Mangiare 28 grammi di yogurt al giorno, all’incirca due cucchiai, riduce di un quinto le probabilità di sviluppare il diabete di tipo 2. Almeno questo è quanto emerso da uno studio dell’Harvard School of Public Health (Usa), pubblicato sulla rivista BMC Medicine. Per arrivare a queste conclusioni i ricercatori hanno analizzato i dati di tre studi a lungo termine che hanno coinvolto un totale di quasi 200mila uomini e donne, studiati per un periodo di circa 30 anni. Tutti non soffrivano di diabete all’inizio dello studio, ma 15.156 lo hanno sviluppato prima della fine.
Dall’analisi della dieta seguita dai soggetti è emerso una chiara associazione tra il diabete di tipo 2 e il consumo di yogurt. In particolare, il consumo di 28 grammi di yogurt al giorno ha ridotto del 18 per cento il rischio di sviluppare la malattia. “Abbiamo scoperto che una maggiore assunzione di yogurt è associato a un rischio ridotto di diabete di tipo 2, mentre gli altri latticini e il consumo di prodotti lattiero-caseari non hanno mostrato questa associazione”. Fin qui il parere di Frank Hu, principale autore dello studio, rilanciato dalle agenzie stampa, ma quando lo yogurt non basta neanche per contrastate la diarrea?
Animalculi, così vennero chiamati i batteri osservati per la prima volta da un naturalista fiammingo dal nome incerto e per noi impronunciabile: Antoni van Leeuwenhoek. I primi batteri erano quelli presenti nel cavo orale. Batteri che oggi fanno parte delmicrobioma, un’infinitesima parte delle oltre 40.000 specie batteriche che albergano nel nostro apparato digerente. Son definiti batteri commensali, perché vivono pacificamente nel nostro apparato digestivo, svolgono numerose e, in parte, ben note funzioni, utili all’organismo umano. Sintesi di vitamine, digestione e maturazione del sistema immunitario fanno parte di queste funzioni. Lo squilibrio di questa flora, definito disbiosi, è alla base di molte moderne malattie come la Malattia di Crohn, la colite ulcerosa, le allergie e l’obesità.
Una importante disbiosi può essere causata dall’uso di antibiotici a largo spettro: è la diarrea causata dal Clostridium difficile. Il Clostridium difficile, un batterio che vive in assenza di aria (anaerobio è il termine), può causare un’infezione talora molto grave. L’aumento delle spedalizzazioni e l’indiscriminato uso di antibiotici sono alla base di questo emergente problema sanitario. È apparentemente contraddittorio che per trattare un’infezione causata da antibiotici si debbano usare altri antibiotici. Ma così è. Purtroppo specie mutate di Clostridium, che mostrano resistenza ai due maggiori antibiotici ritenuti più efficaci nel trattare l’infezione, cominciano ad essere frequenti. Per ovviare a questo problema, un tentativo, biologicamente plausibile, è stato quello di introdurre batteri “buoni” dall’esterno attraverso i probiotici. I probiotici erano stati introdotti come terapia nel 1907 quando Metchnikoff per primo suggerì che il “Bacillus bulgaricus”, il primo tra i probiotici, fosse utile per combattere diverse malattie. L’assunzione di probiotici avrebbe quindi dovuto aumentare, secondo alcuni investigatori, il contenuto intestinale di batteri benefici contrastando la replicazione del Clostridium. Ma i risultati di questa strategia sono stati deludenti. Inoltre, in generale, l’evidenza scientifica della efficacia dei probioticiin questa ed in altre patologie rimane indimostrata, come nel 2012 ha ribadito la European Food Safety Authority. I modesti risultati dei probiotici nel trattamento dell’infezione da Clostridium possono essere spiegati dal relativo ridotto numero di batteri presenti nelle loro preparazioni commerciali. I probiotici, in pratica, non possono essere in grado di competere con la flora intestinale composta da miriadi di batteri appartenenti ad oltre 40.000 specie diverse. L’ipotesi di riportare la flora batterica a uno stato di commensalità per combattere l’infezione da Clostridium rimaneva comunque valida.
