In Sudafrica esiste un’infinità di Chiese e confraternite create da sedicenti profeti locali. In ogni dove s’incontrano predicatori che profetizzano sciagure o promettono miracoli. Non mancano congregazioni stravaganti – come quella i cui ministri benedicono i passaporti dei fedeli affinché possano ottenere il visto per l’Europa o gli Stati Uniti –, ma in fatto di originalità la Gabola Church non ha rivali. E va decisamente controcorrente.
Le Chiese pentecostali o apocalittiche condannano senza appello gli alcolici, additati come strumenti di perdizione. Leader religiosi si sono contraddistinti in questi anni come promotori di campagne proibizionistiche. Ispirati al puritanesimo calvinista dei primi evangelizzatori europei, in nome della moralità religiosa (e non della salvaguardia della salute) i pastori non si stancano di predicare la “tolleranza zero” nei confronti dell’alcol. Taluni sono riusciti a redimersi imboccando la strada dell’astemia. Ma la gran parte è stata ripudiata, emarginata, cacciata con sdegno fuori dalle chiese.
Nel 2017 Tsietsi Makiti ha iniziato a proclamare la sua fede libertaria e in poco tempo ha rastrellato moltitudini di etilisti, venditori di alcolici, gestori di shebeen (i pub di quartiere considerati illegali durante l’apartheid). «Gesù ci ha insegnato a pescare dove si possono trovare molti pesci – argomenta il presule –. Io predico in pub e taverne perché lì trovo tanti reietti, figli di Dio ripudiati da altre Chiese».
Le priorità del lockdown
La Gabola Church non è riconosciuta dal Consiglio delle Chiese sudafricano. Il suo “dissoluto” proselitismo è da più parti criticato. In Sudafrica l’alcolismo rappresenta una piaga sociale di proporzioni paurose. Con 140 litri pro capite in un anno, la nazione dell’arcobaleno guida la non invidiabile classifica continentale di consumo di bevande alcoliche (8 su 10 sono birre o distillati artigianali, a dimostrazione che l’alcolismo è diffuso soprattutto tra le fasce più povere). Secondo l’Oms, in Sudafrica un bevitore su quattro ha problemi di dipendenza.
Uno studio del 2018 pubblicato da Bmc Medicine ha rivelato che in un anno le morti di sudafricani adulti riconducibili al consumo di alcolici sono state 62.300 (circa 171 al giorno), e gran parte delle vittime erano persone con reddito basso. Numeri paurosi che hanno spinto il governo a correre ai ripari: promulgando una legge che limita la pubblicità degli alcolici, innalzando l’età minima consentita per bere (da 18 a 21 anni), modificando il codice della strada, rendendo più severe le pene per chi guida in stato di ebbrezza.
Non solo. Nel marzo 2020, coi primi casi di contagio da coronavirus registrati, il Sudafrica ha vietato la vendita di alcolici adducendo motivazioni scientifiche e sanitarie: «L’alcol può indebolire il sistema immunitario lasciando i pazienti più vulnerabili al coronavirus ed è inoltre un fattore di rischio per polmoniti e infezioni polmonari», ha spiegato un portavoce del ministero della Salute. Di più. Il consumo di alcolici è causa di un gran numero di ricoveri ospedalieri – pazienti reduci da ferite traumatiche evitabili legate all’abuso di alcol – e rappresenta un pesante fardello per i pronto soccorso che in questo periodo hanno necessità di essere invece alleggeriti per far fronte all’emergenza.
Ritorno alla “normalità”
La decisione governativa ha scatenato polemiche. Il presidente Cyril Ramaphosa non ha ceduto alla piazza (e nemmeno ai produttori, come la potente SabBMiller) e ha confermato fino a fine agosto 2020 il divieto assoluto di acquisto, vendita, trasporto di alcolici. I risultati gli hanno dato ragione: prima del lockdown, circa 35.000 sudafricani finivano ogni settimana all’ospedale per traumi, incidenti automobilistici, risse, episodi di violenza; con la chiusura di pub e rivendite di liquori il numero è sceso a 10.000.
Il divieto è stato tolto solo a inizio settembre 2020: il ritorno alla normalità è stato festeggiato dalla Gabola Church con una celebrazione solenne. I fedeli (che indossano la mascherina e mantengono le distanze anticontagio) hanno portato in chiesa casse di birra e i sacerdoti hanno stappato pregiate bottiglie di whisky. «Finalmente possiamo tornare a onorare Dio come si deve – gongola Tsietsi Makiti –. L’astinenza è durata troppo, è giunto il momento di brindare e pregare».
Marco Trovato AFRICA