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El Pueblo Unido, Jamas Sera Vencido

Il presidente eletto della Colombia, Gustavo Petro, ha assicurato nel suo primo discorso dopo aver vinto le elezioni che oggi il suo Paese è cambiato, è un altro, e ha proposto un “grande accordo nazionale” per non approfondire le divisioni.

Qui quello che sta arrivando è un vero cambiamento, un vero cambiamento, in questo si compromette l’esistenza, la vita stessa, non tradiamo quell’elettorato che quello che hanno gridato al Paese, quello che hanno gridato proprio alla storia è che come di oggi la Colombia cambia, la Colombia è un’altra”, ha detto Petro davanti a un pubblico che lo ha acclamato alla Movistar Arena di Bogotà.

Il primo presidente di sinistra della Colombia ha celebrato “la prima vittoria popolare” dopo la sua elezione che rompe con una storia di governi di partito tradizionali. L’ex guerrigliero è il primo presidente di sinistra in assoluto della Colombia (devastata dalla crisi). “Oggi è una festa per il popolo. Possa celebrare la prima vittoria popolare. Possano tante sofferenze essere attutite dalla gioia che oggi inonda il cuore della Patria”, ha scritto su Twitter il senatore ed ex guerrigliero che ha sconfitto il milionario indipendente Rodolfo Hernàndez.

 

Il fenomeno Petro

Petro è stato sindaco di Bogotà dal 2012 al 2015, un periodo non privo di polemiche e che ha dato vita a racconti poco lusinghieri su presunte tendenze dispotiche.
E’ entrato nella corsa alle presidenziali del 2022, la sua terza, come sedicente guerriero per gli emarginati – neri e indigeni, poveri e giovani – promettendo di affrontare la fame e la disuguaglianza.

Il padre di sei figli è descritto come un buon oratore, anche se non necessariamente carismatico. E’ un appassionato di mappe e un appassionato di social media.

Nato in una famiglia di mezzi modesti sulla costa caraibica della Colombia, Petro ha abbracciato la politica di sinistra da adolescente, dopo il colpo di Stato del 1973 in Cile che ha destituito il primo leader marxista eletto al mondo, Salvador Allende.

A 17 anni si unì al gruppo di guerriglia urbana M-19, ma in seguito insistette sul fatto che il suo ruolo nei decenni di sanguinosa guerra civile colombiana era quello di organizzatore, mai di combattente.

Petro è stato catturato dall’esercito nel 1985 e ha dichiarato di essere stato torturato prima di trascorrere quasi due anni in carcere con l’accusa di detenzione di armi. Fu liberato e l’M-19 firmò un accordo di pace con il governo nel 1990. Da allora è stato senatore e sindaco.

I critici di Petro hanno cercato di dipingerlo come un populista radicale che porterà al collasso economico in stile venezuelano. Tuttavia, ha inveito contro il dominio da “repubblica delle banane” del vicino colombiano e ha giurato che non ci saranno espropri sotto il suo controllo. Petro non è nuovo alle minacce di morte, anche se di recente ha dichiarato all’AFP che cerca di evitare di pensare a questa possibilità in un Paese con una tradizione di omicidi politici.

Viaggia in un convoglio di una dozzina di veicoli blindati, accompagnato da polizia in motocicletta, un’ambulanza e cecchini. Ha dichiarato di voler riaprire i negoziati con l’ultimo gruppo guerrigliero colombiano, l’ELN, e di voler smantellare pacificamente il traffico di droga.

Petro si è prefisso di affrontare il problema del cambiamento climatico, in modo alquanto controverso, eliminando gradualmente l’esplorazione del petrolio greggio, un’importante fonte di reddito per la Colombia.

Una nuova leadership di sinistra si affaccia in Sudamerica con differenze sostanziali tra paese e paese a dimostrazione, se mai ce ne fosse bisogno, che si tratta di un continente in profonda trasformazione e alle prese con una stagione di forti cambiamenti sociali e politici. Un outsider della sinistra radicale e rurale diventa presidente del Perù, un ex leader studentesco cileno si afferma nelle primarie della sinistra in vista delle presidenziali di novembre. Due figure distanti dall’immagine dei leader progressisti sudamericani degli ultimi anni, da Maduro a Lula ai Kirchner.

