Crescono a 4,5 milioni gli italiani che rinunciano a curarsi, sia per ragioni economiche ma soprattutto per effetto delle liste d’attesa che dopo la pandemia sono esplose e rendono sempre più difficile accedere a visite ed esami nel Servizio sanitario. A spingere i numeri in su di questo esercito che sceglie di non curare la propria salute – l’anno scorso erano poco più di 4 milioni – sono state proprio le attese troppo lunghe a cui sono costretti i pazienti: nel 2019 prima del Covid erano poco più di 1,5 milioni gli italiani che di fronte a liste troppo lunghe rinunciavano alle cure, nel 2023 sono diventati quasi milioni. Rispetto all’anno scorso cresce comunque anche la quota di chi rinuncia per motivi economici. I numeri impietosi che confermano l’allarme sulle condizioni della Sanità italiana arrivano dal Rapporto sul Benessere equo e sostenibile (Bes) di Istat. Le liste d’attesa restano il nemico numero uno e non è un caso che il Governo stia lavorando a un piano da presentare già nei prossumi giorni.
Cresce il numero degli italiani che rinunciano a curarsi
A fotografare bene la situazione è l’Istat che mette in fila i numeri di questa situazione così allarmante: «La quota delle persone che hanno dovuto fare a meno delle cure ammonta al 7,6% sull’intera popolazione nel 2023, in aumento rispetto al 7,0% dell’anno precedente. Con 372 mila persone in più si raggiunge – spiega il Rapporto Bes – un contingente di circa 4,5 mln di cittadini che hanno dovuto rinunciare a visite o accertamenti per problemi economici, di lista di attesa o difficoltà di accesso». «Tale incremento – continuna ancora l’Istat – può attribuirsi a conseguenze dirette e indirette dello shock pandemico, come il recupero delle prestazioni in attesa differite per il COVID-19 o la difficoltà di riorganizzare efficacemente l’assistenza sanitaria, tenuto conto dei vincoli a coprire l’aumento della domanda di prestazioni con un adeguato numero di risorse professionali e, non ultima, la spinta inflazionistica della congiuntura economica, che ha peggiorato la facoltà di accesso ai servizi sanitari». Insomma il fenomeno della rinuncia alle cure, a causa di problemi economici e delle lunghe liste d’attesa resta drammatico e cosa più grave è anche in peggioramento. Come detto si assiste in particolare ad un raddoppio della quota di chi ha rinunciato per problemi di lista di attesa (dal 2,8% nel 2019 a 4,5% nel 2023) mentre resta stabile la rinuncia per motivi economici (da 4,3% nel 2019 a 4,2% nel 2023), ma comunque in aumento rispetto al 2022 (+1,3 punti percentuali in un solo anno).
Gli anziani i più rinunciatari, Sude e Centro i più colpiti
Tra l’altro un altro elemento preoccupante è il fatto che la quota della rinuncia a prestazioni sanitarie cresce all’aumentare dell’età e dunque proprio quando ci sarebbe più bisogno di accedere alle prestazioni sanitarie. Nel 2023, partendo dall’1,3% rilevato tra i bambini fino ai 13 anni, la quota mostra infatti un picco nell’età adulta tra i 55-59enni, dove raggiunge l’11,1%, per restare elevata tra gli anziani di 75 anni e più (9,8%): in pratica un over 55 su 10 rinuncia a curarsi. Si confermano poi le ben note differenze di genere: la quota di rinuncia è pari al 9,0% tra le donne e 6,2% tra gli uomini, «con un divario che si amplia ulteriormente nell’ultimo anno per l’aumento registrato tra le donne adulte», segnala ancora l’Istat. Sul territorio, l’incremento del 2023 rispetto all’anno precedente si concentra soprattutto al Centro e al Sud: nel primo si registra la più alta quota di rinuncia (8,8%), segue il Mezzogiorno con il 7,7%, mentre il Nord con 7,1% mantiene lo stesso livello del 2022. Sono invece poche le regioni che nel 2023 tornano a livelli più bassi del 2019. In particolare la Sardegna, con i più alti tassi di rinuncia già nel 2019 (11,7%), continua ad aumentarli (13,7% nel 2023). Tra le regioni del Centro, a parte la Toscana che torna al valore del 2019, il Lazio raggiunge il 10,5% (era 6,9% nel 2022 e 7,6% nel 2019) e le Marche il 9,7% (era circa il 7% sia nel 2022 sia nel 2019). Nel Nord il tasso di rinuncia maggiore si registra in Piemonte con l’8,8%, seguito dalla Liguria, con il 7,8% (entrambe le regioni aumentano di 3 punti rispetto al 2019).
