La cosa più difficile quando si vuole affrontare il problema del razzismo nello sport è quello di evitare le banalità. Cadere nell’ovvio e nella retorica è più facile in questo campo che in altri perché la retorica, per l’appunto, dello sport come disciplina buonista portatrice di valori universali ecc.. ha sempre imperato nei sepolcri imbiancati dell’informazione e della pubblicistica. Tanto per tenere fresca la memoria citiamo qui di seguito i casi più eclatanti i di razzismo avvenuti nei capi sportivi in Italia.
Nel 1989 tra gli acquisti dell’Udinese c’è anche Ronny Rosenthal, attaccante israeliano. Nei giorni precedenti sui muri di Udine compaiono diverse scritte: “Ebrei via dal Friuli”, “Rosenthal go home”, “Rosenthal vai nel forno”. Rosenthal alla fine se ne andò al Liverpool e l’Udinese pagò 61 milioni di lire al giocatore, che vinse la causa per discriminazione.
Nel 1992 Aron Mohammed Winter, origini del Suriname, ha la pelle scura e, inoltre, è ebreo. Viene accolto a Roma dagli stessi tifosi laziali con cartelli tipo “Winter raus”, “Winter vattene”, “Non vogliamo ebrei”.
Stessa cosa qualche anno dopo a Verona con Maickel Ferrier giocatore nero “Il negro ve lo hanno regalato, fategli pulire lo stadio”, recita uno striscione in curva vicino ad un altro “Gott mit uns”, siamo nell’aprile 1996. Anche in questo caso vincono loro, il giocatore se ne va.
Nel 2001 Omolade è nato in Nigeria viene ingaggiato dal Treviso, ma quando entra in campo i tifosi trevigiani ritirano gli striscioni e abbandonano lo stadio.
Nel 2005 André Kpolo Zoro, difensore ivoriano durante un Messina-Inter decide di prendendo la palla in mano, interrompendo il gioco, e uscire dal campo disgustato dagli insulti razzisti.
2012 Giulio Osarimen Ebagua, di origini nigeriane giocatore del Varese, durante una partita di Coppa Italia si è dovuto sorbire cori come “Torna in Africa”, “Di Ebagua me ne frego” e “Ebagua non ti vogliamo”, dai suoi stessi supporter.
2013 Kevin-Prince Boateng durante un Pro Patria-Milan beccato da cori razzisti durante i primi trenta minuti di partita, prende la palla e la calcia verso la curva dei tifosi di casa. Poi si toglie la maglia e se ne va, la partita viene interrotta e non riprende più.
Nel 2014 vengono lanciate delle banane dagli ultras atalantini ai giocatori Kevin Constant e Nigel de Jong durante un Atalanta-Milan.
Nel 2015 Paul Ince, ex centrocampista inglese dell’Inter, durante un Cremona-Inter metà stadio lo beccò con cori razzisti per oltre venti minuti, dopo uno scontro con il portiere avversario.
2017 ululati e i versi da scimmia a Sulley Muntari durante un Cagliari-Pescara, insulti razzisti al difensore senegalese del Napoli, Kalidou Koulibaly, durante la partita con l’Inter, quelli al giovane nero italiano Moise Kean durante Juve-Cagliari
2018 insulti a Romelu Lukaku a Cagliari e a Frank Kessié, a Verona.
Fino ad arrivare all’episodio della scorsa settimana quando Mario Balotelli durante Verona Brescia ha interrotto la partita scaraventando la palla in tribuna a seguito degli insulti razzisti ricevuti.
Per continuare con l’argomento “memorialistico”, si potrebbero ricordare le origini storiche del razzismo nello sport. I primi anni del XIX secolo, la supposta supremazia britannica portò l’Inghilterra a organizzare un piano di “civilizzazione” delle proprie colonie, tra cui India, Sud-Africa e Nuova Zelanda, attraverso lo sport. Prima il cricket, poi il rugby furono largamente utilizzati per fini propagandistici dai coloni di Sua Maestà. Tendenza che dilagò nel 1936 per opera del Fuher quando a Berlino, nel corso delle Olimpiadi, Hitler approfittò della manifestazione per propagandare la, anche qui supposta, egemonia tedesca e della razza ariana. Fu però Jesse Owens, velocista statunitense di colore, a rendergli la pariglia vincendo quattro medaglie d’oro e mandando all’aria i piani propagandistici del dittatore teutonico.
