Cultura

ESCLUSIVA D’AUTORE. La Fortunata

QUADERNO 1. Sul pullman, quando sono venuta, non mi sentivo bene. Non nausea, brividi e il cuore che mi accelerava a scatti, strano più che male. Anche del resto della giornata ho il film, ma se ci ripenso mi torna subito come stavo sulla corriera al mattino. Mi ero detta che era per la campagna, perché era da un po’ che non ne vedevo. Non volevo che smettessero di sfilare tutti quei prati, colline, boschi, borghi sui cucuzzoli. Come quando si ascolta il canone di Pachelbel, ma con la differenza che più durava la corsa più avevo il terrore e non il dispiacere che finisse. Come mi sentivo però non ha alcuna importanza; lo so come mi sentivo e non serve ingegnarmi, devo solo mettere in fila quello che mi è successo e provare a capirci qualcosa.

La signora dell’agenzia mi aspettava con la macchina al terminal e il tempo dei trentatré chilometri fino al paese, più i due alla frazione, più il mezzo alla casa, non la piantava di decantarmi gli splendori dei beni naturali-culturali disseminati attorno. Iniziava ogni seconda frase con “visto che lei dipinge” e già mi maledissi per la balla. Sarebbe bastato dirle che la casa mi interessava perché volevo andare a vivere in campagna. Punto. C’è forse qualcosa di strano? No che non c’è! No per chiunque, tranne me, che mi pareva questo sapesse di frottola, potesse far pensare chissà ché e per cui ci voleva qualcosa di meglio, tipo appunto che dipingessi. La vergogna fa questi scherzi, nel frattempo l’ho capito. Perché allora ero disperata me ne vergognavo e neanche me ne rendevo conto. Saperlo adesso, potrebbe farmi credere che ho fatto bene a sloggiare da Roma, perché se ora so che a settembre ero disperata, vorrà dire che adesso lo sono di meno. E invece non è così, perché con la storia del dipingere mi sono fregata anche peggio.

In questi pasticci si infilano solo quelli come me che non hanno fantasia; quella più elementare, per la quale si riesce a concepire la differenza tra inventarsi una scusa perché la gente si faccia gli affari propri e sparare cazzate perché ci si vergogna. Sarà questione di autostima e non di fantasia, ma io sono sempre stata convinta che se si ha l’una, si ha anche l’altra. E col dire che dipingevo speravo di passare per una sicura di sé e che m’avrebbero lasciato in pace. Invece mi arrampicavo sugli specchi perché ero nel panico, questo era. Per la morte di zia certo. E per volermi trasferire fuori Roma, io che ho sempre vissuto al Portuense, che non ho mai fatto un trasloco in vita mia, per non sapere come sarebbe andato a finire. Ma chissà che non c’entrassero anche i grattaevinci, se anche non ci pensavo più, perché dopo è morta zia e poi sono venuta qui.

Mi sento male solo a nominarli per la paranoia che qualcuno possa sapere, a voglia dirmi che non può e non potrà perché brucerò quel che scrivo mi serva o meno. Devo provare a metterla come se raccontassi a qualcuno che non temo mi prenda per matta, anche se non credo possa esistere. O come se rispondessi a delle domande convincendomi che posso fidarmi. Tipo quella che mi fanno non appena esco di casa: Perché sei venuta qui?

Perché tra le centinaia di annunci di affitto setacciati su internet solo per quattro davano la garanzia antisismica e ho scartato le altre tre, due perché non erano arredate e l’altra perché troppo cara. Perché siccome non riuscivo più a trovare un lavoro decente, dovevo mettermi nella prospettiva di tirare avanti con i soldini che mi ha lasciato zia finché non ho finito di pagare il mutuo di casa mia e i miei pigionanti me la liberano, questo è. Più o meno. Mi sarei pure risparmiato il sopralluogo, ma prima di impegnarmi dovevo sincerarmi che il certificato fosse autentico e che il riscaldamento funzionasse. Perché stare in una casa che mi può crollare addosso per una scossa o dove fa freddo, mi è impossibile in assoluto. Perché zia è morta per lo spavento del terremoto di luglio e perché il freddo proprio non lo sopporto. E se anche della zona avevo sentito parlare giusto a geografia alle medie, immaginavo che la notte facesse freddo già a settembre. Così, prima di salire in macchina con la tipa giù in città, le ho chiesto di farmi vedere il certificato di idoneità statica e appena arrivate qui, di farmi vedere come far partire la caldaia sul balconcino della cucina e di lasciare acceso il tempo del giro turistico dei 110 metri quadri – piano elevato su una cantina-garage, ampio salotto con camino e angolo cucina che affaccia sul fiume e la camera matrimoniale, la cameretta e il bagno che danno sulle colline. Si è impegnata a fondo e io ho pazientemente preso visione di ogni suo “ma dov’altro lo trova”, dal camino alla biancheria di casa, al pentolame, al forno, alla televisione, alla lavatrice, al fon, eccetera eccetera. Tutto un po’ vecchiotto ma funzionante, perché trattato con la cura che ancora la generazione ante usa-e-getta aveva per la roba.

I proprietari vivono in Belgio, figli della signora che ha abitato in casa con la badante fino a due anni fa quand’è morta: una villetta senza pretese, funzionale e sicura, tirata su al paesello con i risparmi di una vita da emigrati sul fazzoletto di terra scampato alle suddivisioni ereditarie tra nipoti e cugini. Se i figli affittano piuttosto che vendere, sarà che la crisi si faccia sentire anche lassù. O perché non la vogliono vendere e affittando riescono a tenersela, per la vecchiaia o per lasciarla ai figli. O magari perché ci sono affezionati.

Non ho chiesto delucidazioni alla tipa. Non che non mi interessasse, è che mi era proprio antipatica. Ha insistito che scendessimo in garage perché voleva farmi vedere l’armamentario degli attrezzi da giardino per quando mi volevo “sbizzarrire” e mi ha trascinata fino al termosifone sotto la finestrella in fondo, perché voleva lo toccassi per persuadermi che si scaldava a dovere anche quello: “Uh, ma guardi, c’è pure il barbecue, sa che festicciole! Nooo, pure le sdraia, ma dove lo trova tutto ‘sto ben di dio!”. Del ben di dio le era sfuggito il meglio, delle due bici accatastate alla parete appresso allo scaffalone: il rimedio all’incognita sulla quale mi ero vietata di preconizzare. Perché se mi mettevo a figurarmi le cose peggiori, tipo che senza macchina mi sarei dovuto incollare la spesa per tutta la strada dal paese se non ci fosse stato un negozio in frazione o un bus che faceva la spola, cose che su internet non riuscivo a scoprire, non mi sarei mai decisa a chiamare. A una bici non avevo pensato, semplicemente perché non ci ero praticamente mai andata. Un valore aggiunto considerevole di cui miss immobiliare non si rendeva conto, tant’è inconcepibile che una vada a vivere in campagna senza la macchina. Infatti non mi chiese nemmeno se l’avessi.

Non appena scovate le bici, mi affacciai a scrutare il giardino e le dissi che più che sbizzarrirmi ci voleva una squadra speciale-giardinieri. “Se proprio non vuole sporcarsi le mani, le storniamo questi venti euro dall’affitto”. Era stronza, non c’era da dubitarne. “Si può fare che lei mi dice che mi dà le chiavi oggi e che pago da ottobre”. L’ha mandata giù, sicuro perché non c’era stata la ressa prima di me e aveva chiaro che non ci sarebbe stata dopo. Ha messo il broncio manco le avessi sputato sulla tomba della bisavola, è salita a staccare la caldaia e chiudere e non mi ha rivolto la parola per tutto il tragitto di ritorno all’agenzia. Dove ha agguantato il plico delle banconote per le sei mensilità di caparra più tre di affitto fino a dicembre che avevo contato sulla scrivania prima ancora che finissi di firmare il contratto. Le ha ricontate scrupolosamente due volte. Poi mi ha scivolato le chiavi e sul “buon divertimento!” mi ha fatto pure l’occhiello.

Mi è venuto di ripensarci e incazzarmici ogni volta. Può averlo detto solo perché doveva essersi convinta che la casa mi servisse per degli incontri clandestini. Idea che eventualmente si era fatta per il parrucchiere del giorno prima, il trucco del mattino e la giacchetta e la camicetta eleganti che mi ero messi sopra i jeans per non passare per pezzente. Ma che devono aver fatto credere a lei che ero una donna ancora dotata di vita sessuale. Lì per lì mi sono solo seccata più di quanto non lo fossi già per essermi dovuta trattenere in sua compagnia tutto quel tempo. Non ci ha pensato neanche a offrimi il passaggio alla stazione dei pullman, risparmiandomi di dovermene inventare un’altra. Perché a Roma non avevo intenzione di tornare; perché ancora prima di fissare l’appuntamento, avevo deciso che se la casa fosse andata bene come sembrava dalle foto e il resto, ci sarei andata subito a fare la prova del fuoco. Perché se rientravo e anche col contratto già firmato e i soldi sganciati, temevo che non sarei più riuscita a ridarmi una mossa. E una volta intascate le chiavi, dovevo solo attenermi al piano escogitato senza pensare a cosa facessi.

Uscita dall’ufficio, non appena mi trovai nella zona commerciale, mi infilai nel primo negozio di articoli sportivi per comprarmi un paio di scarpe da ginnastica. Acquisto assurdo, ma quanti ne ho fatti nel frattempo! Quelle ci volevano, sempre perché a volermi dare un tono non avevo messo quelle quasi nuove che avevo a Roma e che non mi entravano nella borsa a tracolla col mio bagaglio essenziale ponderato mille volte: caricabatteria del cellulare, mini-beauty, ricambio di biancheria, golf, documenti, bancomat, contanti, ombrellino e panino per il viaggio. Presentarmi con la valigia non mi pareva il caso, non ci si va mica col camion carico del trasloco a vedere una casa da affittare. Scelsi il paio meno costoso tra le meno strambe, tirai fuori i calzini che mi ero portata e le misi al posto delle ballerine, che invece riuscivo a infilare comodamente in borsa. E poi raggiunsi la stazione dei treni dove mi avanzava quasi un’ora al locale delle sei e mezza e mi costrinsi a mandare giù un‘impanata con l’insalata alla tavola calda anche se non mi era venuto fame dalla mattina e il panino non mangiato poteva farmi da cena.

Al paese, una volta scesa dal treno e nonostante mi fossi studiata e ristudiata il percorso in rete non riuscì a orientarmi e dovetti usare il navigatore del cellulare per imboccare l’uscita direzione frazione. Riapprodai al cancello che imbruniva e aperto il portoncino, come previsto, l’aria dentro era umidiccia e fredda. Anche sul terrazzino la lampadina era fulminata, ma come m’era riuscito di infilare le chiavi con la torcia incorporata nel cell, convinsi anche la caldaia a darmi retta che ero la nuova padrona. Apparecchiai il letto matrimoniale e struccata e denti spazzolati andai a seppellirmi nel piumino, a contarmi i respiri in attesa del colpo di grazia, dopo che m’ero concessa il complimento che ero stata brava, specie ad aver comprato uno di quei aggeggi intelligenti e averne imparato tutte le diavolerie: avessero osato sbarrarmi la strada, ci avrei scovato l’app per far fuori una mandria di cinghiali.

L’indomani la temperatura in casa era piacevole, l’umido a momenti non si percepiva più e annunciava un’altra giornata di sole. Fatta la doccia andai di sotto a snidare la bici da femmina delle due e gonfiai le ruote, con la pompa che trovai coscienziosamente incastrata al telaio. Sono volata giù in paese come l’avessi fatto prima di imparare a camminare e feci colazione al bar sulla grande rotonda che smista tra provinciale, centro locale e la strada in collina.

Il parcheggio a ridosso dei giardinetti poco avanti era strapieno di macchine e in giro c’era molto più gente di quanta mi sarei aspettata. A incamminarmi in paese capii che la folla era tutta per il mercato. Approfittai subito delle due fila di bancarelle piazzate ad orlo dell’arteria principale per un po’ di vestiario in più: una tuta, altri calzini, un paio di mutande, una maglietta della salute e due t-shirt; e pure una giacca a vento, un po’ lunghetta, ma leggermente imbottita si sa mai si scatenasse la bufera. E anche uno zaino per ficcarci dentro tutto, che se no dove la mettevo la spesa di prima necessità che ero scesa a fare: latte, caffè, pane, formaggio, yoghurt, biscotti, una bottiglietta di olio, un pacco di pasta, un sugo pronto, parmigiano e due mele. Tutt’assieme potevo sopravvivere anche più dei due giorni preventivati.

Tornando indietro notai il cartello che segnala il bivio alla ciclabile per la riserva, quella che la tipa mi aveva detto confinasse con la frazione, “la chicca” della casa avamposto del deserto dei Tartari. Mi ci avventurai, infatti porta dritto alla frazione tagliando per fratte, prati, uliveti e frutteti, accorciando parecchio rispetto alla strada che segue le anse del fiume. A traversare da lì, scoprii che una della ventina di case raggruppate fa bar-pizzeria, praticamente a trecento metri da me. Alimentari niente, ma per la spesa non dovevo più preoccuparmi e in caso di carestia improvvisa potevo cavarmela con una pizza.

Nel pomeriggio mi azzardai sulla mulattiera che fila esterna alla recinzione che avevo intercettata dall’alto del salotto al mattino. Più su si infila tra canne e more nel bosco, fino al fiume dove si congiunge col sentiero ufficiale che lo risale fino all’ingresso del parco naturale vero e proprio. Ci vogliono dieci minuti appena. Mi lessi tutti i cartelloni che recitano percorsi, aree picnic, specie protette e il catechismo del buon escursionista. Utili comunque, perché mi spiegarono il vago odore di fogna che avevo sentito allo spalancare delle finestre: ci sono delle sorgenti sulfuree più a monte. Ormai so che dipende dal vento, ci sono giorni che può diventare fastidioso, ma a sapere che è naturale, salutare dicono, ci si convive.

Decisi che per la prima volta poteva bastare e al ritorno raccattai una bracciata di rami con i quali, insieme a uno della decina di ciocchi scovati nella legnaia all’angolo sotto il cancello e la scatola di accendi-fuochi in dotazione sulla mensola, sono riuscita a combinare un fuochetto nel camino. E seppure dondolandomi nella seggiola di bambù epoca anni Settanta, a guardare e ravvivare le fiamme le fitte per zia mi riacchiapparono, mi pareva fossero meno acute di come mi pigliavano a Roma e troppo stanca per pianificare il rientro al mattino presto il giorno seguente, pensai che potevo fermarmi un altro giorno, perché alla fine non mi correva mica dietro nessuno e già che c’ero potevo anche iniziare a sistemare.

Da lì le giornate hanno preso a volare tra pulizie della casa, primo raid anti erbaccia nell’aiuola delle rose, che dissepolte sembravano buttare subito nuovi boccioli. Poi le piccole riparazioni e le puntate in paese per comprare tutto quello che man mano saltava fuori che mi serviva, le esplorazioni del parco e le serate davanti al fuoco. Mi mettevo a trafficare appena alzata e invece di incavolarmi che mancasse sempre qualcos’altro ancora, infilavo lo zaino, inforcavo la bici e correvo dal cinese o al market quasi non vedessi l’ora. Smisi di preoccuparmi subito per come andavo vestita; se a Roma non mi azzardavo a scendere in tuta, qui sembra faccia da divisa ufficiale.

Affaccendata come Crusoe sbarcato sull’isola, setacciai ogni angolo e cassetto della casa per avere il quadro dei miei possedimenti, spostavo i mobili, mi figuravo cosa poteva starci bene di quelli di zia che non avevo dato al robivecchi e stivato con il bailamme della mia stanza nella cantina a via dell’Imbrecciato, generosamente concessami in usufrutto dalla Corti finché i miei inquilini mi avrebbero concesso il privilegio di abitare a casa mia. Eppure ogni volta che aggiungevo qualcosa alla lista, che tra vestiti, scarpe, accappatoio, copriletto, le mie fodere, la lampada da terra, lo stereo e i cd, eccetera si allungava, ricacciavo il pensiero di affrontare il trasferimento stabile. L’accappatoio, il copriletto e una parure di cuscini-piumone colorati, me li sono comprati il giovedì successivo giù al mercato. E anche un’altra tuta, un gilettino imbottito più agile della giacca a mezza coscia esagerata visto che continuava a fare bel tempo. E poi anche un pigiama, le ciabatte, un reggiseno di ricambio se pure avevo già preso a farne a meno. E due bei golfini di merino fine per non farmi sfuggire lo sconto del 30 per cento sul secondo. E meno male che non c’era la bancarella con gli stereo altrimenti me ne sarei preso uno pure di quelli. Mi concessi invece una radiolina dal rivenditore-aggiustatore di computer e cellulari, quella, vuoi mettere, indispensabile assolutamente.