Attese lunghissime, strutture ospedaliere lontane, difficoltà con i Cup e, troppo spesso, agende di prenotazione bloccate. Per 9 italiani su 10 le liste d’attesa del Ssn sono un incubo. A certificarlo, se ce ne fosse ancora bisogno, è un’indagine di Altroconsumo secondo la quale su 1.100 cittadini intervistati oltre 950 hanno avuto difficoltà nel prenotare una visita o un esame con il Ssn nel corso dell’ultimo anno. L’indagine condotta su un campione aderente ad ACmakers, la community che collabora alle ricerche dell’Organizzazione, e focalizzata sulla problematica delle liste d’attesa, conferma un quadro sconfortante e fortemente critico, che non sembra registrare segnali di miglioramento. Gli italiani, quando va bene, sono costretti a rivolgersi al privato e a pagare di tasca propria ma in troppi rinunciano a curarsi.
Gran parte dei problemi – secondo Altroconsumo – si sono registrati con le visite specialistiche (per 2/3 delle segnalazioni ricevute): in particolare, le visite più citate sono quella oculistica (circa 180 segnalazioni) e dermatologica (circa 100, per lo più riguardanti il controllo dei nei). Tra gli esami più segnalati: ecografie dell’addome, tiroide, mammella e della spalla (circa 150), risonanze magnetiche, Tac (circa 100) e gastroscopia (circa 25). In realtà questo elenco non sorprende: visite oculistiche e dermatologiche, gastroscopie ed ecografie dell’addome sono da sempre le prestazioni che i cittadini pagano di più di tasca propria, prenotando nel privato, come confermano anche gli ultimi dati di Agenas (Agenzia nazionale per i servizi sanitari regionali) sull’attività intramoenia, cioè l’attività privata degli ospedali pubblici.
Ma quali sono più nello specifico i problemi riscontrati? Innanzitutto, per 2/3 degli intervistati, le attese oltre le urgenze indicate sulla ricetta, ma anche strutture ospedaliere troppo lontane, appuntamenti non disponibili a causa delle prenotazione chiuse (fenomeno peraltro illegale). Ma non solo: Cup difficili da contattare, ricette che scadono, controlli che saltano.
Il problema delle attese eccessive – si legge nel report – riguarda la grande maggioranza degli intervistati; è impossibile per tanti fare visite ed esami nei tempi suggeriti dal medico, anche quando c’è un’urgenza indicata sulla ricetta (117). Ma colpisce che circa 1/4 di queste segnalazioni (263) riguardi l’impossibilità di prenotare una visita o un esame per via delle agende chiuse. Non è tutto: circa un quarto dei cittadini che hanno avuto problemi per avere l’appuntamento nei tempi prescritti dal medico, avrebbero dovuto recarsi in una struttura scomoda, talvolta lontana anche 100 km o più da casa, perché nella loro provincia il primo posto sarebbe stato disponibile solo dopo molti mesi. Questo accade perché i cosiddetti “ambiti territoriali di garanzia”, in cui i Cup possono prenotare le prestazioni, possono essere vasti. Seppur lecito, per molti è un disagio molto forte, se non un ostacolo alle cure, e questa pratica disattende il rispetto di quel “principio di prossimità e raggiungibilità” che viene citato dal Piano nazionale di governo delle liste d’attesa.
Anche le difficoltà a contattare il Cup (Centro unico di prenotazione regionale) sono denunciate frequentemente, visto che più di 1/5 degli intervistati dice di averle avute, tra attese molto lunghe, numeri sempre occupati e linea che cade dopo aver atteso inutilmente. Ma purtroppo, sulle attese al telefono con il Cup, non sono previste particolari tutele.