Il regime fascista in Italia ha largamente utilizzato lo sport con le stesse finalità. Tale è stato l’impatto della propaganda razziale e nazionalistica dello sport nel ventennio che lo sport non è stato previsto come diritto nella costituzione repubblicana. Per contro il CONI, massima espressione dello sport in Italia, ha atteso fino al 1999 per togliere dal suo statuto (risalente al 1942) il capitolo in cui si parlava dello sport come pratica per favorire l’integrità morale e fisica della razza. Ciò nonostante, ancora tracce di discriminazione sono visibili nelle sale del Coni. Nel Salone d’Onore fa bella mostra di se l’enorme dipinto degli anni venti del secolo scorso intitolato: “Apoteosi del fascismo” raffigurante un Mussolini in trionfo su un altare.
L’intero sistema sportivo è fortemente discriminatorio, atleti neri che giocano nelle nazionali sono in numero largamente inferiore in termini proporzionali alla presenza di cittadini di origine straniera. È evidente come questo modo di procedere isoli totalmente lo sport dal contesto sociale fino ad evitare che i movimenti sportivi popolari, che stanno crescendo sempre più, diventino anche movimenti d’emancipazione. Questo processo di elitizzazione dello sport conduce rapidamente all’isolamento dell’ambiente tanto in senso positivo (isola felice) quanto nel senso di tollerare in ambito sportivo atteggiamenti che all’infuori degli stadi sarebbero (o dovrebbero per lo meno esserlo) in ben altro modo contrastati. Lo stadio diventa l’arena, gli spalti un luogo di extraterritorialità dove trovano sfogo e tolleranza gli istinti più bassi. Ma questo fenomeno non è ristretto al solo mondo del calcio. Sarebbe, infatti, opportuno che il Coni istituisse un Osservatorio che tenga monitorato il fenomeno su tutto il mondo sportivo, perché la lotta al razzismo riguarda ogni disciplina e non può essere ridotta a mero problema di ordine pubblico negli stadi di calcio. Norme più severe e restrittive possono rappresentare un deterrente ed essere utili per colpire i violenti, ma prima di tutto va creata una forte cultura antirazzista. Sembra che qualcosa in questa direzione si stia muovendo: è prevista l’istituzione di «Un osservatorio contro le discriminazioni razziali nello sport, con particolare attenzione agli stadi di calcio, da far partire entro il 21 marzo 2020, la giornata mondiale contro le discriminazioni razziali». Questo è l’annuncio fatto il mese scorso dal direttore dell’Ufficio Nazionale Antidiscriminazioni razziali (Unar) della presidenza del Consiglio dei Ministri, Triantafillos Loukarelis.
Buone notizie in tal senso sono le modifiche all’art.11 del Codice di Giustizia Sportiva (nuove misure contro il razzismo), e soprattutto dell’art.40 delle Noif (modifiche sul tesseramento), che tiene conto dei cambiamenti in corso nella nostra società che è sempre più multirazziale. Particolare importanza ha lo status dei figli degli stranieri, i cosiddetti “G2” come i nazionali Balotelli e Ogbonna. Questi ultimi però, pur essendo nati rispettivamente a Palermo e a Cassino, sono diventati cittadini italiani soltanto al compimento dei 18 anni. E qui torniamo al rapporto tra calcio e integrazione. Far giocare i ragazzi e le ragazze senza problemi di tesseramento dovrebbe essere il primo principio ispiratore di qualsiasi regolamento sportivo.
Se questo è però l’aspetto “culturale” del problema esiste anche il punto di vista della repressione degli episodi di razzismo. Se si continua a comminare multe (peraltro risibili visti i bilanci delle Società di calcio) invece di individuare i responsabili dei singoli episodi non si fa altro che mettere nelle mani dei gruppi organizzati delle tifoserie l’arma ormai largamente utilizzata del ricatto verso le società medesime.
A fronte di una maggiore attenzione di facciata da parte della FIGC sul fenomeno, c’è un aumento di episodi di razzismo sia nei tornei amatoriali, che in quelli giovanili. Episodi violenti si verificano soprattutto nei confronti degli arbitri, oggetto di pesanti attacchi verbali da parte pubblico sugli spalti e da parte degli stessi giocatori. L’insulto razziale è poi in costante aumento e mette in evidenza una crescente insofferenza di chi viene considerato “diverso”. Il problema non è di facile soluzione. Una parte del mondo politico a livello nazionale e, più ancora, a livello locale soffia proprio sul fuoco dell’intolleranza razziale per propri scopi politici. Le società non hanno interesse a inimicarsi le tifoserie, assistiamo in continuazione ad episodi di vera e propria tolleranza verso manifestazioni violente sia verbali che fisiche perpetrate anche da parte di loro tesserati. La repressione, purchè ben mirata, è comunque auspicabile ma non basta. Quello che questo Paese deve darsi è una nuova, più larga e moderna visione dei rapporti sociali facendo dello sport un veicolo di valori da assumersi a livello dell’intero corpo sociale.