Imbattendomi di nuovo nel mercato, feci mente locale che doveva esserci ogni settimana e che quindi ne era già passata una. E solo risalendo, già oltre metà strada, mi sono ricordata il motivo della discesa: chiedere se, dove e come si poteva comprare la legna. Perché nella legnaia era rimasto solo più che un ciocco e un mucchio di cortecce e non potevo mica andare a rifornirmi nel bosco come la famiglia di Zivago nella tenuta di campagna negli Urali. Stetti a tentennare se andare a chiedere al bar-pizzeria della frazione ma poi tirai dritto; avrei chiesto giù in paese la prossima volta, mi seccava dover dare delle eventuali spiegazioni sul perché e chi ero.

Cosa che invece mi toccò neanche mezzora dopo: ha suonato il campanello che ci misi pure a capire quello fosse che strimpellava e davanti alla porta trovai un arzillo pensionato che si presentò come Luciano-cugino della vecchia proprietaria e che mi indicò casa sua, la quarta a scendere sulla destra tinteggiata “giallo cacca” (parole sue). Voleva darmi il benvenuto di vicinato:

Così sei tu la nuova inquilina, m’ha chiamato mio nipote dal Belgio per avvisarmi che ha affittato a una signora di Roma. Sono venuto a dirti che per qualsiasi cosa non hai che da venire a bussare da me, la porta è sempre aperta”.

Ma poi non ha lasciato che aggiungessi il mille al grazie ed è venuto al sodo: “E com’è che ti sei voluta trasferire proprio qui?”.

Mi sarei dovuta premunire, immaginare che questa era la prima domanda che ti fa la gente dei posti sperduti se ti azzardi a passarci più della notte di passaggio concessa. La bici mi aveva risparmiato l’interrogatorio perché seminavo i pochi autoctoni non automuniti incrociati al lancio d’un buongiorno e una spinta sui pedali. Che qualcuno potesse venirmi a suonare alla porta non ci avevo pensato proprio. E proprio perché sono di Roma, dove prima di chiedere e dare confidenze a un nuovo vicino, ha da passare perlomeno mezzo secolo di penosi, non scansati tragitti in compagnia forzata sull’ascensore. E quando mai verrebbe in mente a qualcuno di chiedergli perché c’era venuto a stare nel tuo palazzo?! Sono affari suoi come sono tuoi perché ci sei venuto a stare tu. Il Luciano avrebbe preso alla sprovvista qualunque metropolitano aborigeno. E cosa potevo rifilargli là per là, se non la stessa panzana spacciata all’immobiliare, che dipingevo e che avevo bisogno di un posto tranquillo “per lavorare”. Se a lei aveva fatto pensare che la casa mi serviva per le scappatelle, dei festini scambio coppie o chi sa cosa, con lui poteva funzionare perché si facesse una ragione che c’ero venuta a vivere fissa, e da sola. Due piccioni con la famosa fava, una che dipinge alla fine sarà stravagante abbastanza anche per venire ad abitare non accompagnata sull’orlo dell’abisso del mondo. Sul momento mi è parso persino una genialata, perché in effetti tralasciò di indagare il mio stato civile.

Oh dipingi?”, mi fece piuttosto, sbirciando il salotto alle mie spalle. “E cosa fai, i paesaggi?”.

No, ma chissà non mi venga stando qui”, provai a cavarmela.

Ca’ certo, il paesaggio è l’unica cosa che non ce manca.”

Mi saltò in mente come distrarlo: “Ora che ci penso, forse per una cosa può aiutarmi. C’è qualcuno che vende la legna qui vicino?”.

Sì certo, ce l’hanno giù al ferramenta in paese.”

E come si compra… voglio dire, la portano a domicilio?”.

Sicuro, anche perché la vendono solo a quintali. Vengono col camion col braccio meccanico e ti scaricano la catasta dove vuoi e riescono ad arrivare. Ma perché, il riscaldamento non ti funziona?”.

Sì, sì, funziona benissimo. È che mi piace accendere il camino la sera, ho sempre sognato di averne uno, ma sa, in città… ”.

E già. Qui invece, altro che lusso, è indispensabile. L’inverno l’altro con la neve la corrente è saltato quasi per quindici giorni. Io mi sono fatto mettere l’impianto a gasolio e qui l’hanno messo a gas. Ma in frazione e non solo nelle case più vecchie, stanno con le stufette elettriche e senza il cammino non ce la fanno. Oh, a proposito, se intendi usarlo tanto fai ripulire la ciminiera però, perché da quando è mancato l’Angela non l’hanno più fatto e l’altra sera ho notato che esce parecchio fumo. Quello che li spazza è sempre giù in paese, dietro al comune, basta che chiedi, lo conoscono tutti.”

Quindi mi tenevano d’occhio. E vuoi vedere che ha chiamato lui il nipote e non viceversa per sapere perché usciva fumo! E se sulla legna aveva lasciato perdere la mia presunta attività pittorica, a vedere come storceva il collo per guardarmi in casa, ora avevo il problema che a ripetersi queste visite prima o poi un quadro avrei dovuto tirarlo fuori. Come fare? Ci rimuginai sopra non poco. Infine mi collegai a internet col cellulare per farmi un’idea di cosa poteva servire per dipingere. A costatare quanta roba ci vuole e soprattutto quanto costa, mi maledissi per non essermi spacciata per scrittrice: sarebbero bastata una risma di fogli sparpagliati in giro o una vecchia Olivetti, foglio tirato dentro con due righe battute a cavolo, tipo “il mattino ha l’oro in bocca” del vecchio Jack all’Overlook Hotel. Ma anche una macchina da scrivere, ormai roba d’antiquari, avrebbe potuto avere un prezzo. E avessero gli autoctoni avuto sentore dell’avvento dell’era digitale, magari poteva occorrere persino un computer e quello sarebbe costato anche di più. Motivo preciso per cui non me ne sono mai concesso uno. Già avevo sperperato allegramente in questa prima settimana e pure la legna sarebbe costata. E anche lo spazzacamino. E anche i famosi giardinieri sui quali contavo di fare la cresta improvvisandomici io e rovinandomi la schiena e le mani (a proposito, i guanti da giardinaggio, quando mi sarei decisa a ricordarmi di comprarli?). Per poter passare per pittrice, lì per lì arrivai a figurarmi che minimo ci volesse un cavalletto, qualche tubetto di colore, pennello e un paio di tele, roba per la quale a fare due conti con i prezzi che vedevo, mi sarebbero partiti minimo altri centocinquanta euro, a puro scopo di togliermi dall’impaccio!

La mattina dopo intanto decisi per la legna, anche a costo di lasciarmi dietro l’intero quintale avessi capito che non ce la potevo fare a rimanere e proprio perché a mancarmi il fuoco anche solo una sera, avrei potuto convincermi che non potevo farcela. Visto che c’ero, dal ferramenta allungai fino alla cartoleria alla stazione: niente tele e di colori hanno solo quelle cassettine di tempere nei pattini tondi col pennellino in dotazione per gli scolaretti. A vedere la faccia della signora, le risparmiai la domanda dei cavalletti e per rientrare nella categoria dei normali, comprai (presi) tre biro e tre quaderni con le copertine dei Super Wings con il super sconto di inizio anno scolastico: quelli dove sto scribacchiando. Il pomeriggio, arrivato il camion e scaricata la catasta di legna ho incominciato a stivarla nella legnaia e quando non ce l’ho fatta più a scorticarmici le mani (i guanti, porca miseria, scordati un’altra volta!), ho portato su un po’ di ceppi per farli asciugare vicino al camino, che mi sono sbrigata ad accendere con il poco di asciutto che avanzava. E siccome era presto per cucinare e non riuscivo a darmi pace per i quadri, mi sono riattaccata alla rete e ho individuato un negozio di belle arti giù in città e l’ho chiamato: sì, avevano dei cavalletti, quello che costava meno veniva sui 120 (!) e sì, consegnavano anche nei paraggi, avevano il minifurgone apposta.

Devono viverne di pittori nei dintorni, magari tutti sedicenti come me, sfollati dalla città che non volevano far sapere che si erano ritrovati con le pezze al culo. Ma perché poi mi ammattivo con questo cavalletto, se neanche avevo chiaro ancora se e per quanto mi sarei fermata? Potevo aspettare, rimediarlo a Roma quando ci sarei tornata, dove sicuro si trovavano a meno se proprio non riuscivo a farne a meno e il traslocatore me lo avrebbe portato con la mia roba. E dire al prossimo vicino ficcanaso esattamente questo: che avrei affrontato il trasloco dello studio (mi raccomando!) in una seconda puntata. Potevo far passare dei mesi! E se anche fornivo la prova della balla, cosa mai poteva succedere? Era solo questione dei miei pregiudizi di romana mai uscita fuori porta se non per le ferie, al mare sempre e massimo a vedere le gloriose capitali europee, che mica ero della specie dei raccoglitori di funghi. E per cui quelli che vivono in campagna mi parevano degli sfigati barbari-marziani, sfaccendati al punto che non avevano niente di meglio da fare che spiare l’ultima mal capitata nella tribù dalla mattina alla sera per prenderla in castagna e organizzare l’orgia cannibale per liberarsene. Ma quando mai poi avevo conosciuto un romano che poteva vantare un bisnonno nato sulle sponde del Tevere? Chi l’aveva faceva parte dell’aristocrazia con i papi e cardinali in albero genealogico, mentre tutti gli altri, popolino di seconda generazione di appena sbarcati dalle provincie: come me! E se anche qui, invece che dalla tv non toglievano gli occhi dalla mia fumarola e si facevano i cavoli mei a turni di ronda tra cugini, ma che me ne importava? Se la spocchia proprio mi impediva di passare per la contafrottole che ero, perché non rimediare piuttosto due quadri facendo una puntatina a Porta Portese, sempre la volta che sarei tornata a Roma, che sicuramente mi venivano a costare meno d’un maledetto cavalletto e il resto. Bello sbaglio! Lo capii non appena digitai “comprare quadri” sul cellulare. Non volevo crederci ai prezzi dei quadri, che scoprii – a tonnellate! – si possono comprare in rete: pochissimi quelli sotto i duecento euro e che facevano vomitare anche peggio di quelli che costavano mille e passa! Tanto valeva provarci da me, che roba del genere ero capace pure io. Sì, lo ammetto, l’ho pensato.

Il mattino dopo, invece di finire il trasbordo della legna al coperto e di tirare fuori il tagliaerba e iniziare finalmente la battaglia con la foresta vergine del prato, ho ripreso a rimuginarci sopra. Fino a capire che non c’era verso. Ho riesumato gli orari dei treni nell’app dei memo, mi sono messa i jeans al posto del pantalone della tuta, ho messo i soldi nella la borsa invece che nello zaino che a non ingobbarmelo a momenti mi pareva di uscire in mutande e sono scesa alla stazione. Ho infilato la bici nei loculi-parcheggio appositi e sono salita sul locale delle dieci e venti per la città, con il fermissimo proposito di limitarmi allo strettissimo indispensabile e più economico. Ma a girare tra gli scaffali della bottega con tutta quella roba sfiziosa d’ogni sfumatura di colori – carte, cartoncini, matite, pennarelli, pastelli e soprattutto a vedere gli espositori dei barattoli e tubi di colori – presa da non so che smania, una volta che il tipo aveva stanato il cavalletto meno caro dal sottosuolo, gli chiesi cosa ci servisse per dipingere. Mi ha guardato strano, perché come vuoi che uno guardi una che si compra un cavalletto e non lo sa. “No sa”, gli ho fatto, “il cavalletto mi serve per un quadro che sulla parete del salotto non mi entra, non voglio rinunciare ad averlo sotto gli occhi. Ma ho sempre desiderato dipingere e già che prendo il cavalletto potrebbe essere l’occasione buona.”

Se l’è bevuta. Ha fatto un bel po’ di tentativi di indirizzarmi agli scaffali con le tempere e gli acrilici, che per iniziare erano più adatti, ma figurarsi se gli davo retta: “No visto che mi ci metto, voglio fare l’olio, mi affascina tanto” (sic anche questa). Ha appena alzato il sopracciglio, ma poi deve avere pensato che avvertito m’aveva avvertita e che perciò fossero affari miei. E non per questo è stato meno gentile: mi ha spiegato tutto, risposto ad ogni mia domanda cretina sulle tele, colori, pennelli, solventi, ecc. con la pazienza di quelli che pochi punti ancora e il posto in paradiso è aggiudicato: un vero professionista, gli sono riconoscere. Finché non avevo messo insieme il mio kit della principiante, di una decina dei tubetti che mi disse di qualità discreta rispetto al prezzo, una piccola tavolozza, tre tele piccole, due pennelli di pelo di bue, la trementina per pulirli e il diluente per velocizzare l’essiccamento e non impazzirmi con l’olio di lino o di noce o quant’altro usavano i conoscitori. E a completare il tutto, un manuale che l’uomo insistette a raccomandarmi con discrezione, dopo che gli avevo sparato, che occupata com’ero il tempo per frequentare un corso, ma quando mai l’avrei trovato! A sentirlo proferire la cifra del conto, invece di prendermi un colpo e sparire sotto la valanga di sensi di colpa che avrebbe dovuto investirmi all’istante, mi venne quasi da ridere a pensare che stavo spendendo quel mucchio di soldi solo per evitare che a qualcuno del mio hinterland potesse saltare in testa che mi ero trasferita per tirare la cinghia. E non contenta, uscita dal belle arti, mi sono avventata nella libreria vicino alla stazione – non per accattare il flop del secolo scontato a prezzo stracciato pur di liberarsene – no, per portarmi via in pompa magna il più costoso volumone illustrato a lusso sull’arte del Novecento e contemporanea dei tre che tenevano in serbo per l’ignorante che non avrebbe mancato a presentarsi. Al più tardi allora mi sarei dovuta rendere conto che questa storia stava pendendo una piega strampalata più della fandonia di partenza.

Ora vivo qui già da quasi sette settimane. Tengo il conto con i giovedì del mercato che come tutti gli abitanti dei paraggi non mi faccio sfuggire. A Roma ancora non sono tornata, né per prendere la mia roba e neanche per cercarmi un buco alternativo. Cosa che sarebbe stato più che logico dopo il terremoto di tre settimane fa, al mattino mentre caricavo la macchinetta del caffè: hanno preso a sbatacchiare i vetri delle finestre, della credenza, del “cocciume”, pentolame e cristalleria e persino del box doccia di là e il pavimento a scuotermi nelle ciabatte. Ma invece di rimanerci secca per la strizza, sono riuscita a fare i sette passi fino alla porta, ho persino afferrato lo zaino con il cellulare e i soldi prima di precipitarmi sulla strada, dove più giù vidi i primi rovesciarsi fuori dalle case e formare il capannello del cessato allarme. C’era Luigi in pigiama che mi ha presentato sua moglie Ida in vestaglia e gli altri, e che poi ha osservato che ero parecchio bianca in faccia: “Ti sei spaventata tanto eh, ma è la prima volta che lo senti?”. “Giusto quello di luglio“, mi sono limitata a rispondere, non era mica il caso di raccontare all’assemblea al completo che quello aveva fatto venire l’infarto a zia. “A Roma era diverso però, la casa ondeggiava tutta, stavo a un terzo piano”, ho aggiunto. “Noi siamo più abituati, ma questo era forte almeno come quello che avete sentito fin là. Tu però puoi stare tranquilla, tranquillissima, la casa di Angela è quella più sicura di tutte. L’hanno fatta costruire dall’ingegnere. Noi abbiamo risparmiato col geometra, ma comunque fin qui c’è andata bene, neanche una crepa e speriamo neanche ‘sta volta.”

Forse è stata anche per questa rassicurazione di Luigi, che nonostante la scossa fosse oltre i 6 punti della scala Mercalli e con l’epicentro poco più di un centinaio di chilometri a nord, dopo un paio di ore davanti alla televisione a guardare le dirette sui danni perché per fortuna non c’erano state vittime, ho ripreso quasi niente fosse il tran tran della mia vita ormai stracollaudata. E che per il resto è trascorsa con una placidità che avrebbe messo in fuga un monaco buddista per asfissia di tedio, mentre a me l’idea di darmi non ha neanche sfiorato, e precisamente per il dipingere.