Come ottenere un alto contenuto batterico benefico per contrastare i microbi patogeni e, in genere, per correggere la disbiosi? Una soluzione avrebbe potuto essere il trapianto di feci provenienti da un individuo sano. Già in passato l’introduzione di feci nell’intestino dell’animale malato aveva avuto un certo successo nei ruminanti. Nell’uomo i risultati pubblicati erano stati sporadici ed ostacolati dalla ovvia difficoltà nel fare accettare questa procedura. Ma il problema dell’infezione da Clostridium difficile resistente agli antibiotici è diventata negli ultimi anni pressante e questo fatto ha permesso di superare ogni ostacolo. In che cosa consiste il trapianto fecale? Le feci, dopo una manipolazione in laboratorio, vengono introdotte attraverso un sondino naso-gastrico, per clistere o attraverso un endoscopio direttamente nel colon.
Dopo la descrizione dei primi 4 casi trattati con successo da Eiseman nel 1958, altri 235 pazienti sono stati sottoposti a un trapianto di feci, fino al 2011, in genere per via rettale. In 166 di essi la ragione del trattamento è stata l’infezione da Clostridium difficile resistente agli antibiotici. Nell’87% dei pazienti il risultato è stato positivo. Non sono stati registrati effetti collaterali. La pressione pubblicaad utilizzare il trapianto fecale come trattamento ha indottola Federazione Americana del Farmaco (Fda) a modificare il suo primo giudizio restrittivo sul suo impiego.La Fda aveva considerato la procedura alla stregua dei farmaci da investigare e quindi da sottoporre ad autorizzazione governativa. Attualmente il trapianto del materiale fecale è ristretto alle forme di infezioni resistenti da Clostridium ma viene escluso il suo impiego in altre patologie finché non sia stata accertata la sua completa innocuità.
Ma quali sono gli effetti collaterali temuti? Ovviamente il donatore di materiale fecale, in genere un consanguineo o un convivente, deve essere sano. Per questo sono eseguiti su di esso alcuni esami che escludano la presenza di batteri patogeni o virus, come l’Hiv, pericolosi per il ricevente. Tuttavia noi sappiamo assai poco dei batteri presenti nell’intestino umano e, quindi, non può essere accettata a priori l’innocuità del trapianto. Solo quando la salute è messa gravemente a rischio dall’infezione da Clostridium, il rapporto costo/beneficio si risolve a favore di una pratica con ipotetici ma non dimostrati rischi come il trapianto fecale. È questo il motivo per cui la Fda ha stabilito che in altre patologie, come il colon irritabile ad esempio, l’uso del trapianto dovrà attendere i risultati di studi controllati che ne accertino efficacia ed innocuità.
Possiamo stare tranquilli? La medicina moderna sta operando bene?
Fino a ora ci siamo occupati dell’intestino e dei vantaggi e svantaggi che il trapianto potrebbe causargli. Ma il resto dell’organismo umano? E in particolare il cervello?
Da molti anni il cervello umano, con le sue reazioni all’ambiente, sta dominando la scena in medicina. L’intestino irritabile, che per lo più racchiude una serie di sintomi che la scienza medica non è ancora in grado di attribuire a una causa organica, viene correlato a perturbazioni del sistema nervoso centrale come l’ansia, lo stress o la depressione. La medicina è l’unica scienza che non può esimersi dal dare sempre spiegazioni, fare diagnosi e prescrivere rimedi. Il supposto ruolo del sistema nervoso come causa di sintomi al momento non spiegabili colma le lacune di conoscenza sulla genesi di molte malattie. A questo scopo è stata creata addirittura una disciplina, la psicosomatica. Una disciplina che tra parentesi farà nel futuro la fine dell’alchimia. Il concetto dell’asse cervello-intestino è stato quasi sempre visto, di conseguenza, come una via a senso unico. Tuttavia da anni sappiamo che la via può essere percorsa in senso inverso. Sappiamo che l’intestino ed il suo contenuto possono influenzare il cervello. Nel caso dell’encefalopatia porto-cavale nel paziente con cirrosi le tossine batteriche, ad esempio, possono indurre alterazioni cerebrali fino al coma. E che dire dei pazienti con stipsi che accusano cefalea ed altri malesseri? Possono le tossine ristagnanti nell’intestino esserne responsabili? Fin qui, comunque, ci siamo limitati a descrivere i rapporti dell’intestino umano con situazioni decisamente patologiche, ma ultimamente l’influenza della flora intestinale sul cervello è entrata nella vita e nel comportamento di tutti i giorni.