La situazione non migliora sul fronte ricoveri. Dei 1.100 intervistati – riporta il sondaggio – in circa 300 hanno detto di essere stati inseriti in lista d’attesa per un ricovero negli ultimi due anni. Poco più della metà dei cittadini è stata ricoverata nei tempi previsti; circa 100 persone invece non sono state così fortunate e circa 50 sono ancora in attesa di sapere quando verranno chiamate. Fra i motivi dei ritardi riscontrati: la mancanza di medici, di letti, l’assenza dell’agenda dei prossimi mesi. In tutte le testimonianze traspare comunque l’impotenza dell’attesa senza informazioni, metà degli intervistati che ha segnalato problemi ha deciso alla fine di rivolgersi ai privati.
“La crisi in cui versa il Ssn è sotto gli occhi di tutti da tempo poiché è stato, nel corso degli anni, gravemente sotto-finanziato da tutte le forze politiche e cause più recenti ne hanno accelerato il collasso, in primis la pandemia di Covid 19 – dichiara Federico Cavallo, responsabile Relazioni esterne Altroconsumo – Ciò che resta purtroppo costante è l’inadeguatezza delle risposte che la politica ha messo di volta in volta in campo. Un dato valga per tutti: secondo l’ultimo rapporto Bes dell’Istat, nel 2023 circa 4,5 milioni di cittadini hanno dovuto rinunciare a visite mediche o accertamenti diagnostici per problemi economici, di liste di attesa o difficoltà di accesso. Si tratta del 7,6% della popolazione: in aumento rispetto al 7% del 2022 e al 6,3% del 2019″.
E ciò “che è ancora più preoccupante è il fatto che il trend di spesa per la sanità – in percentuale sul Pil – è previsto calare nei prossimi anni, un segnale evidente di come la situazione non potrà certo migliorare, ma semmai peggiorare ulteriormente. Noi, come Altroconsumo – aggiunge Cavallo – continueremo a fare la nostra parte monitorando attentamente la situazione, agendo in sinergia con altre realtà impegnate a promuovere i principi di un Servizio sanitario pubblico, equo e universalistico, come la Fondazione Gimbe, e mettendo a disposizione dei cittadini informazioni e strumenti utili a far valere i propri diritti, così come previsti dalla Costituzione e dalle leggi italiane”.
Il “grave stato di salute del Ssn impone una profonda riflessione – sottolinea Nino Cartabellotta, presidente Fondazione Gimbe – l’impatto dell’indebolimento della sanità pubblica sulla salute individuale e collettiva deve considerare anche il livello socio-economico della popolazione. L’aumento del numero di famiglie che vivono sotto la soglia della povertà assoluta, se da un lato “argina” la spesa out-of-pocket – quella che si paga di tasca propria – dall’altro aumenterà la rinuncia alle cure, peggiorando la salute e sino a ridurre l’aspettativa di vita proprio di quegli “indigenti” che l’art. 32 indica come persone a cui fornire cure” gratuite. “Indubbiamente, i tempi di attesa costituiscono una delle principali criticità del Ssn – conclude Cartabellotta – con cui cittadini e pazienti si scontrano quotidianamente subendo gravi disagi, come la necessità di ricorrere alle strutture private o la migrazione sanitaria, sino alla rinuncia alle cure. Un problema che da sempre affligge il nostro Ssn, ma che negli ultimi anni si è aggravato per l’enorme quantità di prestazioni non erogate durante la pandemia Covid-19. Tuttavia, le misure per l’abbattimento delle liste di attesa previste nell’ultima Manovra sono state guidate da una logica ‘prestazionistica’, senza alcun provvedimento mirato a monitorare e ridurre l’inappropriatezza delle prestazioni. Inoltre, il potenziamento dell’offerta è stato ‘scaricato’ di fatto sul tempo, sempre più esiguo, dei professionisti sanitari. Infine, l’aggiornamento del nuovo Piano nazionale governo liste di attesa, scaduto nel 2021, è ancora in progress”.
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