Mi sono ricavata un ampio angolo-studio in salotto, il cavalletto piazzato di sbieco alla vetrata per sfruttare al meglio la luce senza farmi ombra con la destra e stando al contempo attaccata al termosifone che mando a tutto spiano per non infreddolirmi a furia di non mollare la sedia. Cosa che peraltro dovrebbe farmi preoccupare per la bolletta del gas, ma a voglia a farmi la predica. Per riposare gli occhi basta che mi giro a guardare il panorama sul fiume. C’è uno scoiattolo che volteggia tra gli alberi, lo becco quasi ogni giorno, uno spettacolo mai osservato prima. La settimana scorsa la tempesta ha spazzato via un bel po’ di fogliame e tra le cime degli alberi, sulla collina che sale dall’altra sponda del fiume è apparsa una roccia con in cima una chiesetta. Rifulge bianchissima nel primo sole e ogni volta che la guardo mi piglia il raptus di dipingerla, cosa che mi trattengo subito dal tentare, perché da mo’ che ho capito che non sono capace. Come non sono capace di abbozzare un ché che somigli al bosco, alla frutta sul tavolo o alle rose che mi porto in casa a mazzi, visto che continuano a fiorire in quantità da rifornire un fioraio in barba pure ai primi freddi. Non sono capace semplicemente perché non so né disegnare né dipingere. Ma piuttosto di metterci una pietra sopra, alla terza tela che a furia di pasticciare sempre più assomigliava a un minestrone spalmato sopra, grigio-verdastro-marroncino schifoso, mi sono detta, proviamo l’astratto. Per cui, non appena sfasciate e bruciate queste prime, ho chiamato il bottegaio che – “ormai è cliente” – con pagamento alla consegna, mi ha recapitato un’altra mezza dozzina di tele di cui una pure più grande in omaggio.

Anche l’astratto si è rivelato insidioso. Delle nuove tele ne ho bruciate altre quattro, ma sopra il divano, là dove campeggiavano i due paesaggi gotico-bucolici dei proprietari che ho sloggiato in garage, ora stanno appese le mie prime tre ‘opere’. Sono solo strisce di colori verticali, perché capendo che mai mi sarebbero riuscite due bottigliette alla Morandi, tre mele alla Cézanne, figurarsi un girasole alla Van Gogh, scopiazzando sul librone da uno dal nome che ci vuole la fotocopia, a queste mi limito. Mi sono studiato però a fondo il capitolo delle teorie del colore sul manuale e se anche le strisce dritte e regolari non mi vogliono venire perché sbafo di continuo sulle righe a matita tirate sotto e devo rimediare allargandole variamente sulla destra, queste palizzate scombinate per gli accostamenti dei toni che pian piano riesco a tirare fuori, non mi dispiacciono troppo. Ho scoperto anzi, che mi piace un mondo stare a spennellare queste strisce, ci metto l’anima, mi sono beccata a mordicchiarmici la lingua come facevo da piccola. Può passare più d’un’ora a finirne una e mentre la faccio non penso ad altro che a farla bene. Inizio appena c’è abbastanza luce, e salvo pausa per la spesa o la passeggiata nel parco e lo spuntino, ci sto finché non mi acceco nel tramonto. Allora pulisco pennelli e tavolozza con il rotolone gigantesco di carta asciuga tutto preso in rimorchio dal cinese e già dimagrita a vista, spazzo la cenere nel camino e la vado a buttare alle rose (letto su internet che fa bene) e rifaccio il fuoco. Poi sbrigo le faccende di casa, cucino, mangio, lavo le stoviglie, metto fuori la differenziata secondo il fiscalissimo menu-calendario settimanale dell’Ama di qui e mi piazzo davanti al camino. Ho guardato più il fuoco che non la televisione che accendo solo per il telegiornale, mi ci faccio anche le bruschette, le bistecchine e le salsicce. Ascolto la radio, crollo poco dopo le dieci e al risveglio, dopo essermi richiamata a mente la lista delle altre cose inderogabili da affrontare, mi vado a incastrare dietro il cavalletto senza sbrigarne una, come se avessi finalmente scoperto che dipingere delle strisce in giù a colori fosse il sogno che ho segretamente rincorso tutta la vita.

Così almeno è stato fino a giovedì. Perché da quando mi è arrivato l’assegno, al cavalletto ci sto piuttosto perché spennellare è l’unica per placarmi la girandola di pensieri che altrimenti prende il sopravvento e mi sfonda il cervello. L’assegno è stato un po’ come nei film il messaggino “ti ho trovato” dello stalker alla perseguitata, che si era rifatta una vita illudendosi di averlo seminato cambiando città e identità.

Volendo, potrei darne la colpa alla visita di Ida-moglie di Luciano di lunedì l’altro. L’avevo incrociata sabato sera davanti alla pizzeria che uscivo con la mia margherita nel cartone andata a prendermi tanto per fare diversivo e due passi la sera. Mentre lunedì era lei ad avere un cartone in mano, di uova “freschissime di gallina”. Da mo’ che ho scoperto che qui non solo hanno tutti l’orto ma parecchi anche il pollaio. Da mo’ che ho fatto l’abitudine che danno rigorosamente del tu e parlano italiano solo sotto tortura, il colmo è il cinese, che se non capisci cosa ti farfuglia in mistilingue mandarino-dialetto locale, ti mette a posto con un “tu stlaniela” e non capisci se è domanda o sentenza. E sicuro che ho fatto l’abitudine anche, che più sono anziani meno si fanno problemi a farsi gli affari miei. E le uova della Ida, che mi rendevano impossibile non invitarla a entrare per un caffè, mi davano a intendere che fosse esattamente quello il motivo per cui si era scomodata. Ma non avendo più da nascondere che non dipingevo e neanche l’intenzione di offenderla, l’ho fatto pure volentieri.

Ha accettato senza fare complimenti ed è andata subito a passare in rassegna le tre tele sopra il divano e l’ultima in lavorazione sul cavalletto: “Io non ci capisco un accidenti, i colori però mi piacciono sai. Ma perché fai solo questi nastri?” Le ho risposto a sorriso spiegato: “Appena l’ho capito, glielo dico. Ci sono andata in fissa.” Ha sorriso anche lei ed è venuta a sedersi al tavolo per darci dentro con il resto, è stata quasi una schermaglia a mosse concordate:

Così dipingi!” – “Come vede.”

E di dove sei?” – “Roma.”

Sì ma ci sei nata?” – “Sì, e ci ho sempre vissuta.”

E ti trovi bene qui?” – “Non mi trovo male.”

Ma non ce l’hai un marito?” – “No, e nemmeno un fidanzato.”

E non ti senti sola?” – “Sono abituata.”

Ma una famiglia ce l’avrai?” – “Non più da quando è morta mia zia.”

Oh, mi dispiace. È successo da poco?” – “A fine luglio.”

Oh, mi dispiace davvero, condoglianze cara!” – “La ringrazio.”

Poi però è riuscita a mettermi in crisi: “Non sarai mica già in pensione?”

Non andando dal parrucchiere da quando sono arrivata e dimostrando senz’altro in tuta e ciabatte anche più dei mei anni, effettivamente, questa poteva essere la spiegazione che erano arrivati a darsi per avermi tra i piedi. “No”, le ho detto. Ma non demordeva: “E come campi?”, così, senza minimo imbarazzo lei nel mentre io ci sprofondavo in cerca d’un appiglio! Sono riuscita a toglierle di dosso gli occhi spalancati, sbloccando lo sguardo sulla parete dietro di lei, preciso sulla tela al centro. E di che la frottola m’è uscita come all’alunno scemo i labiali finalmente decrittati dei compagni che gli suggeriscono la risposta:

Vivo dei quadri!”.

Ma dai, davvero?”.

Sì!”.

Allora sei una famosa di pittrice?”.

No, che va a pensare, mica bisogna essere famosi per vendere.”

E quanto ti danno per uno così?”.

Dipende, cento cinquanta-duecento”; i prezzi dopo tutto, me li ero studiati.

Per tutti tre?”.

No, per uno.”

Ma vai, non avrei mai pensato!”.

Neanch’io, stavo per dire, ma vidi che si era messa a fissare la cappa della cucina, fronte in pieghe. Le ci volle un momento per fare il calcolo a mente, ma ci riuscì alla grande:

E beh sì, se ne vendi tre-quattro al mese ci campi”.

Già”, replicai, “quasi come con la pensione.”

Il sarcasmo però era fuori luogo, Ida è ingenua, non maligna. Arrivata a chiarirsi l’arcano delle mie entrate, quasi fosse sollevata della preoccupazione per me, si è messa lo zucchero nella tazzina, l’ha sorseggiato e ha preso a raccontarmi della vecchia proprietaria e della badante rumena, con cui si frequentavano per chiacchierare, fare i lavoretti all’uncinetto e scambiarsi ricette. Compagnie che, si sentiva, rimpiangeva sinceramente.

Una bugia tira l’altra e alla fine non se ne esce più, zia me lo diceva quando ero piccola. La mattina dopo le strisce non mi volevano riuscire per quanto mi mordicchiassi la lingua – per i sensi di colpa stavolta. A un certo punto ho abdicato, mi sono collegata ancora a Google e ci ho digitato preciso la domanda che avevo in testa dalla collazione: “Come vendere quadri?”. E giù un’altra sfilza di risultati! Sfuggendomi sul momento la logica domanda-offerta, a fare il nesso che doveva trattarsi degli stessi identici siti che m’erano usciti quando avevo cercato “comprare quadri”, ci sono arrivata solo dopo un po’. Lì per lì rimasi solo allibita a scoprire quanto è facile! Basta fotografarli e caricare le immagini dopo essersi registrati. Per la sorpresa ci pensai su tutta la mattinata e dopo pranzo non ho resistito più, forse anche per via dell’altra di zia, chissà se ciociara, che più pane ti spezzi nella zuppa più te ne devi ingoiare per vedere il fondo del piatto: ho staccato i miei tre capolavori dal muro, li ho portati sul terrazzo, poggiati a terra in pieno sole e li ho fotografati col cellulare dall’alto della sedia trascinata fuori all’uopo. E poi, sempre con il cell, dopo un po’ di maneggi sono riuscita a ritagliare dalle immagini il pavimento che sbucava da sotto i bordi e poi a caricarle sul sito che chiedeva meno dati personali, compilando le quattro caselle obbligatorie con una email a cavolo, il nome della maestra delle elementari, la sua ipotetica data di nascita e l’unico dato reale del mio numero di telefono. E indicare poi anche i formati, l’anno “di creazione” (!), sorvolando sulla casella titoli, che fare pure la poeta mi pareva questo sì una presa per i fondelli. Mentre come “costo dell’opera”, tronfia dei miei olii, che nel giro di ricognizione dell’altra volta avevo notato costavano di più, ho messo 250 euro ai due piccoli e 300 per quello appena più grande. Di ché mi sono ripresa la sedia e mi sono piazzata al cavalletto per concentrarmi sulle mie strisce, che quel pomeriggio e nei giorni seguenti presero a riuscirmi meglio che mai e per cui alla bravata non ci pensai più. Ma proprio più, al punto che, quando il venerdì dopo mi è arrivato la chiamata di una che chiedeva di Lucialba De Feo che non rispondeva alle mail, mi ci volle quasi mezzo minuto per capire perché diavolo chiamava me se cercava la maestra. Quando poi ci arrivai e le ho balbettata che ero io, questa mi disse che avevano venduto tutte e tre le tele!

Se ce li recapita emettiamo il pagamento. Le ricordo che sarà al netto Iva e del quaranta per cento di nostra commissione di intermediari. Se mi dà le sue coordinate bancarie provvederemo all’accredito quando riceviamo le opere”.

A sentire coordinate bancarie ho avuto il lampo che doveva essere una truffa per cui le ho chiesto se non potevano mandarmi un assegno.

Oh, sì certo, capisco. Dove lo mandiamo?”

Avrà capito che essendo anziana non avevo il conto in banca e non che non ci cascavo, ma a quel punto per finirla le ho dato l’indirizzo di qui.

Allora aspettiamo i quadri, mi raccomando signora!”

Raccomandati pure!’, pensai e chiusi. Salvo poi incavolarmici: ma guarda tu, che cosa arrivano ad inventarsi! Persino come raggirare i pittori della domenica, confidano che a sentirsi dire che avevano venduto due loro croste, gasati a credersi veri artisti, si precipitavano a fornire i dati bancari. Ma poi che ci facevano con i dati? Entravano nei conti via computer e li svuotavano i come fanno nei film? Oppure la truffa consisteva nel farsi mandare i quadri che degli ignoranti d’arte peggio dei dilettanti che li verniciavano, credevano delle opere d’arte e compravano sul serio? Esi facevano mandare i quadri ma poi non pagavano i pittori? Ignoranti da una parte e ignoranti dall’altra, per un business ce ne volevano comunque parecchi di cretini a dipingere e cretini a comprare. Ma davvero ne potevano esistere tanti da valere la pena di mettere su tutt’un bailamme di sito, appositamente per farli incontrare? Facevano prima e più soldi con dell’altra roba, che so Rolex, macchine di lusso, gioielli, detersivi, mobili, come Anna Marchi. Ah, ma vero! In tv c’erano anche quei canali dove facevano le aste e a volte c’erano anche dei quadri! E quindi chissà… eccetera, eccetera. Insomma, ne ho pensate tante una dopo l’altra, che alla fine ho concluso: per sapere se truffatori veramente fossero, dovevo fare la prova. E che se poi era, non poteva che servirmi a convincermi una volta per tutte, che la cosa migliore che potessi fare era ritirarmi nell’angolo più remoto di questo mondo di furbi e delinquenti, che non solo sfruttano i lavoratori come se la schiavitù non fosse stata abolita, ma non si fanno scrupolo neanche di raggirare una povera De Feo di ottant’anni suonati, che dipingeva per passatempo o magari perché il medico le aveva detto che le faceva bene all’artrosi. Cos’avevo da perdere a mandare le mie tele che non valevano niente se non che potevo tenerci un po’ per crederli i miei primi ‘quadri’? Ci potevo solo che guadagnare il calcio salutare nel sedere che evitavo di darmi da settimane, sperando nel miracolo di chissà quale alternativa alla ritirata. E chissà se il sedere non l’avrei finalmente alzato per mettere fine a questo stato provvisorio, tornandomene a Roma a disdire luce e gas o fare la voltura alla Corti, incassare la sua buonuscita e trovarmi questo benedetto traslocatore. E poi inchiodarmi qui al tavolo, sulla sedia precisa dove s’era seduta Ida e spremermi le cervella a concepire un piano economico di sopravvivenza a più lungo termine, calcolando gli spicci massimi che potevo spendere al giorno, come il naufrago le gocce d’acqua dolce dell’unica tanica che ha sul gommone per tirare avanti fino all’appuntamento con la nave finita fuori rotta, che sennò chi pagherebbe per vedere il film, in extremis per forza ha da apparire all’orizzonte; e che nel mio film erano i miei fittaioli che levavano l’assedio da me al prezzo della buonuscita che potevo permettermi di sganciare in base allo stesso piano di cui sopra.

A furia di fare su e giù le scale delle congetture sono andata a dormire persuasa che, mandare le tele a quegli “intermediari”, altro che circonvenzione d’un povero cieco che non arrivava a distinguere una scheggia di vetro da un diamante, si trattava della più lecita azione di autoconvincimento a fin di bene. Così l’indomani sono scesa da Liang a comprare carta bolle, carta pacchi, rotoloni di nastro adesivo e spago e uno di quei ganci elastici per i portabagagli delle machine, con il quale il Marco Polo al contrario mi ha aiutato a incastrare due scatoloni sottratti alla differenziata del “Mercoledì: carta e cartoni (SOLO PIEGATI!)” tra il portapacchi e il sedile della bici. Mi ci volle un bel po’ a imballare, ma il problema vero era come trasportare il pacco giù alla posta visto che era parecchio ingombrante. Mi è partito l’intero pomeriggio per ingegnarmi a fabbricare un’imbracatura sempre con quel gancio e la rimanente cordicella e scotch che, la mattina dopo, mi ha permesso di traghettare l’affare legato alla schiena a mo’ di vela fenicia nel porto delle Poste italiane. Per poi risalire sul ciuf-ciuf dei sette nani e tornarmene alla mia casetta nel bosco incantato, ordinare un altro po’ di tele, tubetti in esaurimento e pennelli nuovi all’ormai mio fornitore di fiducia e scordarmi ancora il mondo intero appresso alle strisce.

Ebbene non era una truffa! Giovedì – lo so che era giovedì perché ero appena tornata dal mercato – ha suonato la postina, minicar a motore acceso e sportello aperto mollata al cancello, mi ha chiesto se ero Lucialba De Feo, mi ha fatto firmare la raccomandata e mi ha allungato la busta con dentro l’assegno senza neanche chiedermi un documento: 480 euro! Fossi la mia vecchia maestra a questo punto mi sarei guadagnata i primi soldi da mesi. Balla su balla a questo ero arrivata: a farmi spedire un assegno intestato ad una povera anziana eventualmente già defunta per delle tele imbrattate alla peggio!

