Editoriale

Le guerre fatte con il silenziatore

Il nuovo Segretario Generale dell’ONU Antonio Guterres nella sua prima dichiarazione ha detto di voler mettere la guerra al centro della sua agenda. C’è da sperare che non segua le orme dei suoi predecessori che nulla hanno fatto, o potuto fare, per contenere se non abolire i conflitti. Gino Strada, fondatore di Emergency, ha lanciato una iniziative per l’abolizione della guerra. Papa Bergoglio non perde occasione per esortare i potenti della Terra a superare la guerra come “risoluzione delle controversie internazionali” (cit). Abbiamo cambiato nome alle guerre, abbiamo cercato, inutilmente, di “umanizzarle” indorandone la narrazione come di “umanitarie”. “Guerra al terrorismo” si dice. La domanda è: c’è più terrorismo oggi o 16 anni fa quando tutto questo ha avuto inizio? E allora cosa non ha funzionato. Molto semplice: il concetto stesso di guerra. La stessa natura dei conflitti. Le menzogne che intorno ad essi vengono raccontate ad una opinione pubblica, non più solo occidentale, troppo benestante per essere pronta all’estremo sacrificio dei figli alla Patria. Come diceva Albert Einstein “la guerra non la si può umanizzare, la si può solo abolire”. E per abolirla dobbiamo cominciare a dichiarare i motivi veri per cui la guerra si fa.

Ogni volta che inizia una guerra o riprende un conflitto sopito da qualche tempo potete stare certi che “dietro” c’è qualche risorsa naturale che i grandi paesi industriali vogliono controllare. Lo sviluppo delle nuove tecnologie belliche iniziato con la Seconda guerra mondiale ha fatto si che l’approvvigionamento delle materie prime diventasse sempre più strategico. Non più solo petrolio e ferro ma anche cromo, uranio, ed altro diventano sempre più importanti per l’industria civile e bellica delle grandi potenze industriali. La decolonizzazione ha portato ad un cambiamento delle strategie delle potenze ex-coloniali. Non più conflitti diretti ma il controllo di governi fantoccio asserviti agli interessi dell’ex colone bastava per assicurarsi un imponente business nella vendita di prodotti industriali civili e militari.

La crisi in IRAN nel 1951 quando Mossadeq depose lo shah e procedette alla nazionalizzazione del petrolio, innescò una serie di reazioni a catena che portarono le cosiddette “sette sorelle” a favorire il ritorno di Mohammad Reza Pahlavi da una parte ma anche  la sottoscrizione il 19 luglio 1955 per iniziativa di Nasser, Nehru, Chu En-Lai e Sukarno di un accordo fra paesi non allineati, ormai in numero sufficiente per poter avere un peso strategico nell’assemblea delle Nazioni Unite.

La nazionalizzazione nel 1956 del Canale di Suez fu un altro segno della ribellione dei Paesi in via di sviluppo. Da quel momento in poi la guerra si spostò sul piano del controllo dei prezzi del petrolio.  A questa fase si deve  la costituzione, nel 1960, di una organizzazione, l’OPEC, col proposito di regolare produzione e prezzi in modo da attenuare lo strapotere delle “sette sorelle” del petrolio.

Sempre sulla scia della rivolta verso le potenze straniere il 1 novembre 1969 Gheddafi salì al potere il Libia, col programma di assicurare al suo paese maggiori guadagni dalla vendita del petrolio fino ad allora estratto dalle grandi compagnie petrolifere e pagato prezzi bassissimi. L’aumento del prezzo del petrolio libico di 50 centesimi di dollaro al barile decretato da Gheddafi  il 14 settembre 1970 diete inizio ad una reazione a catena che portò alla crisi energetica dei primi anni ‘70.

In tutt’altra zona del mondo e per ben altri interessi spinsero il 3 novembre 1970  all’elezione in  Cile del socialista di Salvador Allende. Questo fatto aggravò la pressione che Paesi in via di sviluppo portavano all’apparato industriale delle grandi compagnie occidentali. Allende annullò gli indennizzi assicurati anni prima dal precedente presidente  Frei e nazionalizzò le miniere di rame. Allende ed il Cile tutto pagarono un prezzo altissimo per questa ribellione all’ordine mondiale con il golpe dell’11 settembre 1973.

Sempre quell’anno, il 6 ottobre 1973, scoppiò la quarta guerra arabo-israeliana. L’ennesima vittoria di Israele fu una delle cause dell’aumento, il successivo 8 ottobre, dei prezzi del petrolio decretato dall’OPEC.  

Negli anni a seguire furono innumerevoli i tentativi da una parte di controllare le proprie risorse naturali da parte dei Paesi produttori e dall’altra la reazione del  mondo industriale che  riuscì a soffocare altri focolai di ribellione, come il colpo di stato in Katanga nel giugno 1977 che aveva fatto aumentare temporaneamente il prezzo del rame e del cobalto. La crisi Iraniana con la destituzione dello shah  nel marzo 1979 ad opera di Khomeini portò ad un nuovo aumento del prezzo del petrolio. La reazione del mondo occidentale si manifestò nel favorire la lunga guerra fra Iran e Iraq, durata ben 8 anni, con lo scopo di dividere il mondo arabo rallentando il processo di sviluppo unitario e facendo crollare il prezzo del petrolio e delle altre materie prime.