Dopo un mese e mezzo di attesa Pedro Castillo è stato finalmente proclamato presidente in Perù. L’ex maestro rurale e sindacalista di sinistra aveva sconfitto al ballottaggio Keiko Fujimori per un margine risicatissimo, appena 44.000 voti su un totale di quasi 18 milioni. La figlia dell’ex presidente autoritario ha fatto di tutto per ribaltare quel risaltato, presentando ben 270 denunce di brogli alla corte elettorale, che le ha analizzate e respinte una a una. Non contenta, ha mandato in piazza a Lima i pasdaran del suo movimento ”Fuerza Popular”, che in diverse occasioni si sono scontrati con le forze dell’ordine. Castillo, a sua volta, ha portato nella capitale migliaia di contadini dell’altipiano dimostrando la sua natura “campesina” e capitalizzando la diffidenza del Perù rurale verso l’immagine del potere corrotto di Lima. Keiko ha cercato di formare un blocco moderato-conservatore contro il “pericolo comunista”, ma in questo tempo Castillo ha potuto costruire nuovi rapporti con diversi leader moderati, come i candidati sconfitti al primo turno Julio Guzman e George Forsyth, che hanno in qualche modo legittimato la sua affermazione. Il fujimorismo duro e puro si è trovato così isolato, la sua leader adesso dovrà tornare a occuparsi dei guai con la giustizia, già che è inquisita nel processo per le mazzette pagate dalla società di costruzione Odebrecht, una costola dell’inchiesta lavajato brasiliana. Per Castillo, in ogni caso, la strada è tutta in salita. Formalmente dispone di meno di un terzo dei seggi in Parlamento; oltre ai deputati eletti dal suo partito “Perù Libre”, si è alleato con la progressista Veronika Mendoza, ma a fare da ago da bilancia saranno quattro diverse formazioni di centro che al primo turno delle elezioni hanno portato a casa ciascuna fra il 5 e il 10% dei seggi. Bollato come “bolivariano” ed estremista dalla destra, il profilo politico di Castillo è meno chiaro di quanto lo si voglia far credere. Se in economia è considerato un esponente della sinistra radicale, è a favore della nazionalizzazione degli idrocarburi e di una forte presenza dello Stato nella produzione e nel commercio, nel campo di diritti civili e laicità è un conservatore, profondamente contrario alla legalizzazione dell’aborto e al matrimonio tra persone dello stesso sesso. Il suo probabile ministro dell’Economia sarà Pedro Franke, un economista che gli ha fatto da portavoce nelle ultime settimane di campagna, tranquillizzando i mercati sulla difesa della proprietà privata nel prossimo governo.

In Cile la vera sorpresa è stata Gabriel Boric, eletto nelle primarie della lista di sinistra “Apruebo Dignidad” come candidato alle prossime presidenziali di novembre. Boric se la vedeva con l’esponente del partito comunista Daniel Jadue, sindaco di Recoleta, cittadina nella periferia di Santiago. Un milione di voti per il primo, settecentomila per il secondo, un’affermazione netta costruita soprattutto con il voto dei giovani, che stanno tornando dopo anni di disaffezione a interessarsi alla politica. Boric ha appena compiuto 35 anni, l’età minima per diventare presidente, ha iniziato in politica come leader del movimento studentesco durante la rivolta dei “pinguini” del 2011, la sua agenda è di sinistra ma di rottura rispetto a Cuba o Venezuela. Attento al movimento femminista e alla difesa dell’ambiente ha un profilo “pop”, che piace ai ventenni; scapigliato, giacca di pelle e folta barba e può essere la vera novità in una stagione cruciale per il Cile che nei prossimi dodici mesi dovrà elaborare ed approvare una nuova Costituzione. Non a caso è stato proprio lui uno degli artefici in parlamento dell’accordo con il centrosinistra e la destra per definire le regole del referendum sull’assemblea costituente appena insediatasi. Il suo profilo è sicuramente meno radicale rispetto a Jadue, può sedurre anche votanti moderati delusi dai partiti tradizionali. Anche a destra c’è stato un piccolo terremoto, con la sconfitta nelle primarie dello storico leader Joaquin Lavin a favore dell’ex democristiano Sebastian Sichel. Lavin, sugli scudi da 20 anni, esce così di scena in un momento critico per i partiti conservatori, danneggiati dalla bassa popolarità del governo uscente di Sebastian Piñera. Nel centrosinistra i giochi non sono ancora definiti; socialisti, radicali e democristiani hanno un loro candidato e dovranno decidere a breve chi presentare come esponente dello spazio comune della vecchia Concertación. L’affermazione di due candidati certamente non estremisti come Boric e Sichel non aiuta il campo moderato, già che aumenta la polarizzazione in vista del voto del 21 novembre. Se è difficile fare previsioni, quando mancano ancora quattro mesi al voto, appare chiaro che ci sarà bisogno del ballottaggio a dicembre e lì più che i programmi conteranno le alleanze, sia a destra e che a sinistra. In Perù, invece, Castillo si prepara per l’investitura ufficiale che avverrà il 28 luglio, anniversario dell’indipedenza del 1821. A due secoli esatti dalla sua nascita la nazione andina, particolarmente colpita dalla pandemia, affronta uno dei periodi più complicati della sua storia.

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