Ma il punto non è l’assegno in sé. Il punto è la cifra dei 480 euro esatti, che conosco benissimo, perché è quella precisa della mia ultima vincita ai gratta e vinci. Inutile girarci attorno a sgranare il rosario della mia beata vita campagnola e sperare che il masso che ho appeso al filino sul capo si sciolga nel nanogrammo di mercurio che dicono si trovi nelle pillolette omeopatiche. Come sono arrivata all’assegno è facile raccontare. Ma i gratta e vinci come me li spiego? Questo è la questione ed è pure inutile che me la pongo, dacché solo di mia pazzia si può trattare! Anche a scribacchiare su questi stupidi quaderni tutta quanta la mia insulsa autobiografia, cosa posso sperare di ricavarne? Il granello che mi ha mandato in tilt l’ingranaggio del cervello? Anche lo trovassi, poi che faccio, vado dal chirurgo e me lo faccio levare?

E va bene. Tanto se non scrivo cosa faccio? Anche le strisce non mi aiutano più. Dammi una mano tu, biro da due soldi, che comunque sei la mia unica speranza! Che ti prometto che non ti smaltirò nella plastica-metallo del martedì quando avrai sbavato tutto il tuo inchiostro. Ti cullerò sul fondo delle mie borse fino al mio ultimo passo, in segno di eterna riconoscenza. E dovessi definitivamente passare agli zaini, ti sistemerò nelle loro tasche più inutili, ci starai confortevole come i miliardari vegetali negli gerontocomi elvetici del lusso estremo. Altrimenti non ci rimane che filare dritti al manicomio insieme, tu nella busta di plastica con il mio spazzolino da denti e il pigiama, che mi concederanno come unico, ultimo bagaglio.

Sono nata a Roma nel 1975. Sono figlia di N.N. e mia madre, ragazza-madre a quarantun anni è morta pochi giorni prima che io compissi i miei primi due, per una polmonite trascinata e acchiappata al Forlanini quando c’era andata a partorirmi. Da allora fui cresciuta da zia, vedova senza figli già a vent’otto anni. Zia e la mamma erano di Frosinone e hanno perso i genitori e il loro fratellino nel grande bombardamento degli alleati del ’43 con la casa e il poco che possedevano. Nel 1950, zia diciottenne e mamma sedicenne sono scappate dalle suore alle quali erano state affidate in mancanza di parenti sopravvissuti. A Roma alloggiarono in una pensioncina a Piazza Sempione e i primi tempi hanno sgobbato come sguattere nella cucina di un’osteria abruzzese a via Batteria Nomentana. Poi hanno iniziato a fare le donne di servizio, cominciando a via Tripoli e condominio su condominio hanno risalito la china a colpi di passa parola verso Corso Trieste. Per fare infine ?il gran salto a viale Buozzi, in casa della figlia tardona e ritardata d’un illustre papà banchiere, che era riuscito a rimediarle un marito in extremis, in cambio dell’ assunzione come direttore di un’azienda, che a sua volta avrà la concessione d’un prestito “dall’istituto”. Il genero, l’uomo senza dubbio più disperato che allora si trovava a Roma, era stato ai patti e nel giro di venti mesi aveva fatto partorire alla deficiente due gemelle e, gloria sia al cielo, persino l’ormai vietato sperare erede maschio. Alla nascita di questo, come ciliegina sulla torta, la puerpera si è concessa il delirio religioso, ufficialmente detto depressione post partum, che il signore con la maiuscola la chiamava a ringraziarlo del miracolo del delfino, sacrificandogli tutt’e tre le creature come agnelli di pasqua sull’altare.

Il vecchio per salvare capra e cavoli, non perdere la facciata borghese mandando la figlia al manicomio e far scampare i tre nipoti alle sue grinfie, alla quinta bambinaia che se l’era squagliata nottetempo nel giro di due mesi, aveva sguinzagliato i servizi segreti della Repubblica a setacciare tutta Roma nord a scovargli una buona donna disposta a mettere piedi nella gabbia della “matta dei Parioli”, della quale nell’ambiente s’era subito sparsa la solidale voce di starne alla larga. Zia non è mai arrivata a spiegarsi come erano arrivati a lei, ma poco ci voleva: per sobbarcarsi quella rogna, bisognava essere disperate minimo quanto il “pover’uomo” del marito che aveva firmato il patto col vecchio mefisto. Lei invece ha sempre insistito che avesse accettato per la pena che costui le faceva. È stata comunque così avveduta da far assumere la mamma con lei. E per cinque anni – tempo minimo indispensabile per far sopravvivere la prole e spedirla al sicuro (si fa per dire) in un collegio religioso senza passare per dei crudeli, giustificando l’inusuale precoce scelta educativa con una decisione ch si addice alle buone famiglie devote – le due hanno sostenuto il clinch a giro di lancetta perpetua con l’orca del castello dorato. Che ad ogni attentato fallito, ne ideava uno più raffinato e diabolico ancora e che presto includevano loro due come vittime collaterali della crociata. Tanto che zia disse, che alla fine del quinquennio il ricordo dei bombardamenti e delle suore a Frosinone, era diventato quelli dei bei vecchi tempi. Il nonnetto, di cui non ha mai voluto farmi il nome come neanche del numero civico di viale Buozzi perché avevano sottoscritto un contratto con clausola di silenzio, non ha mancato di dimostrare la sua gratitudine: ha fatto assumere zia alle poste di San Silvestro e mia madre alla Rinascente dirimpetto, cosicché, oltre avere quei posti sicuri ancora oggi dei più ambiti, potevano prendere pure l’autobus insieme al mattino per andare a lavorare.

Quaderno 2

Il finale vero della favella l’ho saputa solo una sera di tre anni fa, quando zia si è lasciata andare a raccontarmela dopo che se l’era tenuto sul groppone come probabilmente altre che si è portata nella tomba: a coronare i santi intenti assassini della madre (“de’ fora com’er balcone der Duce”, cit.), ci ha poi pensato il figlioletto, che ha portato le sue amatissime sorelle maggiori a fare un giretto sull’Alfetta Romeo Bertone avuto in premio dal nonnone riccone per la laurea in giurisprudenza, affrettandosi a centrare con precisione scientifica un pino sulla Salaria a duecento all’ora e facendo fuori tutti e tre in un colpo solo. Il vecchio patriarca, lungi dal convincersi a ricoverare finalmente la figlia che era riuscita a combinarla per effetto ritardato del veleno inculcato nel figlioletto col latte materno e di stornare la pena al genero costretto al suo fianco, sfruttò i due mesi che resistette ad oltranza per fargliela ancora più sporca: ottenne il divorzio per la figlia in tempo record sacra rota inclusa e depositò dal notaio le di lei unica erede ultime volontà, che recitavano che lasciava la caterva di soldi al Vaticano. Lui, il “pover’uomo”, la sera del funerale dei figli, da uomo coscienzioso, scrisse la sua brava lettera di dimissione da amministratore delegato della ditta che aveva portato a quotazioni milionarie in borsa e solo ciò fatto, si concesse di uscire di casa e far perdere le sue tracce in doppia modalità Caffè-Majorano. Questa versione dei fatti, dato che sui giornali l’avevano messa come “tragico incidente stradale”, zia e mamma la seppero dal portiere del palazzo, quando due mesi dopo la “tragedia” e rimandata in rispetto del lutto, osarono andare a fare la loro visita di cordoglio al “pover’uomo”. Mentre io, che neanche della “tragedia” ero al corrente, venendola a sapere tutta, giurai che avrei sostituito il “pover’uomo” con “povero coglione”, ogni volta che mi sarebbe venuto di ripensarci.

Non ce la metto tanto per divagare, questa storiella ha il suo perché: di quelli di Bruno Buozzi, io so più di quanto so della mia famiglia di Frosinone. Perché dei buozziani zia mi ha raccontato molto più che dei nostri; e sicuro col proposito di non credermi la disgraziata orfanella di mamma e sprovvista di babbo, perché c’è di peggio, vedi quelli là che pure erano dei paperoni. L’effetto di questi racconti su di me, fu però che pensavo a Concettina, Mimmina e Totino come a dei miei cugini grandi, gli unici che avevo e che vivevano là, da quelle parti della Roma bene e dei quali ero timorosissima, non perché erano ricchi sfondati, ma perché zia e mamma hanno voluto loro bene minimo come a dei loro nipotini. La scena del nostro incontro, che un giorno sarebbe giunto per un caso del destino, i nostri abbracci, le lacrime, finalmente riuniti loro e io, la figlia-nipote delle bambinaie che avevano loro salvato la pelle da piccoli e che avevano cercato per mare e monti, è stata la pippa più gettonata della mia infanzia!

Mentre della mia famiglia c’è poco da raccontare. Zia si è sposata nel 1958 con Umberto Mancini che non ho avuto il piacere di conoscere lui nemmeno. Faceva il muratore, aveva una piccola impresa edile con cui si dava da fare alla periferia sud-ovest. Aveva tirato su lui la palazzina in via dell’Imbrecciato e si era fatto pagare il lavoro con l’appartamento al terzo piano (cucina, bagno, saloncino, due stanze da letto e la famosa cantina) per andarci a vivere con sua madre-vedova di cui era figlio unico. Sposando zia, in casa si è poi trovato anche la nuora mia futura mamma, perché a quei tempi, una donna non sposata che viveva da sola o era vedova o era zoccola. La suocera di zia è morta quattro mesi prima del figlio, nel 1960, che l’ha seguito volando giù dall’impalcatura della seconda palazzina che stava tirando su al Trullo con i suoi operai. Avesse vissuto, forse sarebbe diventato un onorevole costruttore-speculatore del grande umma-umma della capitale, dell’intramontabile sistema-potere, appalti, mazzette, permessi in deroga e tutto il resto. Ma avendo avuto la vita accorciata è rimasto l’onesto lavoratore che so, e nella casa dell’unica palazzina da lui finita terra-cielo, uniche testimone del passaggio suo e di tutti i mei altri antenati, sono rimaste a vivere zia e mia madre e dopo che lei è morta, zia con me.

Io, appena preso il diploma di ragioniera tre mesi prima di compiere i diciotto anni, ricevetti la chiamata di presentarmi allo studio del commercialista Emilio Necchi in via Odorisio da Gubbio, che a sua volta mi era giunta in risposta ad una delle decine di mie risposte ad annunci di lavoro su Porta Portese, il mitico, più letto settimanale della capitale di tutti i tempi. Necchi mi prese in prova (avevo pur sempre preso il massimo dei voti attestati in bella calligrafia sul diploma) e alla scadenza dei sei mesi (e volevo vedere con tutti gli straordinari gratis che gli avevo fatto) mi fece un contratto a tempo indeterminato, inquadrandomi come impiegata di concetto di primo livello secondo quello nazionale dei metalmeccanici, che era la cosa che gli conveniva di più. Ho lavorato per lui diciassette anni e tre mesi.

Se non delle striminzite dichiarazioni dei redditi, mi occupavo delle buste paga altrettanto striminzite dei dipendenti dei nostri clienti, quasi tutti commercianti della zona Portuense. Sono stata licenziata dalla figlia, che ha chiuso lo studio e si è ritirata a vita privata con il gruzzolone del padre non appena un cancro lo stroncò nel settembre del 2011. Quattordici anni prima, dopo i miei primi quattro da lui, avevo dato il mio gruzzoletto di 50 milioni di risparmi mie e soldi che mi ha lasciato la mamma come anticipo sulla casa per accollarmi un mutuo ventennale. Il settore era alle stelle, era cara, ma era pur anche (e se i miei affittuari non me l’hanno ridotto in un tugurio ancora lo è) un bell’appartamentino di 65 metri quadri calpestabili e trenta di terrazzo, quinto piano, vista orizzonte a 180 gradi a Villa Bonelli, e che in quel frangente si trovava esattamente a metà strada tra lo studio di Necchi e casa di zia.

Ci sono andata a vivere non appena rimediato il letto, il frigo e la cucina. Il resto dell’arredo l’ho messo insieme man mano con quello che mi avanzava sul muto, le spese del condominio, le bollette, quelle della macchina (udite, udite una volta ce l’avevo!), le ferie, i regalini e gli sfizi (in ordine di importanza). Ora mi mancano tre rate al compimento del mio più grande sogno dall’adolescenza, di avere una casa tutta mia: quella! Non ho avuto altre ambizioni dacché mi sembrava che per il resto avessi tutto quello che potevo desiderare. Salvo una famiglia mia, che forse desideravo ancora di più. Pensare di avere bambini però, come la dico questa? – non ci potevo pensare, ecco. Perché solo a pensarci morivo, mi si stringeva cuore, petto, ventre, tutto, non so se per la felicità inimmaginabile o la paura che non sarebbe potuto accadere. Adesso certo, con quello che mi succede da marzo e memore della matta dei Parioli, potrebbe essere stato un bene. Ma prima anche se non potevo pensarci, ci soffrivo. E che poi non ci pensavo neanche, perché stando con Aldo – oggi debbo dire mi illudevo – ci saremo arrivati sicuro. E visto che illusione è sinonimo di scemenza, posso risparmiarmi l’autodafé dettagliata sul mio ottennale fidanzamento: “Non facciamone una tragedia, che lo sapevamo tutti e due che era solo questione di tempo” (cit. anche questa). Poteva andare peggio. Potevo commettere un maschimicidio.

Non sono sempre stata zitella-vergine di ritorno. Anche se non più dopo, ho avuto le mie storie prima di Aldo, ovviamente disastrate anche quelle. E vorrei vedere a chi non sarebbe passato la voglia. Con lui ci siamo conosciuti nel 2005 al matrimonio di Tiziana, la mia amica dalle medie. Lui era amico dello sposo, laureato in economia e l’avevano appena assunto in banca a Perugia. È stata la sua laurea che mi ha fregato, non il fatto che stesse in banca, perché io ho il complesso delle cretine che non hanno studiato. Infatti, ne avevo già collezionati altri tre prima, uno che studiava filosofia, l’altro da geologo e il terzo che s’era laureato in chimica. Con Aldo di sposarci non se n’è mai parlato, anche se negli otto anni che siamo stati insieme, tra matrimoni di amiche mie e amici suoi, ce ne siamo sorbiti sei. È iniziato che mi invitò al cinema uno dei sabati sera delle sue visite ai suoi. Dopo, certo, a mettere insieme che diceva che non me li voleva presentare perché a conoscerli lo avrei lasciato tanto erano conformisti e che lui poi mi ha lasciato due mesi precisi dopo che avevo affittato casa ed ero tornata da zia, ci sono arrivata a fare il due più due: di casa mia, che per dirla con Totò, gli faceva comodo per il vitto-alloggio gratis stiratura inclusa nelle feste delle visite comandate ai genitori e del famoso trasferimento a Roma, che da scapolo che era non si sarebbero sbrigati a concedergli mai. E anche sui “conformisti” mi sono concessa la riflessione, se poteva essere che ci cozzavo per via della mia di famiglia anticonformisticamente ristrettina. E vorrei vedere chi avrebbe fatto salti di gioia a venire a sapere neanche un anno dopo, che s’era sposato con una di Perugia.

Sono cose capitate a tante e continueranno a capitare a tante, tutte sceme come me. Zia che ha avuto la delicatezza di non darmi mai dell’ipodotata, l’ha messa con una delle sue: “Eh, cara, dopo si è sempre più saggi!”. Il mio ‘dopo’ si era fatto largo dal momento che mi sono ritrovata licenziata e un altro lavoro a tempo indeterminato, crisi che galoppava e soggetto che ero di attempata col solo diploma di ragioneria e un’unica esperienza di lavoro senza neanche la conoscenza dell’inglese commerciale, certo come la tomba potevo scordarmelo. Il primo precario, ma ancora in regola dopo Necchi, l’ho rimediato due mesi dopo in un Caf a via Jenner, per uno stipendio che ovviamente non era più quello di prima che già ‘sta favola non era. Mi hanno rinnovato il contratto di collaborazione di sei mesi tre volte e poi basta, perché alla quarta avrebbero dovuto assumermi fissa. Sono stati gentili però, mi hanno offerto di lasciarmi continuare come volontaria! È allora che presa dal panico di non riuscire a pagare il mutuo, ho affittato la casa su due piedi a una neo-collega di Tiziana di Bologna, che la loro ditta aveva mandato giù a fare i corsi di aggiornamento nelle sedi romane. Ed è lì che ho fatto la cazzata più grossa, di affittare in nero. Almeno quella de “l’onestà alla fine paga sempre” di zia avrai dovuto prenderla a cuore. Perché la mia inquilina, altro che ridarsi su al nord prima allo scoccare dell’anno “che qui non ci resisto proprio”, è volata a nozze con un collega di Salerno, che aveva conosciuto a una delle cenette organizzate da Tizi per rendere all’emiliana un poco sopportabile il confino terrone. I due piccioncini hanno subito messo in cantiere due bimbe e adesso, per farli sloggiare non posso rivolgermi alle cosiddette autorità competenti se non a costo dell’autodenuncia per le tasse non versate e della probabile cartella di Equitalia. Cose che i due ben sanno e per cui pretendono una buon’uscita, che la Corti a saperla mi triplicherebbe quella che m’ha offerto per consegnarle casa di zia entro natale; oltre che a tagliarsi la lingua per il “dopo tutti gli anni che ho dovuto aspettare…”. Non che gliene voglio troppo, si è comunque fermato in tempo prima di completare in “… che morisse tua zia”, e chissà se l’imbarazzo per la mezza uscita non mi sia valsa la cantina gratis “fino a che”.

