Cultura

“La società signorile di massa”

L’ultima fatica letteraria di Luca Ricolfi suggeritami dal mio amico Giovanni Raparelli, ci offre una visione della situazione italiana in chiaroscuro con non pochi spunti interessanti. Il titolo del lavoro “La società signorile di massa” propone un’analisi sociologica prima ancora che politica su una delle caratteristiche della nostra società, il sorpasso dei non occupati sugli occupati.

Una minoranza di produttori a fronte di una maggioranza di inoccupati. Questa situazione che, a prima vista potrebbe sembrare indice di una imminente ed inarrestabile recessione, viene analizzata da Ricolfi elaborando i dati sulle entrate medie delle famiglie italiane e arriva a stabilire che questo sistema che lui chiama per l’appunto società signorile di massa si regge sul fatto che gran parte dei non occupati può accedere al surplus patrimoniale prodotto dagli occupati senza contribuire a produrlo.

La tesi è che l’Italia non è un Paese benestante afflitto da alcune imperfezioni ma è un tipo nuovo e forse unico di configurazione sociale. Pur in presenza di una economia in fase di stagnazione se non recessione almeno tecnica, la società è retta dal surplus prodotto dalle generazioni del dopoguerra e del boom economico. I figli si avvalgono delle riserve di rendita e patrimoniali dei genitori per galleggiare in una situazione nella quale la mancanza di sviluppo, unita ad altri fattori strutturali, toglie prospettive alle nuove generazioni.

Questo fenomeno è sicuramente favorito anche dalla bassa natalità prodotta in parte dalle carenze delle strutture di welfare in parte dal venir meno delle ragioni che per secoli hanno portato le famiglie a generare figli in abbondanza.

L’avvento di una organizzazione del sostentamento in età senile attraverso il sistema pensionistico, una diversa organizzazione del lavoro e la drastica riduzione della mortalità infantile hanno prodotto la scomparsa del concetto di “bastone della vecchiaia” che era il principale motivo per avere un nucleo familiare solidare e numeroso.

Il secondo fattore che rende possibile secondo Ricolfi questa situazione è la distruzione del sistema scolastico. L’abbassamento dell’asticella della formazione, la facilità di arrivo a titoli di studio con elevate votazioni ha fatto si che molti dei neolaureati siano frustrati dal non trovare una occupazione adeguata alle loro aspettative. In questo senso credo sarebbe auspicabile l’abolizione del valore legale delle lauree.

Questo fattore, unito alla disponibilità economica familiare ha portato l’Italia ad essere il Paese con il maggior numero di giovani NEET ” Not in Education, Employment or Training”, persone non impegnate nello studio, né nel lavoro né nella formazione. Ricolfi li chiama i giovin signori.

Il terzo pilastro di questa struttura economico sociale è la formazione in Italia di una infrastruttura parasciavistica lo sfruttamento cioè al limite dello schiavismo di quella fetta della popolazione che non ha la possibilità di avvalersi di una rete di protezione familiare. In prevalenza queste persone sono gli immigrati, regolari e non, con l’aggiunta di una parte dei 3 milioni di italiani che sono considerati in povertà assoluta.

Questa analisi sarebbe del tutto condivisibile se le considerazioni che il sociologo fa sul motivo per il quale lui considera ancora l’Italia un Paese opulento lo fossero altrettanto. Ricolfi fa riferimento ad una serie di parametri che considera migliorativi delle condizioni di vita nella nostra società. A cominciare dalla situazione abitativa, il possesso di una abitazione di proprietà, quello di una seconda casa di vacanza, il numero di autovetture circolanti, l’accesso ai sistemi informatici e delle telecomunicazioni, la fruizione di vacanze fino ad arrivare al famoso parametro berlunconiano dei ristoranti sempre pieni.

Più che una società opulente gli italiani sembrano apparire come un gruppo di persone senza più cibo il cui corpo lentamente consuma il grasso accumulato. Più sei grasso più a lungo resisti ma la fine prima o poi arriva per tutti. Gran parte della capitalizzazione delle famiglie italiane si basa sul settore immobiliare che ha subito negli anni scorsi un vero e proprio tracollo specialmente nel segmento delle seconde case risultando essere stato un pessimo investimento per chi lo ha effettuato.

Altri consumi sono stati e lo sono ancora, indotti da stili di vita imposti dall’evoluzione dell’organizzazione del lavoro e dal notevole abbassamento del loro costo. A cominciare proprio dalla ristorazione. La compressione dei tempi di lavoro ha determinato la necessità, più che il lusso, di dover effettuare il pasto in locali che hanno finito per adeguarsi a questa tendenza.

Negli anni ’70 pranzare fuori casa avrebbe comportato l’esborso di una somma molto superiore di quanto ne serve oggi (impensabile allora entrare in un ristorante e ordinare una semplice insalata accompagnata da una bottiglia di acqua minerale). I bar sono diventati erogatori di pietanze a basso costo costringendo anche i ristoranti tradizionali a mettere in essere offerte di pasti a basso prezzo per la pausa pranzo.

