Intelligence

NOVITA’  Se dico IA, dì la verità: sai sul serio di cosa parliamo?

Quando si vuole iniziare un articolo con cui affrontare un tema attorno al quale articolare un abbozzo di opinione, una tecnica consolidata è quella di citare un fatto di cronaca recente, di grande attualità o, magari, particolarmente curioso, come gancio a cui far seguire una più o meno dotta disquisizione.

Parlando di intelligenza artificiale, avremmo solo l’imbarazzo della scelta. La struttura tipo di una delle centinaia di newsletter sull’argomento è tipicamente composta da: segnalazioni di nuovi papers che illustrano nuovi metodi avanzati di deep learning, pubblicità di nuove app che promettono risultati stupefacenti nella produzione di contenuti generativi o nel miglioramento della produttività individuale, echi della guerra commerciale (e legale, talvolta) tra i soliti big players del mercato,  nuove normative e relativo dibattito, nuove modalità di attacchi informatici rispetto alle quali abbiamo ancora da capire molto, il tutto a una velocità tale da rendere indistinguibile le notizie vere dal rumore di fondo.

E se dalle newsletter tematiche andiamo alla stampa generalista, il quadro che emerge è ancora più confuso.  Al punto da chiederci di cosa esattamente stiamo parlando, come scriveva Raymond Carver a proposito dell’amore, quando parliamo di intelligenza artificiale.

Partiamo da lontano, perché è da lontano che si deve partire. Se con ChatGPT, nell’ultimo paio d’anni, si è scatenato il clamore mediatico, non è perché, improvvisamente, qualcuno si sia inventato qualcosa di radicalmente nuovo. I primi lavori di Alan Turing sul tema possono farsi risalire al 1936, e il convegno al  Dartmouth College che gettò le basi per tutto quanto è seguito in termini di filoni di ricerca e applicazioni pratiche, ha la sua origine concettuale in una proposta di ricerca scientifica che, nel 1955, per la prima volta introdusse quella terminologia, intelligenza artificiale, oggi inevitabile e onnipresente come la vostra convocazione alla riunione di condominio, o il festival di Sanremo, o il nuovo progetto di riforma della giustizia, fate voi.

Da allora, peraltro, il ciclo di sviluppo di ricerca e il finanziamento di progetti sull’IA ha attraversato varie fasi di accelerazione e arresto, e, non a caso, più volte, negli ultimi decenni, si è usato il termine “inverno dell’IA” per contrassegnare quei momenti in cui un particolare filone di sviluppo finiva per morire d’inedia dopo premesse interessanti (e contraddistinto dall’esaurimento di un bel po’ del budget di centri di ricerca solitamente finanziati da quel complesso militare-industriale di cui il discorso di commiato del presidente USA Dwight Eisenhower aveva ben palesato il ruolo a venire e i relativi pericoli).

Ma quello che accade, appena pochi anni fa, è che, a un certo punto, avviene un’ inaspettata congiunzione astrale.

Ciò che più volte era stato tentato diventa finalmente possibile quando tre diversi elementi si combinano, dando vita alla nuova “primavera” dell’IA che contraddistingue il nostro tempo (e che, secondo alcuni, potrebbe non avere ancora una vita così lunga davanti, ma di questo parleremo in un’altra occasione).

E i tre fattori di questa tempesta perfetta sono: le capacità di calcolo che le Graphic Processing Unit sviluppate nell’industria del gaming oggi garantiscono; la presenza di grandi imprese che dispongono delle risorse economiche per far girare decine di migliaia di processori nei grandi centri di calcolo ormai appannaggio solo di Bezos, Zuckerberg, Altman & co.; e, last but not least, gli zettabyte di dati che tutti noi abbiamo reso disponibili e pronti per l’uso (consapevoli o meno, volenti o nolenti), in quel recente passato che Shoshana Zuboff ha così ben raccontato e spiegato nel suo “Capitalismo della sorveglianza”.

E’ lì, e solo a quel punto, che strumenti tecnologici basati su idee vecchie di decenni, come le reti neurali, e su principi di matematica e statistica tutto sommato abbastanza basici, riescono a dare vita al prodotto industrializzabile di quelle tecniche di machine learning (il deep learning, in particolare) su cui oggi si basa il grande mercato dell’intelligenza artificiale generativa.