E non è che non avessi più lavorato. Ho lavorato sempre fino a febbraio scorso, se vogliamo contare gli ultimi sussulti all’albergo anche fino all’estate. Dopo il benservito del Caf e un altro intervallo di tre mesi di disoccupazione piena a correre a bussare a tutte le porte, mi hanno preso come receptionist in una palestra all’EUR, a fare i turni serali 14-22:30 lunedì-venerdì’ e 8-20 nei week-end tutto al nero per quasi un anno: il lavoro perfetto per coltivare le amicizie. E poi, quando il padrone decise di ridurre i costi per le iscrizioni in calo e sostituirmi con la moglie e la suocera, ho fatto la commessa-jolly nei tre negozi di abbigliamento di un vecchio cliente di Necchi, uno sulla Marconi, l’altro nell’Odorisio da Gubbio e il terzo a via Chiabrera. Se alla prima mi ha chiamato giusto per il periodo natalizio, perché la ragazza ingaggiata l’aveva piantato in asso su due piedi (come la capisco!), dopo che non gli riuscì a rimediarne una più avvincente, sono riuscita a tenermi a galla grazie all’abilità di non mandare a quel paese le clienti più stronze, che la mamma deve avermi trasmessa via Dna, e girando come una trottola tra i tre negozi inseguendo il pazzesco incastro dei cambi pranzo-permessi-malattie-sabati-ferie che da contratto spettavano alle tre commesse assunte fisse in ciascuno. Finché il proprietario non ha venduta ai cinesi – dopo la pasqua del 2015 quello a San Paolo e dopo i saldi a febbraio quello a Gubbio – riuscivo a tirare su cinque-seicento al mese tra nero e voucher; che se li maledicevo ogni volta che tra compilarli, firmarli e incassarli alla posta perdevo tre ore, rimanendo completamente a terra in primavera, mi è pure toccato rimpiangere.

Zia, le volte sempre più frequenti che non arrivavo a mettere insieme le rate del mutuo, me le pagava lei e senza che glielo abbia mai chiesto: mi lasciava l’assegno sul tavolo della cucina due settimane prima della scadenza. Mi è venuto il sospetto che tenesse il calcolo delle ore che lavoravo, ma non era così, capiva da come stavo che ne avevo bisogno e la cifra era sempre superiore. È riuscita a lasciarmi quasi 90.000 euro lo stesso, senza che si facesse mancare niente, figuriamoci a me. Aveva venduto la nuda proprietà della casa al Corti-padre-vicino di pianerottolo per miseri 120.000 euro, proprio quando m’ero messa a cercare la casa da comprarmi, perché voleva aiutarmi con l’anticipo, per diminuire quel cazzo di mutuo. Ma io volevo farcela da sola. Mi consolo che l’affare del Corti-padre sia servito a che non si sia angustiata con la pensione, perché se no, sai davvero i sensi di colpa!

Lei aveva lavorato da quando aveva 12 anni e sì sarà prese due settimane di malattia nella vita. Perché aveva una salute di ferro certo, ma anche perché riteneva che per non andare a lavorare ci volesse minimo l’infarto. E così deve essere stato anche per mamma, altrimenti quella polmonite magari se la sarebbe curata. Ma se per zia era inconcepibile imbrogliare, non per questo si castigava. Da quando ha potuto si è concesso di andare a fare l’agosto a Fiuggi. Si comprava poco vestiario, solo “roba buona” però; andava al circolo a ballare e giocare a bridge, coltivava le sue amicizie con le ex-colleghe, ci usciva al cinema, pizza e gelato. Gli uomini invece, li ha sempre tenuti a una distanza che sapeva lei, lasciava che qualcheduno la corteggiasse, ma appunto, nei limiti di quella sua misura. Ha sempre mangiato pesce il martedì e il venerdì, perché così le piaceva mica per altro, ed è sempre andata dalla parrucchiera il giovedì pomeriggio per “essere a posto”. L’ultima volta che per il caldo non se la sentì di uscire, la fece venire a casa, non perché gliel’avesse chiesto lei alla parrucchiera, ma perché questa si è presentata alla porta con la valigetta piena di bigodini quando aveva disdetto. Quand’è morta il 14 luglio, infatti, aveva una piega perfetta. Non ha mai detto né che le faceva piacere avermi di nuovo in casa, cosa che le faceva piacere di sicuro, e tanto meno se n’è lamentata; non ne approfittava, non mi commiserava, non mi rimproverava, non dava la colpa a nessuno, di niente. Non per fatalismo e non perché fosse ignorante o superficiale. Zia è difficile dire com’era.

Quanti e soprattutto quante hanno perso il lavoro e i fidanzati? Quanto a me però, non è questione di crisi e neanche degli uomini. Senza la crisi, forse, la mia vita sarebbe stata diversa. Garantito però, tutti gli altri che ci hanno rimesso lavori e fidanzati, oggi non stanno a riempire quaderni con le loro stupide storie nella speranza di ricavarci quel ché che gli ha fatto scattare la molla della pazzia. Io alla crisi non riuscivo a dare la colpa neanche prima dei gratta e vinci. So che gli illuminati dicono, che ai signori che la crisi ce l’hanno combinata, fa comodissimo che la gente se la prenda con sé stessa e non con loro, così ché rimangono comodi sulle stesse poltrone di sempre a combinarcene un’altra. Io ho delle ottime ragioni per prendermela con me sola e non si tratta di cose tipo, avrei dovuto reagire diversamente. Perché arrivo anche a riconoscermi che fino a primavera comunque non mi sono arresa. Non mi sono schifata di nessun lavoretto, mi sono sforzata di vestirmi decentemente sempre, di andare dal parrucchiere se non ogni settimana comunque una volta al mese, di stare attenta alla dieta, visto che andare in palestra era un sogno e di farmi manicure e pedicure da me. Avrei potuto fare di meglio certo, tipo andarmi a fare una cretinissima crociera e rimorchiare uno sfigato alla pari invece di accompagnare zia a Fiuggi ogni agosto, come mi dicevano le amiche. Avrei potuto continuare a frequentarle le amiche, nonostante i turni di lavoro incompatibili con i loro raduni e in barba alla paranoia che vai a sapere se era, che mi considerassero la rimasta fregata peggio non si può, poverina. Sarei dovuta andare dallo psicologo finché facevo in tempo e nonostante l’altra cara amica che mi è venuta a raccontare dello sposalizio di Aldo avesse studiato da psicologa! Più di tutto però, avrei dovuto chiedere i soldi a zia per fare un corso di qualcosa, di inglese perlomeno, to’ di manicure!, invece di fare la stoica e metterla in questa situazione penosa, che tra stare in pena per me che m’arrovellavo per il mutuo e temere d’offendermi, mi passava gli assegni quasi me ne chiedesse scusa. Perché di questo adesso mi cruccio più che del resto: lavoro, pensione, fidanzato, amicizie, tetto mio sulla testa e quant’altro è andato a farsi friggere. Anzi, si limitassero i miei problemi a quelli dei licenziati e fregate dalle coppie, mamme e pupi delle pubblicità per divani, cucine, detersivi e merendine!

Il mio errore capitale, a monte di tutto, è stato quello di non avere studiato, con questo mi sono imbrogliata dall’inizio e proprio perché non ho mai avuto una briciola di fantasia. Invece di fare il ragioniere, avrei dovuto fare il liceo come hanno fatto praticamente tutte le compagne delle medie, persino la Zanetti che a momenti non sapeva scrivere il proprio nome e pure guarda un po’, lavora al Ministero giù a Trastevere! Ma io pensavo che il massimo a cui potevo aspirare fosse di rimediare ai casini contabili-fiscali dei clienti di Necchi fino alla pensione, 21 giorni di ferie a vita, pagare il mio mutuo e sposarmi un giorno. Zia per certo sarebbe stata contenta se facevo il liceo e più ancora l’università, forse anche più che avessi avuto dei figli. E se non mi ha mai detto cosa fare o cosa non fare, sicuro era perché sapeva benissimo che non solo non ho una briciola di fantasia, ma proprio qualche rotella fuori posto. Perché se ti manca la fantasia, a voglia sperare che ti spunti l’intelligenza. E no, che sto a credere che con una laurea non sarei potuta rimanere disoccupata uguale. Ma sono certa che se avessi studiato, una storia demenziale come quella dei gratta e vinci non mi sarebbe potuto capitare: perché è roba da MENTECATTE, ecco cos’è! A voglia farmi da psicologa da me e dirmi che può essere lo stress accumulato e che a farmi un periodo di riposo torna tutto a posto. Ci ho provato e non ha funzionato!

E adesso mi ci inchiodo, non scappo un’altra volta a riattizzare il fuoco, fare la pipì, fumarmi una sigaretta, schiacciarmi due noci e poi andare a dormire perché sono stanca! Metto su la moca, me la calo tutta e ci sto a scriverla se necessario fino all’alba di dopodomani. Ecco, faccio finta che mi sono beccata il temino di punizione dalla De Feo, titolo: “La cosa più straordinaria che mi è successo nella vita” e ci riempio ogni riga di maledetto quaderno che trovo, alternativa consegnarmi al servizio di salute mentale di corsa.

È cominciato a fine marzo che già con i negozi avevo chiuso, il giorno che a zia è girata la testa mentre stava stirando. Ho chiamato il medico anche se lei non voleva e quello è venuto a darle un’occhiata dopo studio e una volta che l’aveva visitata, le ha fatto i complimenti per l’ottima salute in cui la trovava. Le ha detto di bere di più e le ha scritto la ricetta per il magnesio-potassio che poteva essere le mancavano e per scrupolo anche quella per gli esami del sangue. Sono scesa con lui per andare alla farmacia a prendere l’integratore e prenotare il prelievo a domicilio l’indomani presto a digiuno. Stava per tramontare e non pioveva più come i giorni prima. E così, dopo che zia aveva calato l’intruglio e forse anche per il sollievo che il dottore aveva detto che non c’era da preoccuparsi, lei a rassicurarmi che stava bene e promettere che non si sarebbe alzata dal divano, sono uscita di nuovo a prendere un po’ d’aria prima di preparare la cena.

Feci il giro in giù fino all’INPS e nella piazzetta dietro col bar-pasticceria-rosticceria-tabacchi, mi sono seduta a uno dei tavolini e ho ordinato un vermut. A cercare le sigarette le avevo lasciate a case e sono entrata a comprarmi un pacchetto con l’accendino. Davanti a me c’era un tizio che la faceva lunga coi gratta e vinci, ne chiedeva una sfilza, d’ogni prezzo e dai nomi più strampalati che allora sentii la prima volta. Poi tirò fuori una banconota da duecento – lo so perché la ragazza l’alzò per vedere il filo d’argento – e finalmente, senza che gli dovessero un centesimo di resto, raccattò il suo mazzo e mi cedette il posto. Quando mi riaffacciai, stava seduto al tavolino vicino a quello col mio bicchiere e si stava accanendo sui cartoncini con una moneta, scaraventandoli a terra uno dopo l’altro con un vaffanculo sonoro non appena scopriva di non aver vinto, sempre più incazzato. Finito il lavoro – e sgobbato aveva visto che ho contato una ventina di vaffanculo buoni – si è alzato rovesciando la sedia e se n’è andato bestemmiando anche peggio, tanto che il barista è uscito a vedere cosa stava succedendo. E che poi è venuto a rimettere in piedi la sedia e raccogliere il casino delle cartacce sparse con la scopa e la scodella. Quando si è ritirato, ho visto che uno mi era finito sotto i piedi e l’ho raccolto.

Non avevo mai comprato un gratta e vinci prima e se per questo neanche dopo. Ero rimasta sconcertata dal tipo che ci aveva buttato tanti soldi e mi era venuta la curiosità di quanto poteva aver sperato di vincerci e così lessi le istruzioni sul retro e poi guardai i campi sfregati davanti. E poi lessi di nuovo dietro e controllai davanti. E ancora, e ancora: ho girato quell’affare fronte-retro almeno sette volte e ogni volta mi risultava che ci fosse una vincita di duecento euro esatti. Incredula ricontrollai ancora, ma non ci potevo credere lo stesso e infine conclusi che se non mi sbagliavo io, l’unica era che nell’agitazione l’imbecille aveva visto male. Finii il mio aperitivo, mi fumai la sigaretta. E poi tornai dentro, uno per avere la certezza che la vincita ci fosse e due perché pensai che il tipo fosse un giocatore abituale e che loro lo conoscessero, e se era così, gli avrebbero potuto dare la vincita la prossima volta. La ragazza al banco stette a litigare al telefono con uno che sollecitava un pagamento e lei a ripetere che non avevano ricevuto la fattura e dopo un po’ che mi aveva fatto segno di avere pazienza, si è ficcata la cornetta tra orecchio e spalla e mi ha fatto cenno di dirle e le ho allungato il cartoncino. Non appena ispezionato, mi fece un gran sorriso alzando il pollice. Io provai a farle no-no coll’indice, ma lei aveva già preso e messo giù sul piatto una banconota da duecento dalla cassa (forse l’identica con cui aveva pagato il tizio), aveva sbattuto giù la cornetta e urlato, “ah Giova’ vieni a parlarci tu!” ed era sparita nella porta sul retrobottega. Sbalordita ancora di più, a quel punto presi i soldi e me ne sono andata. Per tutto quanto insieme: la ragazza alla quale vincere duecento euro non era sembrato straordinario più di tanto, il coglione che se avesse visto la vincita sicuro se la sarebbe rigiocata all’istante e perché a volergliela far avere, avrei solo fatto la figura della stupida io. Perché di quei soldi non gliene fregava niente a nessuno, questo era! E quindi ok, me ne incaricavo io: ci avrei comprato una bella borsa a zia per il compleanno, che erano giorni che mi torturavo su come farle un regalo decente!

Il dubbio che non di svista del tipo ma di qualcos’altro doveva trattarsi, mi venne la seconda volta. Erano passati forse tre giorni e stavo ad aspettare il mio turno dal pescivendolo per prendere le mazzancolle a zia che una vecchietta dietro mi tirò al braccio e mi indicò il biglietto a terra. Mi sono chinata a raccoglierlo ed era un altro gratta e vinci già grattato, che mi sono girata a porgerle perché pensavo le fosse caduto. “Non è mica mio, è suo!”, mi fece stizzita e per cui capì che mi rimproverava perché pensava l’avessi buttato io. Mi ha messo pure in imbarazzo! In quel momento toccava a me così me lo sono ficcata in tasca senza replicare e me lo sono ritrovato in mano insieme alle chiavi davanti al portone. Ci detti uno sguardo in ascensore: era un Portafortuna da un euro e sulla raschiatura cappeggiavano tre 50 euro: un’altra vincita. Mi sono risvegliata dal coma solo quando Forletti ha chiamato l’ascensore da sotto. A trovarmici dentro m’ha fatto: “E che ci aspetti la pasqua qui dentro?”. È sempre stato stronzo, dal giorno che è venuto a stare nel palazzo e mi è toccato farci dall’ultima della materna fino alla seconda delle medie insieme, prima di scansarlo grazie al fatto che l’hanno bocciato e i suoi lo hanno mandato dai preti sulla collina.

Dopo il pranzo, che mandai giù per non far preoccupare zia, mi ritirai in camera, provai a calmarmi e trovare una spiegazione sensata, che se non già alla prima alla seconda ci voleva. Dopo le quattro per non andare in paranoia totale, sono uscita. Presi l’autobus fino al tabacchi tre fermate più in là su Colli Portuensi e dove tenni duro per non svenire quando il tipo mi fece, “auguri!” e mi chiese se volevo i soldi o “degli altri”. “Eh, me li dia”, gli feci a monosillabi cosa che deve aver preso come mia rassegnazione a rimetterci i 50: “Come li vuole?” – “Faccia pure lei”, presi in consegna dieci Forzieri da cinque euro. Vergognandomi di grattarli in pubblico, li scorticai sul tavolo della cucina dopo cena, zia a guardare C’è posta per te o Amici o non so quale trasmissione della De Filippi, mai capito perché non se ne perdeva una. Grattando, grattando, niente: avevo solo sprecato le 50 euro. Sentii il peso scivolarmi giù da cuore, un sollievo mai provato prima. Seppellii immediatamente le cartacce nella spazzatura e ripulii il tavolo da quella patina grigia, accorgendomi di quanto è difficile. Qualche tempo dopo, sul bancone di un bar-tabacchi ho visto un cartello con scritto “NON GRATTARE I GRATTAEVINCI QUI SOPRA PER FAVORE!!!!!”, messo lì dal barista stufo di lavare via quella roba schifosa. E un’altra volta ho visto il colmo in assoluto: una specie di leggio fatto a colonna parallelepipeda di plexiglas vuota dentro, con la fessura nel coperchio per infilarci i grattaevinci raschiati, concepito appositamente per non farli buttare in giro!

