usciamo dall’ambiente arabo per tornare in Europa e aprire una finestra su quell’aspetto dell’Islam che più da vicino ci tocca, la radicalizzazione dei residenti in Europa. Sposata e con un figlio di quattro anni, Sophie lavora come assistente sociale in un centro per immigrati alla periferia di Parigi. Tre di questi ragazzi musulmani improvvisamente decidono di partire per la Siria e unirsi all’ISIS. Sophie riprende i contatti con i tre, nel tentativo di convincerli a tornare. Ma accade l’esatto contrario: Sophie ha una crisi di identità, è sempre più attratta dai racconti di una vita diversa e dalle promesse che i tre ragazzi le fanno. Così, con una mossa repentina, parte per Raqqa, la capitale dello Stato islamico, portandosi dietro suo figlio.
Lo schianto contro la realtà, è violentissimo: i foreign fighter si comportano come un esercito di occupazione che opprime i siriani, le donne non possono circolare da sole e senza velo, le scuole sono state chiuse, i contatti con l’esterno sono praticamente impossibili, la violenza è un’esperienza quotidiana – il paradiso è in realtà un inferno. Un inferno dal quale Sophie ora vuole scappare, a ogni costo, soprattutto quando la minacciano di separarla dal figlio. Il racconto della rocambolesca fuga da Raqqa lascia senza fiato.
In “Palazzo Yacoubian” Ala al-Aswani racconta magistralmente le piccole storie private, le violenze e le gioie di un Egitto plurale, poco conosciuto e lontano da ogni stereotipo. Una parte, seppur minoritaria, di una società che lotta tenacemente da decenni tra la rivoluzione nasseriana e il peso della fratellanza musulmana. E’ un libro sensazionale e controverso. Costruito negli anni trenta da un miliardario armeno, Palazzo Yacoubian contiene in sé tutto ciò che l’Egitto era ed è diventato da quando l’edificio è sorto in uno dei viali del centro. E’ un caleidoscopio di personaggi, dai poveri che vivono sul tetto al signore aristocratico nostalgico dei tempi di re Faruk, all’intellettuale gay che questa piccola comunità lascia libero di vivere i suoi amori “proibiti”. E’ l’Egitto che non ti aspetti, quello che riesce, nonostante tutto, a vivere libero in un Paese sempre più condizionato dall’estremismo e dalla paura.
Col suo bel romanzo “Ancora”, Hakan Günday , ci porta dove comincia l’inferno dei migranti. Il protagonista è Ahad, un bambino. Il padre è un «passeur», trasporta i migranti in un camion dalle rive dell’Egeo verso quella che chiamiamo la «rotta balcanica». Ahad e suo padre portano uomini: afgani, siriani, pachistani, iracheni, una folla di disperati che chiede solo di non morire. Vengono chiusi nel camion o in una cisterna-prigione, ideata proprio dal ragazzo con cinica razionalità. Il padre è un vero passeur, un professionista, considera i migranti oggetti: gli sono affidati , viene pagato per trasportarli. Come sacchi di farina, bidoni di benzina, (è ciò che scrive sui falsi documenti del suo camion). Ahad invece i profughi li usa: violenta le ragazze, costringe gli uomini a umilianti e cruenti combattimenti, trasforma l’infame cisterna da lui stesso inventata, un mondo di potere e sopraffazione che osserva attraverso telecamere. Ahad è l’ultimo, si spera, gradino da scendere verso il moderno mondo degli inferi costituito da questa nuova ondata schiavistica che noi continuiamo a chiamare immigrazione.
Ho conosciuto Igiaba Scego tanti anni fa, lei giovanissima io meno anziano di ora. Adesso leggo questo suo splendido romanza “Adua” con morbosa attenzione cercando nelle sue parole lo splendido sguardo che ricordo di lei. E’ il ritratto di una donna, Adua, alla ricerca di sé in un lungo viaggio dalla Somalia a Roma. Romanzo a due voci, quella di un padre, Zoppe ultimo discendente di una famiglia di indovini, e di una figlia, Adua. Indaga il loro rapporto impossibile e lo fa seguendo tutte le loro luci e le loro ombre. Ma alla fine Adua è soprattutto il racconto di un sogno, quello della libertà che ha consumato in modo diverso e in tempi diversi le vite di entrambi. Adua, fuggita dai rigori paterni e dalla dittatura comunista, approda a Roma inseguendo il miraggio del cinema si ritrova a raccontare all’elefante marmoreo di Bernini, icona romana tra le più appartate e curiose che sostiene l’obelisco della Minerva, le proprie confidenze. E’ il racconto di una nostalgia profonda, di un senso di frustrazione nella lotta sempre presente fra i profughi tra la salvezza e la perdita di identità.
L’ultimo libro è “Esodo” di Domenico Quirico. Un giornalista e scrittore italiano che conosce e narra il mondo arabo come nessun atro. Lascio alle parole dello stesso autore presentare la sua opera.
“Questo libro è la cronaca dei viaggi fatti in compagnia dei migranti nei principali luoghi da cui partono, e in cui sostano o si riversano. In questo senso, è il racconto in presa diretta dell’Esodo che sta già mutando il mondo e la storia a venire. Una Grande Migrazione che ha inizio là dove parti intere del pianeta si svuotano di uomini, di rumori, di vita: negli squarci sterminati di Africa e di Medio Oriente, dove la sabbia già ricopre le strade e ne cancella il ricordo; nei paesi dove tutti quelli che possono mettersi in cammino partono e non restano che i vecchi.”
Roberto Pergameno Ph: Gabriella Raffaelli