Ambiente

Il Po ha ancora sete. “Agire subito o sarà emergenza”

Non accenna a placarsi il grave problema della siccità con il conseguente deficit idrico iniziato nel 2022. Il fiume Po, il più ampio di Italia e che si sviluppa su ben sette regioni, continua ad aver sete. Secondo il segretario generale dell’Autorità distrettuale del Fiume Po, Alessandro Bratti, è necessario intervenire perché la “situazione è molto preoccupante”. Il rischio è quello di ritrovarsi nella stessa situazione dell’estate scorsa. Il segretario generale avverte inoltre di non dimenticare il tema legato alla manutenzione dei territori perché “fondamentale per prevenire situazioni di emergenza”.

La situazione attuale del fiume Po non è una sorpresa. A che punto siamo?

“L’anno scorso la situazione si è presentata in maniera drammatica. Ciò è dovuto al fatto che c’è stata una congiuntura particolarmente critica a causa delle temperature record, della piovosità ai minimi storici e dell’assenza di neve. Questi fattori hanno portato a una situazione molto generalizzata, non solo in Italia, ma anche in diverse parti di Europa. I dati sono preoccupanti da diversi anni, già nel 2006 raccolsi a Boretto i dati del bacino e si vedevano chiaramente le portate del fiume Po che erano in calo e che i ghiacciai si stavano restringendo, quindi, già si cominciavano ad avere delle importanti anomalie termiche dovute al lento surriscaldamento del pianeta. In questo ambito l’Italia è uno spot particolarmente critico per cui diciamo che è da un po’ che questo fenomeno si sta manifestando e ha trovato negli ultimi anni una certa drammaticità, perché le richieste d’acqua rimangono molto elevate sia dal punto di vista agricolo, soprattutto nelle nostre zone. Dopodiché c’è un tema idroelettrico e idropotabile. Quest’anno si prefigura una situazione altrettanto grave, ma la differenza rispetto all’anno scorso, che sembrava appunto tutta generalizzata è che si verifica in aree più specifiche, localizzate nella parte nord ovest del bacino, quindi, Piemonte, grandi laghi lombardi e se non nevicherà in questo periodo anche in Trentino. Nella parte appenninica, al momento, ci sono state numerose nevicate e piogge per cui la situazione sembrerebbe migliore”.

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© AGF

Il condizionale è d’obbligo?

“Sì, perché nel caso in cui si dovessero alzare le temperature, la neve sciogliendosi confluirebbe nei fiumi. Il rischio è di ritrovarsi a maggio e giugno, quando inizia la stagione irrigua, con gli stessi problemi di sempre”.

Quando si nota maggiormente il deficit idrico?

“Quando c’è molta richiesta di acqua ossia quando inizia la stagione irrigua agricola. Quindi, anche pur avendo una situazione a oggi più tranquilla nella parte appenninica, non è detto che se si alzano le temperature questa riserva sia disponibile quando poi ce ne sia bisogno. Questa situazione di regime torrentizio che ormai hanno gli affluenti appenninici si riverbera moltissimo sulle portate del Po, portate che oggi non risultano essere costanti. La situazione è molto preoccupante”.

Nel caso in cui questa situazione dovesse perdurare, qual è lo scenario a cui potremmo andare incontro e quali misure andranno adottate?

“Premetto che il quadro conoscitivo di quanta acqua c’è e di quanto viene utilizzata in realtà, non è ancora così chiaro e definito. Soprattutto si ha poca conoscenza di ciò che c’è nelle falde. C’è un’assoluta necessità quindi di incrementare il livello conoscitivo del sistema acqua. In particolare, su questo tema, anche noi come Autorità siamo partiti con alcuni progetti in collaborazione con diverse università del bacino proprio per avere una conoscenza più approfondita delle dinamiche del rapporto tra falda, suolo e corsi d’acqua. Questo aspetto non risolve il problema, ma ci aiuta sicuramente a capire alcune dinamiche. Bisogna intervenire anche dal punto di vista della governance del sistema. Ci sono tanti enti che hanno parti di governo sul sistema. Nella fase di pre emergenza esiste un consesso che oggi è di carattere volontario che si chiama Osservatorio sulla Siccità dove noi come Autorità del distretto del bacino del Po dovremmo coordinare tutti gli stakeholder principali, le regioni, gli agricoltori, l’idroelettrico e anche le utilities di tutto il bacino per fare il punto e definire il quadro conoscitivo. In base al quadro conoscitivo – che normalmente ci viene fornito dalle agenzie regionali – dovremmo poi definire qual è lo stato effettivo della situazione. Nel caso in cui ci trovassimo in uno stato di difficoltà dobbiamo, quindi, decidere quali misure attuare per non andare incontro all’emergenza, dobbiamo avere un piano di intervento a seconda delle condizioni che si presentano”.

Quali sono i limiti a cui va incontro l’Osservatorio?