Da quella sera non ne ho più grattato uno solo. Ma non per questo non ho più vinto. Se anche per poco, ho continuato a vincere con quelli già buttati via dalla gente che non si era accorta d’aver vinto. Che è così che doveva funzionare, ho iniziato a sospettarlo la terza volta, con uno lasciato sullo scrittoietto alla posta, dove m’ero poggiata aspettando che uscisse il mio numero per pagare le bollette di zia: un Dado Matto con 100 euro di vincita. Fu allora che mi balenò che poteva essere questione di gratta e vinci creduti nulla dai legittimi proprietari. Quella volta, cercando di non dare i numeri, presi l’autobus fino alla stazione di Trastevere e lì entrai al tabaccaio al capolinea del Tre; a comprarmi le sigarette sempre dimenticate a casa che avevo bisogno di fumarmene una a polmoni spiegati e non per intascare le 100. Preso il pacchetto, mi avvicinai al bidone della spazzatura nell’angolo per buttarci il cellofan levato prima di uscire e proprio in quel momento, una ragazza ci spazzò dentro il gratta e vinci appena scuoiato dal tavolino. E io, e giuro non so perché, ho accompagnato giù col braccio nel secchio il mio cartoccio di cellofan e ho ripescato quel cartoncino – almeno credo quello fosse, visto quanto ne sono strapieni i bidoni ai tabacchi. Dopo di che mi sono precipitata fuori, non più per fumare, ma a prendere al volo il tram in partenza: bingo di nuovo, altri cinquanta euro, questa volta era un Forziere. Mi cedettero le gambe, per fortuna c’era un posto a sedere libero. ‘Sei diventata pazza, sei diventata pazza, sei diventata pazza… ‘, fu l’unica cosa che mi riuscì di pensare finché non mi accorsi d’essere a Piramide. Scesi, attraversai malferma e entrai nel bar del parco della posta lì e chiesi un caffè corretto, perché a chiedere un cognac alle dieci del mattino mi vergognavo. Lo sorseggiai coscienziosamente tutto e poi mi staccai dal banco per vedere se le gambe mi reggevano e mi incamminai sulla Marmorata, respirando a fondo e sperando di farcela alla fermata del 719 per tornare a casa. Ma dopo pochi passi mi venne da piangere e non volendo che qualcuno si accorgesse ho attraversato e mi sono infilata nella via che fiancheggia il cimitero protestante meno trafficata. E lì, cercando di ricacciare le lacrime senza riuscirci, vedendo che il portoncino era aperto, ci sono entrata e mi sono allontanata tra le tombe fino all’angolo sopra la cappella. Dove sincerandomi che non ci fosse gente, mi sedetti su una lapida, a piangere come una fontana. Dopo un po’ è spuntato un gattone nero che prima prese a farmi le fusa strusciandomisi sulle gambe e poi saltò sulla tomba e mi si piazzò in grembo. Rimasi così sorpresa che lo lasciai fare anche se i gatti non mi sono simpatici e poteva avere le pulci; l’ho pesino accarezzato. Dopo un po’ si è stufato ed è risaltato a terra e io, forse perché non volevo rinunciare alla sua compagnia, l’ho seguito verso l’uscita e quando ha tirato dritto a fianco della casetta dei custodi, mi sono fermata a leggere il cartello appeso e poi ho infilato cinque euro nella cassetta sul davanzale della finestra come invitavano a fare per sostenere l’associazione e mi sono presa la piantina con l’indicazione delle tombe dei più illustri sepolti e me la sono studiata. Gatto sparito definitivamente mi sono avventurata attraverso la breccia nel muro in direzione della lapide di Shelley che doveva trovarsi raso suolo piazzata nel prato che affaccia sulla piramide, lato che non si vede mai. Ho fatto il giro completo dell’area tre volte e poi, gambe ristabilite e rubinetto delle lacrime chiuso, ho deciso che dovevo vederci chiaro.

Tornata all’ingresso e sulla Mormorata piegai a destra, passai lo stretto tra Porta San Sebastiano e la Piramide e al semaforo attraversai in direzione della stazione dei treni per Ostia, dove sapevo c’era il tabaccaio e ci andai a passare i due cartoncini della mattinata al tizio alla cassa, senza abbassare lo sguardo, pronta a scusarmi non appena m’avrebbe detto che mi ero spagliata. E invece no di nuovo! Mi ha allungato le 150 euro, anche lui senza fare storie. A quel punto, invece di sentirmi male, mi sono incazzata; mi sono girata a cercare il bidone della cartastraccia che era vicino all’uscita. Non c’era neanche bisogno di infilarci la mano tanto era stracolmo, tre gratta e vinci piazzati in cima alla zozzeria come canditi sulle cassate. Li afferrai in una manciata nel mentre infilai la porta e poi accelerai verso l’ingresso della metro, misi l’euro e mezzo nella macchinetta per il biglietto che l’altro m’era scaduto e la presi in direzione centro.

Uscita a Monti, entrai nel primo bar di via Urbana e mi studiai i tre cartoncini, accostandomi alla parete dopo tre sorsi d’un succo di albicocca: 75 euro! Stetti per risentirmi male, ma mi dissi che dovevo farcela. Uscii e m’incamminai, decisa a procedere alla raccolta sistematica. Ne rastrellai quanti più possibili nei bidoni cercando di farlo senza dare troppo nell’occhio nei due tabaccai su via dei Serpenti, in quello all’angolo di via Nazionale con il Quirinale e poi in quello giù a Piazza Venezia, dove infine sono andata a prendere l’8 per tornarmene a casa.

Aspettai di nuovo fino a dopo cena che zia lasciandomi lo sparecchio si fosse istallata davanti alla tv e ho passato in rassegna il malloppo: tredici grattaevinci raccattati, tredici vincite, in tutto 480 euro! Costatato il fatto, invece di dare di testa, mi sentii invadere di una stranissima calma. Mi mossi lenta, come telecomandata: tirai fuori il sacco della spazzatura dal secchio sotto al lavello, ci ficcai prima i cartoncini e appresso gli avanzi della cena, lo chiusi col laccetto e scesi a buttarlo nei cassonetti e tornai su, misi i piatti nella lavastoviglie e rassettai la cucina. Quando mi sono affacciata a dare la buonanotte a zia non dovevo avere sta gran cera, perché insistette a preparami una tisana. “Sarà la menopausa, non è niente passa anche quella”, mi fece. In circostanze normali chissà mi ci sarei depressa, ma mentre lei aveva trafficato con il pentolino e la tazza, tra la nebbia bianca che avevo in testa mi si era fatto avanti l’altro pensiero, più folle ancora, spaventoso: e se quei gratta e vinci effettivamente non-vincenti lo diventavano quando li prendevo in mano io?

Quella notte non ho chiuso occhio. Per tutta la settimana e anche quelle dopo mi sforzai al massimo a non dare a vedere niente a zia: uscivo a camminare più che potevo, devo essermi fatta un milione di chilometri in lungo e largo per tutta Roma per tutto aprile. E piano piano, mandando zia a comprarmi le sigarette e cambiando marciapiede ad ogni insegna T azzurra intercettata, arrivai a convincermi che i gratta e vinci semplicemente non esistevano. Mi sono ripresa al punto che mi portavo appresso il mazzo di curriculum fotocopiati e li lasciavo ai negozi andando in giro. Scendevo anche all’internet point all’angolo ogni due giorni a controllare gli annunci in rete e lo spedivo non appena ce n’era uno che non pareva una presa per i fondelli a prima vista. Mi hanno pure chiamato a fare due colloqui, e a maggio, giugno e inizio luglio un albergo a Monte Mario mi ha ingaggiato per fare qualche giorno da hostess ai congressi che tengono là dentro. Poi non più. Ma poi è morta zia e voglio vedere se arrivavo a crucciarmene.

Non mi mancavano le buone ragioni per andarmene da Roma: il lutto, la buon’uscita e la cantina della legittima proprietaria da diciotto anni se sloggio presto, la banda Emilia-Campagna in parcheggio lunga sosta da me, lavoretti solo a ore e sempre meno, single cronicizzata, latitanza totale di amici, ecc., ecc. E voglio vedere se andare a vivere in provincia dove si spende meno e dove sarei riuscita a tirare a campare più a lungo con l’introito dell’affitto e quanto mi ha lasciato zia non fosse una soluzione assennata. Anche per cambiare aria e prendere un po’ fiato, perché tra il funerale, la trafila di visite di condoglianze delle vicine e amiche di zia, sbrigare tutte le pratiche e passare in rassegna ogni briciola degli averi di zia per la mia mai morta speranza di scovare un biglietto con scritto il nome di mio padre e infine svuotare la casa col caldo alle stelle, non è che mi sia riposata. Il modo migliore per risparmiare e riprendermi dallo shock. Perché di questo si è trattato, dacché zia aveva solo 84 anni ed era sana com’un pesce, oggi sembra che vivano tutti fino a minimo cento! Sì, le era girata la testa quella volta, ma con le bustine i disturbi non le erano più tornati. E neanche agli esami del sangue e alla visita dal cardiologo che insistetti si andasse a fare non era saltato fuori niente. E poi aveva acconsentito anche a lasciarmi fare tutte le pulizie e le spese pesanti, anche perché se no, cosa facevo tutto il giorno a parte fare volantinaggio col mio fantastico curriculum.

Ma ciò non toglie che al fondo, i gratta e vinci possono avere avuto il loro peso nel decidere di affittare questa casa nell’angolo più sperduto del mondo. Perché se anche dal giorno dei 480 euro vinti e seppelliti nei cassonetti non ne ho più raccattato uno e ho fatto di tutto per ignorarli, se sono riuscita a non pensarci più e tanto più dopo che zia è morta, questi mi sono rimasti nel retro-cervello come belve feroci pronte a saltarmi addosso. Perché se in città evitarli è impossibile dacché uno li calpesta non appena mette il piede fuori dal portone, evitarli in campagna è più facile. E sì che adesso so che anche qui è pieno, basta andare giù al bar alla rotonda. Ma da quando vivo a distanza di due chilometri dal primo posto dove li vendono, mi stava riuscendo di scansarli meglio. Ormai riesco a scancellarmeli dalla vista non appena mi ci entrano e alla lunga, di sicuro sarei riuscita a persuadermi che m’ero sognata tutto quanto. Ma ora che mi è arrivato l’assegno, come faccio a credere che si tratti di una pura coincidenza che questo ammonti esattamente ai 480 euro dell’ultima vincita? E ciò pure oltre il fatto, già di per sé sia più che improbabile, che me lo abbiano mandato per tre tele che un bambino avrebbe saputo imbrattare molto meglio?

Va bene, com’è andato con i gratta e vinci me lo sono scritto, per oggi mi grazio.

Magari a qualcosa invece scrivere serve, perché ripensandoci oggi mi è venuto di farci caso alla coincidenza, che il primo gratta e vinci mi è capitato il giorno che a zia è girata la testa. Non che non lo sapessi o ricordassi, ma non ci avevo fatto caso, non so come dire. Solo che al dunque, che me ne faccio della coincidenza? Se il girare la testa a zia e il suo infarto al terremoto possono entrarci tra loro, cosa c’entrano a loro volta i grattaevinci? E se c’entrassero, cosa mi deve significare, che si tratti di segni del cielo o cose del genere? Non ci ho mai creduto! Forse mi dovrei procurare un manuale di psicologia piuttosto e indagare se è possibile che a una, presa da preoccupazioni per una persona cara intuendo segni premonitori può andare in cortocircuito la mente al punto che si inventi una storia come i grattaevinci.

Solo una volta, in biblioteca, mi sono andato a guardare una cosa di psicologia e che era quella della rimozione. E questo con zia c’entrava anche se è difficile dire come. Di rimozione parlavano nei libri di storia sulla guerra che un periodo leggevo, ma parlavano di “rimozione storica”, del nazifascismo e dei crimini. Cosa che non capivo e per cui sono andata a cercarmi cosa intendevano per rimozione in psicologia; e ci ho capito ancora di meno. Perché prendiamo l’armadio della vergogna con i documenti e le testimonianze sulle stragi che hanno ritrovato dopo sessant’anni, ecco, quello preciso era stato rimosso, alla lettera, l’hanno girato con le ante al muro nello scantinato di quel tribunale. Ma allora perché dicono che tutto è stato dimenticato perché si è voluto dimenticarlo, qui il fascismo e là il nazismo e tutto quanto hanno fatto, incluso provocare i bombardamenti? L’hanno mica dimenticato, l’anno proprio spazzato-rimosso come la polvere sotto il tappeto, affinché i processi non si facessero, che nessuno andasse in galera e chi si ricordava tacesse. Io che ho fatto il ragioniere, ho forse mai sentito parlare del ventennio a scuola? eppure c’è stato, anzi ne parlano sempre più come fosse stata se non l’epoca gloriosa della patria, una come un’altra. E no, mi si dirà, che pretendi, hai fatto il ragioniere, se volevi sapere ‘ste cose andavi a fare il liceo! E allora che è questa rimozione storica, che solo quelli che studiano la sanno e tutti gli altri se proprio non vogliono accontentarsi delle isole dei famosi, si informassero come possono, se hanno i soldi comprandosi i libri, se non li hanno andando in biblioteca e se proprio sono degli sfigati totali che fanno solo i turni di notte e il week-end quando quelle sono chiuse, si guardassero Mieli su Rai storia o se le facessero raccontare dai nonni o dai vecchi ai giardinetti. E se poi i vecchietti erano stati fascisti, come te la raccontano?

Questa storia della rimozione storica mi faceva incazzare e anche leggere la voce sul dizionario psicologico, che diceva che la rimozione è quando le cose spiacevoli, di cui ci si vergogna o che ci si è inventati dell’infanzia e che si sono voluti dimenticare possono incasinare l’inconscio, ma che quello poi torna a posto se uno se li ricorda, qualcosa del genere. Zia e mamma, che avevano perso tutti nei bombardamenti, spiacevole davvero, cavolo!, ma mica se l’erano inventato o se ne vergognavano! Se zia non me ne ha voluto raccontare più di tanto, non è perché che se l’era voluto dimenticare, è perché l’ha avuto sul cuore sempre e non volevo che ce l’avessi pure io, questo era! Lo so per certo dalla notte che è morta, perché guarda la coincidenza, proprio la sera prima, vedendo le immagini di Aleppo bombardata al telegiornale, a un certo punto gliel’ho sentito dire: “È una grande Frosinone, poveri bambini!”. E per cui poi, a sentire il terremoto poco dopo avere visto le case distrutte, i bambini coperti di polvere e sangue e la gente che fuggiva là in Siria, l’infarto magari le è venuto perché chissà, tra sonno e veglia, a ballare il letto, non ha capito che era il terremoto e non le bombe. Ma uno psicologo forse mi direbbe, che proprio perché le era tornata quel ricordo dell’infanzia prima di andare a dormire, le è venuto l’infarto. E sì, dico: è morta, ma non che le si è incasinato l’inconscio. Oppure si? Ma non sto a dibattere con uno psicologo e che rischio di finirci.

Comunque, il paragone tra la Aleppo e Frosinone, di fatto, è stato uno dei pochi cenni che zia mi ha fatto sul dramma di lei e mamma. Un’altra volta mi disse: “Io e tua mamma siamo andate a scuola, ci ha mandati Mussolini.” Uscita strana, perché per quanto non si impicciava di politica, che i fascisti le stavano su quelli, è poco ma certo. Ma facendo i conti, deve avere inteso la scuola dell’obbligo, quella pubblica, dove possono essere andate, forse anche solo pochi mesi, prima che finissero dalle suore. E dove chissà si siano cuccate anche la propaganda fascista. Ma vai a sapere se questa, ai poveracci in Terra di lavoro rispetto al millenario solo imparare a recitare preghiere e rosari poteva fare un baffo. Mentre imparare a leggere scrivere per loro poteva invece rappresentava la prima elementare possibilità d’uscire dall’ignoranza totale e di cui erano sempre stati privati proprio perché non si ribellassero a fare i servi della gleba. Pensieri che mi fanno vergognare della mia stupidità, perché zia per essere stata una che era uscita viva dalle macerie da ultima delle ultime ciociare, a fare l’impiegata alle poste a Roma, era comunque riuscita a farsi due piani sull’ascensore sociale. Mentre io con tutte le opportunità di studiare serviti sul piatto, guarda come sono finita!

