Editoriale, Mondo

E’ SUCCESSO | Rio de Janeiro, ecco cosa si cela dietro la più letale operazione di polizia della storia

Il mondo si domanda: Brasile, perché?

Ma forse sarebbe più opportuno chiedersi: perché ancora oggi?

Le stragi perpetrate dalle forze dell’ordine in Brasile non si contano più.

Secondo il 19º “Anuário Brasileiro de Segurança Pública”, pubblicato il 24 luglio dal “Fórum Brasileiro de Segurança Pública”, ben il 3,7 per cento delle morti violente sono causate da azioni delle forze dell’ordine, con un totale di 1.629 vittime provocate da poliziotti civili e militari.

Questo rapporto, diffuso ogni anno, rappresenta uno strumento essenziale di trasparenza e analisi per orientare le politiche pubbliche. Si basa su dati forniti dalle segreterie di sicurezza pubblica statali e da diverse forze di polizia, tra cui quella civile, quella militare e quella federale, oltre a varie fonti ufficiali di sicurezza pubblica.

Il potere di ordinare incursioni nelle favelas, come quella avvenuta martedì, a Rio de Janeiro, è nelle mani dei governatori.

La strage perpetrata dalla polizia, con un saldo di 121 morti, non si è trattata di una semplice operazione di arresto di criminali appartenenti alla fazione del “Comando Vermelho”, da giorni in lotta per il dominio del territorio con la fazione “Terceiro Comando Puro”.

Più passano le ore, più mi convinco che si è trattata di un’azione per l’eliminazione di certi nemici, utilizzando mezzi e uomini dello Stato.

A quale scopo sono state eliminati tutti questi uomini?

Come si indagherà ora sul potere finanziario e sulle connessioni politiche del Comando Vermelho?

È significativo notare che tutti i governatori eletti dello Stato di Rio de Janeiro negli ultimi vent’anni appartenessero a formazioni politiche di centrodestra o estrema destra, come l’attuale governatore Claudio Castro.

Proprio Castro, così come i suoi predecessori, è stato indagato o coinvolto in numerose accuse di corruzione, riciclaggio di denaro, finanziamenti illeciti, associazione criminale (con legami sia con il narcotraffico che con gruppi paramilitari) ed evasione fiscale.

Nei vent’anni precedenti, TUTTI i governatori di Rio de Janeiro sono finiti dietro alle sbarre.

Per Claudio Castro i trafficanti ora sono “narcoterroristi”.

Non a caso, sono le stesse espressioni usate da Trump per giustificare l’attacco alle imbarcazioni nel Mar dei Caraibi e per riferirsi al governo colombiano e venezuelano.

Il governatore Claudio Castro, noto sostenitore dell’ex presidente Bolsonaro e fervente sostenitore di Trump, ha dichiarato con soddisfazione: “Sono morti solo quattro poliziotti; l’operazione è stata un successo.” Castro auspica persino un intervento degli Stati Uniti in Brasile per “risolvere il problema”. Così si alimenta la propaganda dell’estrema destra brasiliana, che sfrutta i corpi di 121 morti della periferia per costruire il proprio consenso politico. Altri cadaveri offerti al mondo per guadagnare l’approvazione della retorica trumpiana e vendere uno scenario di sacrificio utile solo a consolidare poteri già corrotti.

Il Rio è una città straordinaria quanto maltrattata e mal governata in cui le indagini vengono avviate e indirizzate verso il fallimento, come racconto nei miei saggi.

L’impunità trova terreno fertile fin dalle prime fasi dopo i decessi legati a operazioni di polizia, poiché le indagini non vengono affidate a organismi indipendenti, ma vengono condotte da colleghi, addetti a proteggere la corporazione.

A Rio de Janeiro, più del 60 per cento dei casi di morte durante operazioni di polizia non viene nemmeno investigato, come evidenziato da un’indagine del Ministero Pubblico statale.

La maggior parte delle denunce viene archiviata perché i testimoni, sotto minaccia delle forze dell’ordine, già terrorizzati dai narcotrafficanti o da gruppi paramilitari, decidono di non collaborare e preservare la propria vita.

Nel 1999 decisi di iscrivermi alla facoltà di legge, anno in cui è stato presentato un documentario diretto da João Moreira Sales e prodotto da Kátia Lund, che descriveva con un occhio critico la cruda realtà sociale e le dinamiche poliziesche delle favelas di Rio. Si tratta di un materiale indispensabile per comprendere lo specifico dramma di Rio de Janeiro.

Solo tre anni dopo, i narcotrafficanti del Comando Vermelho assassinarono brutalmente Tim Lopes, uno dei più grandi giornalisti investigativi brasiliani. Il suo omicidio fu particolarmente efferato: fu bruciato e fatto a pezzi. Da questo fatto cruento nasce in me l’amore per la verità.

Anni dopo, un altro giornalista, Nilton Claudino de “O Dia”, proprio colui che aveva scoperto dove si trovavano i resti del grande Tim Lopes, suo amico e collega, cercò di indagare sul narcotraffico a Rio, infiltrandosi. Fu tradito, assieme a una collega giornalista, da membri della redazione del suo stesso giornale che avevano legami col narcotraffico. Scoperti, furono brutalmente torturati.

È impossibile determinare se tutti i corpi lasciati indietro in foresta, legati e giustiziati dalla polizia, e poi radunati dalla popolazione sotto shock, fossero realmente legati al crimine. Non sapremo mai tutti i nomi, o il ruolo che avevano tutti all’interno dell’organizzazione criminale.

La novità è il messaggio che è stato trasmesso a quella comunità.

Quel bagno di sangue serviva a dire esattamente questo: ora verrette controllati dall’altra fazione, dal Terceiro Comando Puro, avete capito bene?

È così che funziona a Rio.

Quando vivi in una favela e sei nero, sei automaticamente etichettato come un bandito a meno che venga dimostrato il contrario, indipendentemente dalla tua età.

Eppure quelle stesse persone discriminate sono indispensabili: vengono impiegate nelle case dei ricchi come domestici, autisti, muratori, babysitter. Sono richieste solo per lavori che non alterano l’élite razzista e classista che domina la società brasiliana.

Non si può distruggere una fazione come il Comando Vermelho solo attraverso violenti raid militari, senza affrontare i veri nodi del problema.

Queste organizzazioni non si possono sradicare perché operano come associazioni capillari di più individui che controllano vaste porzioni del Brasile.

La vera risposta sarebbe invece portare negli angoli dimenticati delle favelas, dei quartieri periferici, soluzioni concrete: opportunità per i giovani che evitino loro di crescere sotto il giogo delle élite o nell’illusione che il narcotraffico sia l’unica via di riscatto.

Sarebbe necessario scoprire come questi gruppi abbiano accesso ad armamenti esclusivi degli eserciti internazionali e smascherare le connessioni tra politici, imprenditori e leader religiosi collusi con il narcotraffico, che lucrano grazie al denaro sporco generato dalla droga e dal suo commercio globale.




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