Cosa dire dei viaggi. Non è stato certo l’aumento delle entrate a favorire i viaggi ma la caduta verticale dei prezzi degli stessi. La deregulation del trasporto aereo, quel mostro che le grandi compagnie europee hanno tentato invano di respingere ma con il quale hanno alla fine dovuto convivere cominciò a prendere corpo il primo gennaio del 1992.

Da allora le compagnie aeree hanno avuto piena possibilità non solo di applicare tariffe libere ma anche di liberare i voli dai lacci e lacciuoli delle regolamentazioni IATA che impedivano libere combinazioni dei viaggi aerei. Da qui la nascita delle compagnie low cost con la conseguente possibilità per le classi sociali prima escluse di potere effettuare a basso costo vacanze specialmente nel medio raggio.

La stessa cosa è successa con le nuove tecnologie in particolar modo nel campo della telefonia. Chi non ricorda le tariffe di telefonia mobile dei primi apparati portatili? Quanta strada fino ad arrivare a contratti flat con telefonate illimitate a pochi euro al mese. Tutto questo ha fatto si che mentre fino agli anni ’70 una famiglia che possedeva più di una automobile, che frequentava ristoranti e andava in vacanze più volte l’anno era ritenuta abbiente, oggi le stesse caratteristiche le troviamo in famiglie della classe media con rendita di poco superiore a quella della sussistenza che Ricolfi ci ricorda essere di 12000 euro annui netti. Non possiamo non tenere in considerazione questo fattore pena trovarsi a dire banalità sul spossesso di uno smartphone come nel caso dei migranti. Ci sono famiglie in sofferenza anche possedendo alcuni dei benefits citati da Ricolfi.

E veniamo alla questione dello sfruttamento semischiavistico di una fetta non irrilevante della forza lavoro. Questo sembra essere diventato il vero pilatro dell’economia italiana specialmente nei settori dell’agricoltura, dell’edilizia e dei servizi alla persone. Se è possibile seguire il ragionamento di Ricolfi sull’analisi dei NEET nostrani più complicato è lasciare ad un’analisi superficiale lo studio della moderna povertà. Ci può essere di aiuto ricordare lo studio sull’argomento effettuato da Serve Paugam il quale nella sua “Teoria elementare della povertà” descriveva tre tipologia di poveri:

– povertà integrata (quella che Marx definiva “componente del mercato del lavoro”)

– povertà marginale

– povertà squalificata

Alla prima componente fa parte quel numero niente affatto esiguo di persone che, a vario titolo, vengono pesantemente sfruttate (lavoratori precari, afferenti a cooperative, lavoratori non contrattualizzati fino ad arrivare allo sfruttamento della manodopera straniera che è in gran parte totalmente fuori controllo).

Alla povertà marginale appartengono quei soggetti che neanche alle qualifiche più basse e sottopagate possono essere associate per condizioni di marginalità personale assoluta.

Alla terza categoria appartengono quelle persone che, per propri comportamenti antisociali si pongono ai margini se non totalmente ad di fuori della società.

Come non vedere allora da questa prospettiva una inevitabile critica del sistema capitalistico che lo stesso Claudio Napoleoni, maestro di Rocolfi, ha fatto nei suoi studi ponendo la questione del superamento rivoluzionario dell’assetto capitalistico.

La situazione italiana è figlia delle politiche iper liberiste degli ultimi decenni e dell’accelerazione da queste avuta come conseguenza dall’evoluzione dei sistemi informatici. Troppo facile prendersela con l’atteggiamento “choosy” di forneriana memoria dei NEET nostrani.

La situazione è più complessa di così. L’economia italiana ha avuto il suo massimo impatto sulla società attraverso la miriade di PMI che hanno generato fatturati importanti negli anni del boom economico prima di essere schiacciate dal gigantismo delle grandi multinazionali e della tendenza non solo a delocalizzare la prodizione ma addirittura a brandizzare l’attività spostando il core business delle grandi aziende dalla produzione al marketing come ben analizzato da Naomi Klein già nel 2000 nel fortunato saggio “No logo”.

Qui non basta più riprendere la teoria marxista della formazione del plusvalore, ormai siamo di fronte ad una finanziarizzazione senza precedenti della ricchezza totalmente dissociata dai sistemi di produzione. Altro che semplice postfordismo qui siamo andati di molto oltre.

La gigantesca massa di denaro che è in circolazione e che opera attraverso le borse di tutto il mondo in tempo reale e con continuità H24 ha drogato l’economia mondiale creando una scollamento di proporzioni ancora non del tutto valutabili tra il mondo del lavoro e quello della finanza.

Troppo semplice dire che i millinnials vivono alle spalle dei propri genitori (cosa par altro anche parzialmente vera). Affermarlo significa essere come quella persona che cadendo da un grattacielo arrivato all’altezza del quarto piano dice “fino a qui tutto bene”.

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