Ma attenzione, perché il deep learning, maschio alfa del branco di tecnologie di cui parliamo è solo uno, il capobranco, appunto, dei modelli possibili in base ai quali una macchina possa simulare, o tentare di avvicinarsi, a caratteristiche del modo di pensare di un umano o del suo modo di agire. Uno solo, e probabilmente non in grado di realizzare le promesse di uomini di marketing e consulenti aziendali. E anche questo è un tema che cercheremo di sviluppare in seguito.

Per ora, basti dire che di intelligenza artificiale, per tornare alle notizie di attualità, ne potremmo parlare, e ne parleremo, sotto molti disparati profili.

Potremmo, ad esempio, raccontare di come l’utilizzo di sistemi di IA abbiano consentito a Israele di pianificare ed eseguire l’uccisione di più (ad oggi) di 33mila uomini donne e bambini palestinesi a Gaza.

Oppure potremmo raccontare di come, nella spasmodica ricerca di sempre più dati con cui addestrare i nuovi pantagruelici modelli di IA generativa, le tecniche di raccolta indiscriminata di tutto quanto sia saccheggiabile sul web abbiano ormai esaurito (pare sia una nostra tendenza) le risorse esauribili, al punto da immaginare che l’unica soluzione possibile sia ormai quella di mettersi a produrre dati in qualche modo sintetici

Ancora, potremmo raccontare, e lo faremo, la storia del rapporto a doppio filo tra il mondo dell’IA e quello dello sviluppo di sempre nuovi modi di annientare il nemico di turno, e del grido di allarme che da più parti si è levato (per il motivo sbagliato, non ci sono né Matrix né Terminator dietro l’angolo) per creare un sistema di governance dell’IA simile a quello che – con tutti i suoi limiti – è stato creato da Hiroshima e Nagasaki in poi per le armi nucleari. E potremmo parlare di impatto ambientale dell’IA, di discriminazione razziale, di sfruttamento del lavoro degli “educatori” sconosciuti e sottopagati del “reinforced learning”, o di migrazione e controllo biometrico e delle emozioni, e ancora di tante altre cose. Quello che è certo è che non mancheranno occasioni né spunti di analisi.

Ma, per iniziare questa rubrica che, con cadenza mensile, cercherà di darvi un punto di pensiero laterale e di osservazione critica sul “di cosa parliamo quando parliamo di intelligenza artificiale”, forse è il caso di parlare, questa volta, di una storia che con l’intelligenza artificiale non ha molto a che fare.

La storia è quella dello scandalo “Horizon”, che prende il nome dal software utilizzato per la gestione e contabilizzazione delle attività dei piccoli gestori di uffici postali del Regno Unito da parte del Post Office britannico.

Si tratta forse del più grave caso di denegata giustizia della storia moderna di quel paese, e di un caso che risale ad almeno venti anni fa, quando di intelligenza artificiale i nostri giornali non riportavano che il nulla. La storia, nella sua tragedia, è una storia semplice: Fujitsu si aggiudica un mega-contratto per la fornitura del software per la gestione dei piccoli uffici postali periferici. Il software è atrocemente pieno di bug, e produce, tra l’altro, una serie di segnalazioni di possibili ammanchi di cassa o altre irregolarità amministrative e contabili che vengono attribuite alla responsabilità dei piccoli gestori locali. Nella quasi totalità dei casi, le irregolarità non sono state commesse.

E’ già tutto scritto, e la fine è nota. Di fronte alle contestazioni, nessuna difesa è opponibile. Lo ha detto il computer, quindi è vero. Centinaia di persone hanno visto la loro vita distrutta, sono state condannate, alcune si sono tolte la vita, molte hanno perso ogni mezzo di sussistenza e tutte hanno visto distrutta la propria reputazione. Nel frattempo, la Fujitsu ha continuato ad aggiudicarsi mega-contratti, i suoi manager hanno incassato bonus milionari, nessun politico o alto burocrate ha ancora pagato nulla. Fino a quando, anche questo un segno dei nostri tempi, una docu-fiction della TV pubblica inglese non è diventata virale, riaprendo un’inchiesta pubblica che, speriamo, porti un po’ di giustizia a chi ancora potrà beneficiarne, e forse a tutti noi.

Qui l’IA non c’entra nulla. Ma il potere sì, quello c’entra moltissimo. E per chiudere questa introduzione, forse è utile riflettere a quanto il problema dell’IA non sia che il problema del potere di chi l’IA la sta producendo, vendendo, comprando, utilizzando, appaltando, regolando, e imponendo, anche quando è l’ultima cosa di cui avremmo bisogno. 

Alla prossima.

 

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