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Tunisia, quattro condannati a morte per l’omicidio, nel 2013, dell’oppositore di sinistra tunisino Chokri Belaïd

Si è concluso con quattro condanne a morte, due ergastoli, 12 pene da due a 120 anni e cinque assoluzioni, il processo per l’assassinio dell’oppositore di sinistra tunisino Chokri Belaïd. Il verdetto del Tribunale di Tunisi, arrivato dopo undici anni, è stato annunciato ai media da Aymen Chtiba, vice Procuratore generale dell’Unità Giudiziaria Antiterrorismo.

Gli interrogatori degli imputati sono iniziati lo scorso 6 febbraio, l’udienza è stata più volte aggiornata per l’assenza dell’avvocato difensore dell’imputato di Ahmed Amine Guesmi, il conducente della motocicletta che trasportava Kamel Gadhgadhi, l’uomo che ha sparato a Belaid, successivamente ucciso in un’operazione di sicurezza. Un avvocato è stato nominato d’ufficio a seguito di una disfunzione procedurale, mentre la difesa di un altro imputato, Riadh Ouertani, aveva chiesto che venisse ascoltato per iscritto, in quello che sembra essere stato un tentativo di guadagnare tempo.

Alla sbarra, in totale, 23 persone, accusate a vario titolo dell’assassinio dell’attivista, forte critico del partito islamico tunisino Ennahdha, allora al potere. L’omicidio fu uno shock per la Tunisia ma anche una svolta storica per la vita politica del Paese, che dalla reazione suscitata nella società civile seppe trovare la forza per intraprendere la strada – non priva di ostacoli – della transizione, diciamo, democratica.

Chokri Belaid, era un politico e avvocato tunisino, leader dell’opposizione con il Movimento dei patrioti democratici laico di sinistra. Era un forte critico del regime di Ben Ali prima della rivoluzione del 2011 e dell’allora governo tunisino guidato dagli islamisti. Il 6 febbraio 2013 è stato ucciso a colpi di arma da fuoco davanti alla sua casa a El Menzah VI, nella capitale Tunisi. Mohamed Brahmi, invece, era il fondatore ed ex leader del Movimento popolare che, sotto la sua guida, ha guadagnato due seggi alle elezioni costituenti nel 2011. Anche Brahmi è stato ucciso a colpi di arma da fuoco a Tunisi fuori dalla sua casa ad Ariana, davanti a sua moglie e ai suoi figli da due uomini su una motocicletta, secondo le ricostruzioni. I due, considerati “martiri”, erano membri della stessa coalizione di sinistra. Il ministro dell’Interno d’allora, Lotfi Ben Jeddou, dichiarò in una conferenza stampa all’epoca dei fatti che “la stessa arma automatica da 9 millimetri che ha ucciso Belaid ha ucciso anche Brahmi”. Dopo le loro morti, centinaia di tunisini, inclusi parenti e membri del partito del Movimento popolare, hanno manifestato davanti all’edificio del ministero degli Interni in Avenue Habib Bourguiba, nella capitale, e hanno accusato dell’assassinio il partito in carica Ennahda, il quale oggi sostiene che le sentenze dimostrerebbero l’estraneità ai fatti del partito islamista.

Il suo assassinio, il primo nel Paese da decenni, scatenò proteste di massa e ha contribuito a portare alle dimissioni dell’allora primo ministro, Ali Laarayedh, del partito del Rinascimento di cui nel 1981 è stato un portavoce fino al 1990 quando è stato arrestato e torturato dalla polizia e successivamente condannato a quindici anni in prigione, in cui ha subito torture e sono state eseguite pericolose tecniche mediche che gli sarebbero potute costare la vita, tutto durante le dittature dei presidenti Habib Burguiba e Zine El Abidine Ben Ali.

Dopo 11 anni e notevoli sforzi della magistratura tunisina per far luce sul caso, con indagini, piene di stralci, problemi procedurali, accuse di depistaggi e nonostante il verdetto odierno, rimangono ancora zone d’ombra da chiarire riguardo a dinamiche e mandanti di questo omicidio politico, sottolineano gli osservatori.

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