Cultura

La guerra di Putin e le dinamiche di due imperi: l’Unione Europea accerchiata e sacrificata

Scorrono le immagini televisive dei fuochi dei bombardamenti, delle colonne di profughi in fuga dall’Ucraina, delle macerie e dei morti. Sale il disprezzo per Putin, per le sue strategie di sterminio. Piccola volpe dal volto omicida, che annaspa in un isolamento internazionale di dimensioni storiche. Sale anche in chi non ha mai pensato che Zelensky e la sua democrazia rappresentassero un modello cui attingere. Già, la democrazia. 

Fu Clistene a inventarla, a cavallo fra il VI e V secolo a.C. Un po’ tutte le polis, le città-Stato della Grecia antica, si erano dotate di un’organizzazione che, in base al censo, riservava agli “ottimati” le elezioni a tutte le cariche più importanti, amministrative e giudiziarie, sulla falsariga di quanto Solone aveva legiferato per Atene. Tutto filava liscio nella monolitica Sparta. Nella vivace Atene, invece, la tentazione dell’uomo solo al comando, serpeggiante tra gli ottimati, aveva prodotto il tyrannos, con conseguenti squilibri e turbolenze. Clistene capì che una maggior stabilità politico-sociale si sarebbe avuta allargando al “terzo stato”, i Teti, che in quanto cittadini avevano già il diritto di voto, la facoltà di decidere le leggi da presentare in assemblea. E Pericle, in seguito, estese a tutti i cittadini — anche ai burini fuori porta, quelli dell’agro attico — la possibilità di essere eletti a una carica, prevedendo un compenso per gli eletti che li ripagasse delle giornate di lavoro perse per svolgere il loro ruolo. «…Per quanto poi riguarda la dignità, ciascuno viene preferito per le cariche pubbliche a seconda del campo in cui sia stimato, non tanto per appartenenza ad un ceto sociale, quanto per valore; e per quanto riguarda poi la povertà, se qualcuno può apportare un beneficio alla città, non viene impedito dall’oscurità della sua condizione… A mio parere, il singolo individuo educato da noi può essere disponibile, e sufficiente, alle più svariate attività, con la massima versatilità e disinvoltura», rivendicava Pericle nel 429 a.C. Anticipando di oltre duemila anni il “sogno americano”. 

La peculiarità era che questa nuova organizzazione dello stato nasceva un po’ come un fungo in mezzo a imperi potenti e, a dire un eufemismo, assolutistici. Da quello Persiano in ascesa, al declinante impero egiziano, a quello fenicio in espansione in tutto il Mediterraneo. E quest’ultimo si era trovato di fronte le città dei Greci d’Occidente, non certo un impero, ma figlie ognuna di una qualche polis — degli Eubei, degli Achei, degli Spartani, dei Rodii, dei Locresi, dei Corinti — desiderosa di allentare la pressione demografica in nome della maggior ricchezza derivante dall’espandere traffici e orizzonti.

Questo singolare seme tale è restato per un paio di millenni e passa, lasciando da parte i miti delle società primitive libere e felici all’ombra della “grande madre” o delle comunità ugualitarie di stampo dravidico. Come dato di fatto, la democrazia è riuscita tal volta a contaminare gli imperi. A partire da quello romano, avvantaggiato dalla “eredità” greca — Graecia capta ferum captorem cepit —, che alle cariche elettive ha accoppiato una definizione dei diritti come proprietà del cittadino dell’impero e non come un qualcosa elargito da Cesare. Un gran riferimento, se si pensa che ancora men di due secoli fa le costituzioni che sancivano i diritti del cittadino erano octroyée, cioè benignamente concesse dal Sovrano. Solo con la Rivoluzione francese, di poco preceduta da quella americana, inizia il percorso faticoso e non lineare che, accanto alla proclamazione dei diritti del cittadino, porta alla legittimazione del potere statuale non come derivante da Dio, ma come espressione del “popolo sovrano”. Dal quale “popolo” resteranno a lungo escluse le donne, non previste peraltro dalla democrazia ateniese. Si sa, nessuno è perfetto e, un paio di secoli dopo Clistene, Aristotele ipotizzava che la donna non avesse anima. Uno che una qualche influenza ha avuto nella storia del pensiero, ma per non più di venti secoli a meno di ricorrenti ricadute, anche odierne, nell’“ipse dixit”. 