“Ho chiesto da tempo al Governo di introdurre degli organi dell’Autorità di distretto ossia che sia a tutto tondo un organo, quindi, che abbia una sua valenza anche dal punto di vista giuridico. Questo mi consentirebbe di poter definire una proposta, poi sarà la politica a decidere, ma io devo essere la segreteria tecnica che fa una proposta al decisore politico per poter attuare delle misure, ma per poterlo fare devo avere un riconoscimento giuridico che ad oggi non possiedo. A oggi non ho gli strumenti per poter maggiormente intervenire”.

A quali cambiamenti potrà andare incontro il settore dell’agricoltura?

“Alcuni tipi di colture andranno sicuramente gestite in maniera diversa rispetto a oggi, bisogna anche ragionare sulla possibilità di introdurre colture meno idroesigenti. Il riso è una delle colture che rischia di essere più penalizzata così come il mais. Il mondo dell’agricoltura, attraverso le sue associazioni, si sta ponendo il tema. Inoltre, dobbiamo sottolineare l’importanza di costruire infrastrutture che mantengano l’acqua. La proposta di soluzioni è varietà, non ci sono solo le dighe. Il progetto dei 10.000 laghetti ad esempio è molto interessante. Così come ci sono situazioni come quella del delta del Po, dove c’è un sistema di canali irrigui molto efficiente ed efficace. Questa situazione durerà ancora per molto tempo, di conseguenza all’interno di un piano di azione di adattamento climatico bisogna anche ottimizzare quelle già esistenti”.

Un altro fenomeno di cui preoccuparsi è il cuneo salino.

“Questo è un problema che non riguarda solo il Po, ma anche altri fiumi italiani. In merito a questo tema c’era un piano di progettazione che era stato licenziato da parte del ministero delle infrastrutture su cui noi abbiamo lavorato scegliendo, perché ci è stato chiesto di fare questo, tre infrastrutture strategiche, tra cui una diga nei pressi della Val d’Elsa e la costruzione di una barriera di sale. Questo è un sistema di filosofia simile a quello del Mose, che viene realizzato per impedire l’entrata dell’acqua alta. In questo caso dovrebbe impedire la risalita dell’acqua del mare. Bisogna però tener in considerazione che i corsi d’acqua devono mantenere il deflusso minimo vitale, ossia il deflusso ecologico che consente al fiume di essere dal punto di vista ecologico in equilibrio con l’ambiente. Quest’anno abbiamo dato moltissime deroghe a riguardo. Ci sono delle conseguenze come le morie di pesci e questo accade perché il cambiamento climatico ci mette davanti a delle situazioni talmente complessa da gestire che non possono essere risolte con una banalizzazione tecnocratica”.

Non bastano quindi delle infrastrutture adeguate?

“No, è una stupidità colossale. Le infrastrutture sono fondamentali, ma è una strategia complessiva che bisogna mettere in campo e che deve tener conto di tutti gli aspetti collaterali anche perché in questo modo risolvendo un problema ne crei altri dieci”.

Su quali altri aspetti dovremmo soffermarci?

“C’è un tema di carattere ambientale che deve essere posto e che deve partire dal famoso capitale naturale. Qual è il valore economico che generano il fiume Po e gli altri affluenti se in salute? È una cifra spropositata, noi stiamo cercando di fare degli studi per cercare di capire quale sia questo valore, perché questo è un valore che se venisse intaccato attraverso una non gestione corretta della scarsa risorsa idrica, rischia di perdersi. Non bisogna mai ragionare solo in termini settoriali”.

Quanto è impattante il nostro stile di vita sulla salute dell’ambiente?

“Moltissimo. Io non credo molto nella buona volontà dell’individuo di preservare e rispettare l’ambiente. Credo invece in una scelta utilitaristica, come ad esempio la raccolta differenziata. Bisogna far comprendere che esiste un valore economico, perché se si rende conto che questa risorsa non c’è, non si produce, non si guadagna e va in crisi un intero comparto economico. Per convincere le persone ad avere degli atteggiamenti responsabili bisogna spiegare e far capire che distruggere l’ambiente in cui si vive significa perdere risorse, i cittadini devono capire che è conveniente per tutti compiere determinate scelte”.

Le risorse stanziate dal Pnrr sull’acqua pensa che siano sufficienti e in quali ambiti verranno utilizzate?

“No. Diciamo che il progetto da noi ideato che si chiama Rinaturazione Po, da 357 milioni euro è sicuramente un progetto che darà dei benefici nell’ambito delle forestazioni, sulla morfologia del fiume e anche sul tema della decarbonizzazione dato che questi due milioni di alberi che saranno piantati assorbono co2. Questa tipologia di progetto non interviene però sul tema sicurezza idrogeologica del territorio. Il rischio di dissesti, spaccature e alluvioni è alto. Non dobbiamo dimenticarci dell’importanza del monitoraggio e della manutenzione dei territori. Nessuno parla della difesa del consumo di suolo. La tragedia di Ischia deve farci ragionare sul tema, non dimenticare. Ricordiamoci che al nord la situazione non è poi così fantastica. Bisogna tenere l’attenzione molto alta perché tutti i temi sono collegati tra di loro”.

Giorgia Petani (Agi)

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