Ok, non ho studiato e me ne rammarico. Ma comunque ho sempre letto e non solo romanzi rosa, mi voglio riconoscere qualcosa. A via Cardano in fondo a via da Gubbio sul Tevere, c’è la biblioteca comunale, quella dove ho preso libri in prestito per vent’anni. Dentro hanno un baretto, ci ho passato molte delle mie ore del pranzo a leggere, di tutto, quando lavoravo da Necchi e poi nei buchi tra i turni ai negozi; e negli ultimi mesi che non lavoravo più ci andavo di nuovo a prendermi dei libri, perché se no che facevo tutto il giorno a parte distribuire il curriculum e pulire i vetri a zia? Sarà stato a vent’anni che lessi La ciociara che per me è stato come leggere una storia di famiglia. O meglio, ho capito che Cesira e figlia non erano affatto “la storia siamo noi” della canzone di De Gregori, ma che facevano parte della storia con la S maiuscola, che praticamente solo allora capii che esistesse. È assurdo ma per me fu così, come la bambina di Anna dei miracoli che arriva a fare il nesso tra “acqua” e l’abc: capii che io non avevo dei nonni, zii e cugini, non solo perché zio Umberto aveva perso il padre presto e sua madre era morta poco prima di lui, ma perché quelli di Frosinone erano morti in guerra e non per sfiga. E capii anche che i libri che avevo letto fino allora, in specie i romanzi alla Dickens con tutti quei protagonisti orfanelli e trovatelli per i quali li avevo divorato nell’adolescenza nella speranza che ce la facessero come poi ce la fanno, e per i quali devo essermi convinta fossero stati scritti per me appositamente, insomma, che quei romanzi parlavano anche di storia, talvolta persino i gialli e i thriller ai quali ero passata dopo; che la guerra civile americana c’era stata e che la Rossella O’Hara c’era, perché quella c’era stata e non a rovescio.

Non credo di spiegarmi, ma tanto non importa. Volevo scrivere quest’altra, di zia e mamma e me che ci ho ripensato oggi. Quando sono andata a lavorare da Necchi e ho scoperto quella biblioteca a diciotto anni, è successo che mi sono appassionata alla letteratura italiana del dopoguerra. Non è riuscita a cancellarmi l’idea che dovevo avere dalla tenerissima infanzia, d’essere una Cenerentola la cui storia non poteva che andare a parare al “e vissero felici e contenti”, altrimenti non sarei andata a sbattere sempre in tipi come Aldo, che col cavolo si sposavano l’idiota-me. Ci stavano finché avevo casa e facevo la Cenerentola a loro, non si sognavano neanche di trasformarmi in principessa o di farmi da professor Higgins a insegnarmi a parlare bene. Ma tutti quei libri di Moravia, della Morante, dei due Levi eccetera, hanno fatto sì che io realizzassi, uno, che di storie proprio di quella guerra che aveva ammazzato parte della mia famiglia si trattava e, due, che io nella storia, rispetto alla guerra, ero nata sfasata. Perché non fosse stato per il capriccio dell’orologio biologico di mia madre e del suo rifiuto di abortire, sarei dovuta nascere piuttosto negli anni Cinquanta o Sessanta e non a metà degli anni Settanta. Questa scelta di mamma ha fatto che io sono una figlia del dopoguerra che si è ritrovata schizzata nel penultimo frangente della guerra fredda, oltre la generazione del boom alla quale avrei dovuta appartenere per logica biologica. Rifiuto di mamma che poi – e qui arrivo ai segreti di famiglia – dacché per certo non era frutto di convinzione religiosa, doveva essere una sua rivolta alla morale dei benpensanti. Perché credo che ancora nel ’75, per una commessa della Rinascente nubile quarantenne, non ci fosse modo migliore di sputtanarsi che facendo la ragazza madre-nonna. E molto più logico sarebbe stato che rimediasse con l’aborto. Perché i genitori dei mei compagni di scuola non erano affatto figli di contestatori Sessantottini, gruppi di autocoscienza, femministe e tutto il circo. Al contrario: erano figli di burini che votavano anche più volentieri Msi che democristiano. A conoscerla, via dell’Imbrecciato, nasce sorniona ai piedi delle mura del Forte Portuense e dopo i lotti palazzinati tra vorrei-borghese e non-ce-lo-possiamo-permettere sfila diligente in mezzo ai possessi delle congregazioni religiose dai nomi più osannanti e si spalanca in due dopo questi, di qua verso il casale sul cucuzzolo e di là in giù come un serpente stipato verso la Magliana. Ma che poi là sotto per un tratto cambi nome in Riccardo Lombardi e di sopra, all’Inps, incroci la Lenin non deve trarre in inganno, perché lungo l’Imbrecciato, di comunisti e socialisti in carne e ossa in numero da scendere a compromessi storici, non ci hanno mai vissuto.

In ogni modo: il punto è, che solo a leggere quei libri realizzai che mia madre morta anzi tempo e mia zia madre-sostitutiva dall’età delle nonne dei miei compagni, che di buon grado me lo ricordavano aggiungendo al “figlia di mignotta” usuale anche “decrepita”, non solo avevano l’età delle nonne, ma che effettivamente erano nate in quell’altro tempo, del fascismo e della guerra e di cui non solo zia, ma anche gli altri grandi non parlavano. Ma di più: i primi anni che andavo in quella biblioteca, c’era una bibliotecaria che mi aveva preso in simpatia e che la volta che riconsegnai Cristo si è fermato a Eboli, come sempre mi chiese se il libro mi era piaciuto. Io le dissi che sì, molto, perché mi aveva fatto capire come potevano avere vissuto i miei bisnonni e nonni se anche erano ciociari e non lucani. E lei allora mi parlò di Ernesto De Martino, che proseguendo sulla strada del Levi Carlo, aveva concepito una teoria sull’entrata nella storia dei contadini delle zone più povere d’Italia e dei popoli aborigeni che continuavano a scoprire nelle foreste. Io poi presi in prestito il suo libro sulla magia al sud. Non ci ho capito molto, ma di una cosa di certo mi fece rendere conto: dell’altra stranezza di zia, ovvero che non solo non era religiosa, ma neanche superstiziosa. E così tra i romanzi del dopoguerra e De Martino, i primi mi avevano fatto capire che la storia esisteva, l’altro fece sì che realizzai che zia era come rimasta sul crinale di questa, uno tutto suo.

Non so se da piccole in aggiunta alle bombe alle due siano toccati dei traumi alla Ciociara. Zia non ne ha mai fatto cenno. Per darsela con mamma dalle suore non ancora maggiorenne, perché allora ci si arrivava a ventun anni, magari bastava e avanzava quel giardino dell’Eden, di cui una volta mi disse: “Ci facevano fare la fame, nonostante si prendessero le nostre paghe per i lavori di serve che ci mandavano a fare.” Ragione eventualmente sufficiente a spiegare l’altra a-tipicità di famiglia, che io non sono stata battezzata e non ho ricevuto alcuna educazione religiosa. Cosa che alla periferia sud-ovest in caput mundi cattolico fine anni Settanta magari era straordinario anche più che essere cresciuta dalla zia-nonna unica parente. E che per forza deve essere frutto della convinzione di entrambe, perché l’avesse voluto solo mia madre, zia avrebbe avuto modo di rimediarci. Ma non l’ha fatto, anzi: lei stessa si era sposata solo in comune, non andava a messa e in casa non teneva né Bibbia, crocifisso, acquasantiera, madonnina, padrepio che fosse. Non faceva entrare il prete per la benedizione, non ha mai recitato una preghiera in mia presenza né tantomeno me ne ha fatte recitare. Non nominava dio, la vergine, il santo cielo o si faceva il segno della croce e io per questo le ho fatto il funerale senza prete, anche se lei non aveva mai detto cosa volesse o non volesse. Ma poi appunto, oltre questo, lei nemmeno incrociava le dita, non faceva le corna, non leggeva l’oroscopo e non credeva nei poteri delle piante e queste cose qua.

Il mio esonero dalla religione a scuola ebbe l’effetto, che certi miei compagnucci, il Forletti appena insediato al piano di sotto a fare il capo coro, presero ad insultarmi come “fijademinjottadecrepitaebrea” in un unico fiato. Non ci soffrii troppo, perché uscì loro quella volta di troppo che giunse ai timpani della mitica De Feo, che in loro vece sistemò i genitori, convocati la sera guai ne fosse mancato uno. Quando zia è tornata, mi ha fatto: “Ma che brava la tua maestra, sei proprio fortunata!”. La De Feo, in effetti, era un fenomeno, sapeva ridurre a cagnolino tremolante-implorante bulli-fascisti e angeli sterminatori bigotti di qualunque età con quell’arma psicologica sua speciale, di occhiate lanciate e parole pronunciate in un certo modo, terrificante!

La cosa strana però, è che zia, oltre quel cenno alle suore e che peraltro mi fece che già ero grandicella, non mi ha mai dato altre spiegazioni sul suo agnosticismo e mio di riflesso. Nel senso che non si è mai proferita atea, socialista, comunista o altro. Strano perché se non andava in chiesa e il resto, a votare invece ci andava sempre, ma non mi ha mai detto chi o cosa: aveva per la politica la stessa distrazione che aveva per la religione. Non mancava mai di vedersi il telegiornale, ma si asteneva dal commentare, salvo i monosillabi lamenti sugli aumenti delle bollette o le tasse o i fatti di cronaca. Non che la politica appassioni me, ma non per questo non ho le mie idee e io poi le dicevo sempre cosa votavo come la pensavo su questo e quello e quell’altro ancora. E lei mi ascoltava volentieri, ma appunto, senza mai dire apertamente la sua, come se questo spettasse a me e gli altri, visto che lei appartiene ancora alla casta degli intoccabili. Lei si concedeva o si riservava di parlare solo del più e del meno, quotidiano banale, come del cucinare, del prezzo delle verdure stagionali, del tempo, delle trasmissioni in tv, dell’albergo di Fiuggi e massimo-massimo faceva dei piccoli pettegolezzi con le amiche e la parrucchiera. Esattamente come ci si aspetta da un’orfana di guerra d’un povero bottegaio di provincia senza grande istruzione. Ma proprio in questo quadro, la sua tacita rivendicazione di non appartenenza alla cattolicità generale c’entrava come cavoli a merenda.

Quaderno 3

La vita di zia si divideva in tre fette: quella vissuta a Frosinone fino ai diciott’anni, quella vissuta a Roma fino alla morte di mamma e quella vissuta con me – l’unica che mi dava a credere avesse vissuta e che spuntava sulle altre due come la punta dell’iceberg sul sommerso, di cui mi ha lasciato intravvedere quasi solo i cinque anni passati ai Parioli. Lei viveva tenacemente aggrappata sopra lo specchio d’acqua, quasi fosse nata dopo la morte di mamma e cresciuta insieme a me. Come se così facendo le nostre vite non si sarebbero inceppate, mandate avanti da un ingegno che avrebbe funzionato sempre a costo di non guardarsi indietro. Una specie di pessimismo coraggioso di cui una volta in biblioteca lessi in un libro di Nietzsche, solo che non era pessimismo, ma un coraggioso persistere nell’essere vivi, perché per ciò si è nati senza doversene dare ragione, senza doverne ringraziare nessuno e senza averne male a nessuno per gli accidenti, tirando avanti. Per cui viveva in forza della sua casalinghità vitale, concentrata sulla sua piccola vita, tendendosela stretta. Come magari fanno coloro che hanno sofferto molto. Ma forse era anche che si preoccupava per me, negli ultimi anni forse anche più che nei primi e ovviamente senza che me lo desse a vedere. Per dire com’era zia senza dimenarmi, in fondo basta la scena madre, l’episodio-chiave della domanda delle domande. Gliel’ho fatta a undici anni, prendendo coraggio una sera girando il cucchiaio nella minestra, assolutamente conscia che infrangessi il tabù: “Ma io ce l’ho un papà?”. Perché chi poteva essere mio padre è la cosa con cui mi sono tormentata più nella vita, prima e dopo che glielo chiesi a zia e nonostante la sua risposta fosse esauriente, specie per il tono, né dolce né aspro, realistico senza scampo. Me la ricordo parola per parola: “No, piccola, tu non hai un papà, perché la tua mamma non ha mai detto a nessuno chi è. E se lui mai ha saputo che è tuo papà, beh dimmi tu, è un babbo uno che non è mai venuto a trovarti? Tu non hai un babbo e non hai più la mamma. Ma hai me zia. Di questo non hai da vergognarti e neanche da sentirti sola. È stupido sentirsi soli con tutti che siamo sulla terra.”

Della mia stupidità sono arrivata a vergognarmi, ma mai di zia, della mia deficitaria identità anagrafica o di non andare a religione. E in effetti, non mi sono mai sentita sola, neanche da quando zia è morta. Forse anche perché ho sempre letto. Quello che chiamano letteratura per me è un po’ quello che dicono “socialmente utile”, nel senso che a leggere si può conoscere tanta di quella gente, che di quella reale se non la frequenti non senti la mancanza. Che poi su mio padre mi fossi fatta mille film, non credo sia anormale. L’ipotesi più probabile è che sia stato uno sposato con figli, che anche dopo la legge sul divorzio abbia preferito tenersi la moglie come moglie e la mamma come amante. E che mamma allora abbia deciso di concedersi un bambino alla faccia di tutti quanti. Comunque da allora a zia non ho più fatto domande né sul mio genitore né sul passato suo e di mamma. Mi sono limitata a raccogliere le briciole che di tanto in tanto lasciava cadere. Tipo una volta due anni fa, quando le ho ritirato un paio di scarpe dal calzolaio e lei le ha tirate fuori dalla busta e ha preso ad annusarla. Quando si è accorta che la guardavo perplessa, mi ha detto: “È la colla, mi fa ricordare di nonno che era ciabattaio, sai.” No che non lo sapevo! Ma figurarsi se insistevo dacché le avevo visto le lacrime agli occhi. Perché è dalla sera della scena madre di cui sopra, che avevo capito, che lei mi chiedeva di darle una mano, questa mano, di non insistere a farle domande. L’avevo dedotto allora dalla sua voce, un’ombra di strazio, il suo di strazio per la morte di mia madre. Più di non avere una madre, un padre, dei nonni, zii e cugini, da quel giorno iniziai a rimpiangere solo di non avere dei fratelli. Perché zia in qualche modo mi aveva fatto comprendere, che era stato l’affetto per la sorella minore che le aveva permesso di tirare avanti dalle suore dopo la morte dei genitori e del fratellino e dopo la morte del marito, e che era per via dell’affetto che aveva per me che aveva tirato avanti dopo la morte di mamma. Una volta me lo disse: “Io e tua mamma non siamo mai state felice come dopo che sei nata.” Che altra spiegazione potevo volere andare a cercare per quello sfizio di mia madre di mettermi al mondo alla faccia di quel mio padre e delle malelingue-benpensanti, tipo i bravi Forletti del piano di sotto. Dei miei primi due anni di vita poi so più di quanto riesco a ricordare dell’intera mia vita insieme. Perché buozziani a parte, zia di questi due anni mi ha raccontato tanto da averne stampato in mente la cronaca quasi secondo per secondo e che mi si completa nelle quasi duecento foto che mi hanno scattato in braccio a loro due a turno, più qualcuna dove siamo tutte e tre insieme che hanno chiesto di scattare a dei passanti. Svuotando l’armadio di zia, ho trovato anche lo scatolone con i mei vestitini, “roba buona”, tutta come nuova, fresca lavata, stirata e profumata di lavanda, pronta ad essere indossata da un’altra bimba, forse quella che sperava avessi. L’ho regalato a uno di quei negozi dove fanno scambi di vestiti per bambini a Monteverde.

Divago. Quello che volevo dire, è che Dio, dei, maghi, angeli, spiriti, vite dopo la morte, paradisi o inferni, miracoli, magie, incantesimi, superstizione, astrologia e tutto questo, mi sono in-familiari. Non è neanche questione che ci creda o meno, mi sono geneticamente estranei. E tanto più temo, che coi gratta e vinci mi siano fuoruscite le rotelle. Della vendita dei quadri posso eventualmente persuadermi che uno che di arte capisce meno di me ci abbia voluto buttare dei soldi. Ma sulla coincidenza della cifra dell’assegno, di quegli esatti stessi 480 euro della vincita buttata nella spazzatura con gli avanzi di pesce a marzo, posso sorvolarci? E soprattutto con i gratta e vinci come la metto? Se per quindici volte o giù di lì vinco con quelli di cui altri si sono disfatti convinti che non fossero nulla, debbo pensare di essere incappata in una eccezionalissima ma al limite non impossibile concatena di combinazioni del caso o debbo prendere in considerazione che si tratti di un fatto paranormale? E dunque andare a farmi visitare da uno specialista, o meglio, a farmi rinchiudere. Perché se non concepisco il paranormale e il metafisico, per forza di malattia mentale deve trattarsi. E come faccio? Vado alla Asl e dico: “C’è che vinco con i gratta e vinci già grattati che trovo nelle pattumiere.” Come minimo finisco in manicomio impasticcata fino alla morte! E tanto più che un po’ depressa magari sono. Ma vorrei vedere chi non lo fosse al posto mio, con la sfiga degli ultimi anni e zia morta così all’improvviso. Ma la sfiga poi, può portare a un’allucinazione, paranoia che so io, come quella dei gratta e vinci? Che poi allucinati neanche tanto erano, a meno che non mi sia inventato anche i soldi incassati e che sono certa fossero reali, perché la borsa a zia con quei soldi poi l’ho comprata e che peraltro, “non dovevi, non dovevi!”, le ha fatto piacere un casino. E come la ragazza su all’INPS e il tabaccaio a Porta San Paolo non hanno battuto ciglio a darmi i soldi, non ha battuto ciglia neanche la commessa a prenderli quando ho pagata la borsa. Posso avere fantasticato tutto questo? Proprio io, che non ho mai avuto fantasia e ho menato la più insulsa delle vite, tanto che andare a vivere in campagna mi ha messo una strizza quasi si trattasse di emigrare su Marte?