Il contrasto tra la visione aristotelica legata alla cultura delle polis, ormai in declino, e quella “imperiale” di Alessandro Magno è un ulteriore elemento a supporto di una lettura della storia, tra le tante possibili, come segnata dalla dinamica degli imperi e delle loro egemonie. Sempre confliggenti quando le aree di influenza andavano a confinare se non a sovrapporsi. 

È con “Imperialismo, fase suprema del capitalismo” (1917) che Lenin, scopiazzando abbondantemente ma intelligentemente dal “Das Finanzkapital” (1910) di Rudolf Hilferding, svela il carattere finanziario assunto dal capitalismo mondiale che, fase suprema, non esporta tanto merci quanto capitale finanziario, investimenti per sostenere il colonialismo, funzione insostituibile del modello economico capitalista. È la competizione capitalistica che porta alla guerra mondiale. Quasi una risposta, dal pamphlet di Lenin, all’angosciato interrogativo sul perché della guerra, che Benedetto XV aveva rivolto nel 1915 ai capi delle Potenze belligeranti. Senza ottenere risposta. Nell’analisi, anche quella di Hilferding, non viene forse dato adeguato risalto alla crisi di sovraproduzione che quella competizione aveva comportato, ma gli elementi di fondo configurano uno schema interpretativo che in prima ma buona approssimazione è applicabile ai conflitti del XX secolo. Dalla Seconda guerra mondiale al continuare e proliferare di guerre, dopo il 1945, che solo un tic coloniale riduce a “locali” e che anche il Papa ha rilevato come una terza guerra mondiale in corso o, meglio, il non essersi mai chiusa di fatto la Seconda. Con una caratteristica nuova, emersa con evidenza con la guerra del Kippur (1973) e la prima crisi energetica: il ruolo dell’energia, appunto. Petrolio, nelle due guerre del Golfo. Gas, nella guerra russa contro l’Ucraina.

E la democrazia? Assente negli innumerevoli Stati o staterelli a regime autoritario, negata in grandi imperi attuali, come quello cinese o russo, non se la passa bene neanche in Paesi formalmente democratici. Senza scomodare il Brasile di Bolsonaro, val la pena di guardare a quella “più grande” del mondo in termini demografici, l’India, dove non è stata sufficiente per superare la divisione culturale e storica in caste sociali, e circa 200 milioni di Dalit, i paria, non godono dei diritti del cittadino. O alla “più grande”, abitualmente citata, gli Stati Uniti, nati come realizzazione statuale — sì, lo Stato nato dalla costituzione democratica del 1776 — sul genocidio di nativi americani, che attraverso massacri, deportazioni e assimilazione sono stati dimezzati nel corso di un secolo e mezzo e deprivati di diritti. Analoga sorte per i Neri, ai quali sono di fatto ancora negati i diritti del cittadino in molti Stati del Sud.

Dopo le tragedie e gli sconvolgimenti del XX secolo — dittature sorrette dal populismo di masse ottenebrate da miti, due guerre mondiali, l’Olocausto — la democrazia si è rifugiata nella Ue, in quell’Europa vagheggiata, proprio durante il conflitto, dal gruppo di Ventotene. E soffre dell’abbandono da parte della più antica democrazia moderna, che le ha preferito il “richiamo del sangue” dell’antica colonia. E dell’imperuccio che i governi francesi si sono ostinati a mantenere, con spericolate e meschine performance, dall’intervento in Egitto del 1956 a quelli in Libia del 2011 e dell’altr’anno, a danno sicuro degli altri e, soprattutto, della costituzione di un’Europa politica.

Nell’angoscioso ritardare di una vera trattativa per la pace, nel crescere di morti, feriti e profughi, nel dolore per lutti e sofferenze la mente non può non ritagliarsi l’immagine di una grande accerchiata e sacrificata: l’Unione europea, sotto i colpi dell’impero “amico” di Biden, che ha cercato e cerca le sue convenienze e a tal fine esercita macroscopicamente forti pressioni, e dell’inintelligibile impero russo. Due imperi che, mentre il più grande, la Cina, resta a guardare, insieme sembrano convergere a rendere più debole la più bella ed estesa esperienza di democrazia realizzata nella storia dai tempi di Clistene.

Massimo Scalia. Fonte: Italialibera

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