Due articoli pubblicati quest’anno hanno aperto scenari sorprendenti.
Il primo viene dalla Mc Master University in Canada. L’esperimento è semplice ma straordinario. Il trapianto di materiale fecale da un topino adulto ad un topino allevato in ambiente senza batteri (germ free) altera la chimica cerebrale ed il comportamento del topino ricevente. Questo studio si collega ai risultati di un precedente studio giapponese. Nel 2004 alcuni investigatori giapponesi avevano elegantemente dimostrato che la risposta allo stress del topo “germfree” era esagerata. Questi topini perdevano la normale cautela della specie e mostravano una maggiore esposizione al rischio. La colonizzazione successiva con batteri commensali riportava il loro comportamento nei limiti normali della specie.
Le conclusioni dello studio erano evidenti. Il contenuto intestinale poteva nel topo influenzare il suo comportamento e il suo rapporto con l’ambiente circostante e, quindi, interferire con i meccanismi cerebrali deputati ai sistemi di difesa. D’altra parte era già noto che il topo, infettato dal toxoplasma gondii, perde la sua naturale paura dei gatti e, sfortunatamente, si sente attratto dall’odore della loro urina divenendone facile preda. Per il Toxoplasma questo comportamento del topo diventa il darwiniano meccanismo della sua sopravvivenza. Ovviamente per il topo no! Sempre nel topo un importante passo conoscitivo ha successivamente dimostrato che i tratti ansiosi dell’animale precocemente allontanato dalla madre potevano essere alleviati dall’uso di batteri probiotici.
E nell’uomo? Le differenze tra la fisiologia del topo e dell’uomo sono certamente enormi. Ed enorme è ovviamente anche la differenza genetica. E negli umani stessi vi è una notevole diversità genetica che non esiste nei modelli animali. Cioè, anche se un esperimento nei vari modelli di topo è riproducibile, non possiamo traslarne i risultati all’uomo ed in particolare all’intera razza umana.
Il secondo sorprendente studio è stato pubblicato nel 2013 su Gastroenterology, la rivista della Società Americana di Gastroenterologia. Un gruppo di ricercatori delCentro di Neurobiologia dello stress all’Ucla ha riportato i dati di un trial controllato, randomizzato nel quale donne sane dal punto di vista fisico e mentale sono state esaminate con la risonanza magnetica funzionale del cervello dopo assunzione per 4 settimane di un latte fermentato con probiotici. Rispetto al gruppo di controllo, composto da donne che assumevano un latte non fermentato, il gruppo che assumeva probiotici aveva una ridotta risposta emozionale allo stress. In conclusione lo studio, finanziato dalla Danone, suggerirebbe che dall’intestino e, specificatamente, dalla sua flora possano partire segnali che siano in grado di influire sull’umore e sulla risposta allo stress. Con l’ovvia commerciale deduzione che lo yogurt migliora l’umore!
Il trapianto fecale, un super yogurt, potrebbe quindi travalicare il semplice obiettivo di correggere la disbiosi, entrando nel campo della neurofisiologia con promettenti prospettive da affrontare comunque con cautela.
Si deve nutrire sempre un saggio scetticismo per tutti gli studi che ottengono risultati che dimostrano vera un’ipotesi precedentemente formulata. Chi lavora nel campo scientifico ha sempre bisogno di sani risultati negativi. Anche se assai spesso gli studi con risultati negativi sono ardui da pubblicare. Tuttavia, che si possa in futuro modulare l’umore e la risposta allo stress ed intervenire in malattie complesse del sistema nervoso centrale attraverso la modificazione della flora intestinale, rimane un’affascinante ipotesi da continuare a investigare.
Cosimo Prantera (primario emerito di Gastroenterologia all’Azienda Ospedaliera San Camillo-Forlanini di Roma).