In tutti i conflitti deli anni ottanta del Novecento ci fu il fine dello sfruttamento delle risorse naturali. Dall’Angola (diamanti e minerali) alla Somalia (petrolio) fino al territorio dei Sarawi (fosfati), questi conflitti resero ancora più poveri Paesi altrimenti ricchi di risorse.

Le nuove tecnologie legate allo sviluppo dell’informatica e delle telecomunicazioni hanno portato l’attenzione su nuove materie prime e, conseguentemente, nuovi territori da controllare. E’ il caso del coltan in Congo.

Il coltan è una sabbia nera leggermente radioattiva. Da essa si estrae il tantalio, un raro conduttore metallico, usato nell’industria della telefonia mobile, nella componentistica dei computer e in quella degli aerei, per aumentare la potenza degli apparecchi riducendone allo stesso tempo il consumo energetico.

L’80% delle riserve mondiali di questo materiale viene nella Repubblica Democratica del Congo. Nonostante questo, e forse proprio a causa di questo, quello congolese rimane uno degli stati più poveri del mondo.

La corsa al Coltan ha causato 11 milioni di morti  in una lunga e sanguinosa guerra civile scatenata dal 1998 ad oggi proprio per il controllo di questo minerale.

 Un altro esempio della devastazione del continente africano per il controllo delle sue immense risorse è la guerra civile nella Repubblica Centrafricana  che ha portato al potere i ribelli della coalizione Séléka, con la conquista della capitale Bangui . Dietro questo conflitto si celano interessi geostrategici che vanno ben al di là delle divergenze politico-istituzionali tra gli insorti e il governo del presidente François Bozizé, costretto a fuggire all’estero.

 Il vero obiettivo sono le ricchezze del sottosuolo (petrolio e uranio). Esse costituiscono, infatti, un fattore altamente destabilizzante per l’ex colonia francese. Proprio i francesi hanno finito per appoggiare la rivolta per contrastare l’influenza della Cina che aveva fatto importanti accordi economici con Bozizé. La Cina d’altronde è il Paese che da anni ha maggiori interessi a investire in Africa per alimentare la propria gigantesca macchina produttiva.

Altro esempio di mistificazione sui reali motivi della guerra è il Mali. Questo Paese è teatro da tempo di cruenti scontri tra ribelli jihadisti e forze lealiste. A dispetto delle dichiarazioni dei ribelli l’Islam c’entra ben poco. Il vero obiettivo è il controllo di giacimenti, ancora non sfruttati di petrolio e uranio. Come una fotocopia troviamo la situazione in Nigeria, uno dei principali paesi produttori di petrolio, dove Boko Haram un’organizzazione terroristica jihadista sunnita diffusa nel nord del Paese, porta avanti una devastante guerriglia.

E’ fin troppo evidente a questo punto che l’Africa continua ad essere una terra di conquista direttamente o indirettamente gestita dalle grandi potenze, non solo occidentali, ma anche asiatiche (Cina) o latinoamericane (Brasile).

Cosa ci insegna tutto questo ? Due cose fondamentalmente. La prima è che l’opinione pubblica mondiale se vuole essere partecipe di un cambiamento deve capire che è inutile andare dietro alle ragioni dell’uno o dell’altro dei contendenti. Non è questa la via per determinare una svolta nella lotta ai conflitti. La guerra va abolita in quanto non tollerabile sia da un punto di vista etico che da quello della compatibilità ambientale ed antropica. La seconda è che il contributo maggiore che noi tutti possiamo dare al raggiungimento di questo obiettivo  è il contenimento dei consumi, una più giusta ripartizione delle risorse materiali e finanziarie fra paesi ricchi e paesi poveri, uno sviluppo meno devastante, ed una cultura veramente più globale. La geografia planetaria è divisa in tre blocchi di paesi. Da una parte quelli industrializzati con una sempre alta anche se decrescente necessità di risorse (dovute un po alla crisi economica un po alle nuove tecnologie che riducono la dipendenza dalle tradizionali risorse). Dall’altra paesi di nuova industrializzazione, come Cina, India, Brasile, Indonesia, affamati di petrolio, gas, minerali, cereali, legname ecc. molto riluttanti ad accogliere l’invito di paesi che fin ora si sono arricchiti devastando risorse e natura ed ora vogliono imporre a chi si affaccia da poco alla tavola del consumismo una riduzione delle emissioni e dello sfruttamento. Tra questi due blocchi troviamo i  paesi poveri e poverissimi detentori di materie prime rapinate dagli altri due mondi. E proprio fra questi ultimi nascono movimenti di ribellione che tendono a rendere sempre più instabile l’ordine mondiale. Una scelta, a questo punto, si impone. O si vuole andare verso il riequilibrio sostenibile dello sviluppo economico e sociale o si sta sulle barricate accettando il prezzo delle guerre e dell’instabilità che stiamo vivendo in questo ultimo periodo. Per quanto mi riguarda sto con Gino Strada e con Emergency: lavoriamo per abolire la guerra, rendiamo il mondo un posto dove tutti possano trovare risorse per una vita degna di questo nome.

Roberto Pergameno

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