E per la mia storia poi, è giusto parlare di iella? Essere cresciuta in una famiglia ridotta all’osso mentre il trend è quello verso le stra-allargate forse non è stato il massimo, ma rispetto alle tante persone al mondo che subiscono violenze, torture, guerre, ingiustizie, terremoti, tsunami, fame e freddo, siccità e la violenza della pazzia d’altri, è lecito parlare di sfiga? Seppure orfana, zia c’è sempre stata, ho sempre avuto una casa, ne possiedo anzi una pagata quasi tutta con il mio lavoro e questa qui affittata, a parte che è un tantino fuori mano, non è mica brutta. Non so cosa sia la fame e salvo le prepotenze che collezionano tutti non ho subito violenze, a meno di non considerare tale l’assenza del mio generatore, caso remoto fosse venuto a sapere della mia esistenza. Fare la parte della povera abbandonata all’età che mi ritrovo, mi sembra questa sì roba da psicologo, perché rientra nella categoria del sentirsi soli tra i 5miliardi e passa che siamo e il che come mi ha insegnato zia, è da cretini. O vogliamo parlare della gente che ha perso il lavoro e non lo ritrova a meno che sia merdoso e malpagato? Ne è pieno il mondo e non è certo questione di sfortuna, ma solo di sfruttatori e politici che gli vanno dietro e viceversa. E le coppie scoppiate poi, è questione di sfiga? E alla fine, la fortuna è un fenomeno del reale o del soggettivo? E se il caso rientra nelle categorie del reale, quale quantità di caso è lecitamente ammessa prima che si sconfini nel paranormale? E poi ancora: queste mie vincite davvero sono sta gran fortuna? E vendere tre quadrucci amatoriali, è questione di puro culo? Forse è solo questione dell’avvicendamento puramente casuale della cifra dei gratta e vinci e della vendita dei quadri.

Ma rimane il problema dei gratta e vinci. Per i quali, a meno che non me li dia per possibili un Nobel di statistica, non c’è che la spiegazione psichiatrica. E con il che sono tornata a bomba.

Ma ora che ci penso a quanto vado scribacchiando mi viene di far caso a quest’altro: da quando sono venuta qui, il manuale e il libro di storia dell’arte a parte, non ho più letto niente e non ne ho neanche sentito la mancanza. Il che è strano perché prima, se la sera non leggevo perlomeno un’ora non mi addormentavo. Infatti, nel piano che avevo concepito per il giorno dello sbarco, ci avevo messo anche di passare alla libreria alla stazione individuata su internet per comprarmi un libro, sempre per la borsa troppo piena. Quella dove poi sono andata a comprare il libro di storia dell’arte, che già sapevo dove si trova, ma dove il primo giorno non sono passata affatto. La prima sera che poi mi sono addormentata nonostante non avessi un libro e neanche ci ho pensato di non averlo. Peraltro la casa l’avevo dato per buona anche perché essendo il paese ben collegato con la città, erano facilmente raggiungibili le biblioteche. Perché il problema di cosa avrei fatto qui non solo la sera ma tutto il giorno, me lo ero posto eccome. Soprattutto in vista dell’inverno, che l’idea di mettermi a coltivare cavoli, patate e pomodori non era proprio l’ergoterapia più geniale. Ma poi è subentrata la pittura, se cosi la vogliamo chiamare.

In sostanza se non quello della solitudine, il problema della noia c’era. Ma non mi sono mai annoiata qui. E non solo. Se non fosse per i 480 euro dell’assegno, sì certo, a furia di balle mi sono infilata in questa storia dei quadri, ma alla fine, se anche nella tristezza per zia e il resto, tra sfacchinare, fare avanti e indietro con la bici, camminare nel bosco, stare davanti al camino e incaponirmi sulle tele, non mi sono sentita più infelice che a Roma. E se andare a fare il trasloco mi mette soggezione, anche questo magari è comprensibile, perché alla fine si tratta pur sempre di lasciare per sempre quella casa, che è la mia natale e l’unica cosa che rimane della mia famiglia della quale, una volta consegnata alla Corti, rimango solo io a sapere che è esistita. E allora, non è forse strano, che qui, tutto sommato, sono stata non male?

Ieri, quando ho tirato su la serranda del salotto, fuori c’era lo scoiattolo che saltava tra i rami e ne rimasi affascinata come mai. Non so per quanto tempo l’ho inseguito con lo sguardo. Percorreva sempre di novo i rami e spiccava salti, su, avanti e daccapo, instancabile, come se i suoi scatti non si producessero in forza del suo corpicino, ma fosse telecomandato a distanza. E il fascino stava proprio in questo, che invece dalla stessa spazzoletta originassero le corse e gli svolazzi. Poi si è allontanato verso il fiume. Mi sono infilata scarpe e giacca al volo e mi sono precipitata fuori nella speranza di poterlo intercettare ancora. Ma niente, sono arrivata al fiume senza vederlo più. Già che c’ero ho deciso per una camminata mattutina e mi sono inoltrata nel parco. Giunta laddove il fiume fa una piccola cascatella dove di solito faccio marcia indietro, mi sono cercata un sasso e mi sono seduta a guardare scorrere l’acqua. E poi, invece di tornare indietro, mi sono avventurata oltre ancora. Man mano le due rive si restringevano a pendii fino a costringerlo in una strettoia tra due pareti rocciose che non lasciavano modo di fiancheggiarlo. L’acqua anche lì non scorreva violenta e non sembrava neanche profonda tra i macigni sparpagliati. Ho varcato la chiusa calcolando ogni passo, non ho dovuto arrischiarmi a fare neanche un salto. Il fendente riallargava subito e lì dietro il sentiero rinasceva a inerpicarsi tra il bosco scosceso e l’ho seguito. Presto dovevo aiutarmi a tirarmi su aggrappandomi ai tronchi, ma alla fine di quell’arrampicata sono approdata sulla spaziosissima terrazza di una cava abbandonata irraggiata dal sole della mattina. Mi sono seduta sul primo masso a prenderlo in faccia e riprendermi dalla scalata e poi mi sono sfilata la giacca, mi sono sdraiata e me la sono ficcata sotto la nuca. Mi sarei appisolata non fosse stato per il pensiero del ritorno e per cui mi rimisi presto in piedi per vedere se ci fosse una via d’uscita alternativa alla ridiscesa ripida per il bosco. Ho seguito la parete conca ritagliata nella montagna e in effetti la terrazza si andava stringendo, sbucando su una carreggiata che dopo un tratto nel bosco scendeva fino a un grande vigneto. Attraversando questo, in basso vidi spuntare i tetti delle prime case di quello che doveva essere il borgo di collina che si vede dalle finestre della camera da letto. Da sopra sembrava abbandonato, ma arrivandoci e attraversando ho scoperto che c’è un piccolo alimentari e sulla piazzetta della chiesa un bar, entrambi aperti.

Entrai al bar, ordinai un cappuccino e cornetto e mandai giù entrambi nell’imbarazzante silenzio del manipolo di vecchietti seduti alle mie spalle che me li perforarono con gli sguardi. E brava, che mi sono presa quella giacca che mi copre il culo! Non volava parola, faccio fatica a ricordarmi un posto dove mi sono sentita più ostentatamente mal sopportata, dovevo avere interrotto una discussione riservatissima che non vedevano l’ora di riprendere. Il barista che aveva continuato a lucidare lo stesso bicchiere, non appena avevo riposato la tazza sul piattino all’ultimo sorso si spostò verso la cassa e da questa, le cascate di festoni di gratta e vinci appesi tutt’attorno mi si sono buttati addosso. Ho raccolto il resto e lo scontrino e mi sono precipitata fuori, non so nemmeno se ho salutato. Ho frenato solo dopo l’ultima casa per accendermi la sigaretta che mi ci voleva, e quindi ho inchiodato di colpo. Perché chinando il capo sull’accendino ho centrato il cartoncino che stavo andando a calpestare. L’impulso fu quello di mettermi a correre, ma poi mi sono abbassato e l’ho raccolto: un Quadrifoglio, con tre quadrifogli da 20 euro! Mi è caduta la cicca, che mi sono sbrigata a far finta di raccattare per rimettere il cartoncino esattamente laddove l’avevo trovato. Poi mi sono fatta i tre chilometri giù per la provinciale fino a casa a passo spedito.

Dove non ho fatto in tempo a togliermi le scarpe all’ingresso che il cellulare si è messo a squillare sulla mensola del camino.

Signora De Feo, buongiorno! Sono Francesca Martelli della Amazing Art Gallery, si ricorda?”

Ah, sì, buongiorno … Qualche problema con i quadri, sono arrivati sani e salvi?”

Sì, certo. Lei piuttosto ha ricevuto l’assegno?”

Sì, è arrivato … ”.

Bene. Senta, volevo chiederle se ha altri quadri che vorrebbe vendere? Il cliente è rimasto entusiasta e continuiamo a registrare notevole interesse, voglio dire visualizzazioni sul sito, anche con il bollino già venduto.”

No, guardi, signora… è un malinteso… ecco, ora le spiego tutto… Vede, io non mi chiamo De Feo e l’assegno glielo rimanderò oggi stesso.”

Oh, il suo nome d’arte! Non c’è problema, emettiamo uno nuovo assegno a nome suo.”

Ma no! È tutt’un malinteso le dico, io non sono una pittrice.”

Ah, lei ha fatto da tramite all’artista?”

Ma cosa va a pensare! Dipinto li ho dipinti io, ma sono i primi in assoluto che faccio. Ho cominciato a trafficare con i pennelli neanche due mesi fa, così per svago e … non avrei dovuto caricare quelle foto e nemmeno mandare i quadri … l’ho fatto … è che mi è sembrato non facessi niente di male, che sicuro non li avrebbe mai comprati nessuno. E tanto meno che mi avreste mandato i soldi, ecco. Dovete scusarmi, ho pensato male e non voglio stare ad ingannarvi io, non so se mi sono spiegata.”

Non capisco. Quale inganno? Lei quei quadri li ha dipinti, il cliente ce li ha pagati e quindi la percentuale le spetta. Non possiamo trattenerla, sarebbe disonesto da parte nostra. Provvederò subito a mandarle un altro assegno a nome suo.”

Ma quei quadri non valgono niente, lo vuole capire! Sono solo strisce di colori, le farebbe meglio chiunque. Io sono ragioniera, di arte non capisco assolutamente nulla!” Ero vicino alla crisi isterica.

Ok, senta signora, lei ha da fare o possiamo parlare un attimo?”

Non voglio farle perdere tempo.”

Di questo non si deve preoccupare. Confesso che tutto questo per me è abbastanza straordinario. Anzitutto: che lei non si sia fidata è più che giusto, il settore delle vendite d’arte on line è un vero far west. Ma noi una qualche selezione d’ingresso la facciamo. Prima di pubblicare le foto dei quadri, le visioniamo e eliminiamo quelli violenti e pornografici. La chiami censura, ma le assicuro che ce ne arrivano tanti. E poi verifichiamo anche l’integrità delle opere se vengono comprate. Ragione per la quale ce li facciamo spedire in sede e le inoltriamo all’acquirente solo se non sono rovinati e se le misure e la tecnica corrispondono al vero. Lei per esempio aveva dichiarato olio, e olio era. Ma nel 70 per cento dei casi non è così. Di per sé, se sia ad olio, acrilico, matita o pennarelli, per il valore dell’opera non fa nessuna differenza. Il problema è solo che coloro che comprano, di arte non sempre si intendono e credono che l’olio sia una garanzia e per cuipuò trarli in inganno. Cioè che vanno a spendere di più, non perché loro piace proprio quel quadro, ma per poter dire, mi sono comprato un olio, mi segue?

Come no”.

Gli artisti questo lo sanno e c’è chi fa il furbo sull’ignoranza altrui. Ma se poi il cliente un giorno scopre che l’olio che ha comprato, un olio non è, si rivolge a noi. Per questo controlliamo. E con questi accorgimenti che siamo riusciti a farci una clientela di fiducia e che poi è quella che manda avanti qualunque impresa.”

Si, lo so.”

Bene, continuo. Un altro criterio nostro è di vendere online solo opere pittoriche e grafiche, e solo di dimensioni ridotte, diciamo pure da salotto va. Questo perché sul mercato dell’arte, i prezzi raggiungono cifre esorbitanti non solo in base alla notorietà dell’artista, ma anche al principio, che a prescindere dal tempo di lavoro o dalla tecnica, più un’opera è grande, più costa. Noi non mettiamo in discussione questi criteri. Vendiamo quadri grandi, sculture e istallazioni anche noi, ma soltanto nella nostra galleria fisica tra virgolette, qui a Bologna. In rete, certo, abbiamo puntato sulla quantità piuttosto che la qualità. Abbiamo dovuto farlo per la crisi, per non chiudere la galleria vera e propria. E le confesso, che se non fosse per i ritratti, i paesaggi e le nature morte tradizionali, avremmo chiuso da tempo. Perché a comprare arte tra virgolette di questi tempi, ci sono solo i miliardari che investono sul giro internazionale dei più quotati. Ma il settore tradizionale invece resiste, quello della gente comune tra virgolette che vuole un vaso con fiori e un lago con il sole che tramonta sulla parete del salotto, ecco. Ma non per questo in rete vendiamo solo robetta, sa. Il formato ridotto fa anche, che anche degli artisti con un po’ di nome vendano sulla nostra piattaforma, per un discorso di accessibilità per il pubblico meno esclusivo, capisce? Insomma, non mi prenda per arrogante, ma volevo dirle che di arte un po’ mi intendo.”

Ma si figuri se volevo metterlo in dubbio!”

Aspetti, non ho finito: i suoi quadri l’altro giorno li ho controllati io e non sono come lei dice solo strisce di colori che potrebbe fare chiunque. Anzitutto, per essere una principiante, la sua materia è niente male, densa e pure delicata. E poi i colori dicono una grande sensibilità, particolare. Peraltro non sono solo io a dirlo, lo dicono anche le statistiche del sito. E io poi soprattutto, l’ho chiamata nel mio di interesse, perché il cliente questa mattina mi ha richiamato, vorrebbe comprarne degli altri suoi per l’ufficio. E lui non è uno che di arte non capisce proprio niente. Lei insomma, mi sembra, non si renda conto che ha talento.”

No, no, guardi signora, lei si sbaglia! È molto gentile veramente, ma … e non sto a fare complimenti.”

Questo l’ho capito. Ma non mi arrendo. Mi dica: ha altri quadri?”

Mi sono girata alla parete a guardare i quattro appesi. “Sì, qualcun’altro.”

Mi invierebbe le foto? Ci penso io al resto, gliele aggiusto io con Photoshop e le carico io sul sito, decida lei con quale nome. Anzi, ne scelga pure un altro ancora, così facciamo la prova del nove e vediamo chi ha ragione: io che dico che i suoi quadri valgono o lei che pensa che si sia trattato di un cieco colpo di fortuna.”

Assestato quel colpo, mi sono sbrigata a dirle che dovevo andare, che ci avrei pensato e mi sono accasciata sul divano. Più che girarmi la testa era il salotto a girarmi attorno. Ce n’é voluto per raccogliere le forze, trascinarmi al lavello della cucina a mandare giù due bicchieri d’acqua e convincermi che il “colpo di fortuna” c’entrasse niente, che fosse solo per la camminata a digiuno, la pressione bassa e la disidratazione. Mi sono fatta un caffè, ci ho messo due cucchiaini di zucchero e l’ho bevuto. E poi mi sono seduta al cavalletto a fumarmi finalmente una sigaretta e nel mentre ho guardando il quadro iniziato. E più lo guardavo, meno resistevo e per cui ho spremuto i colori sulla tavolozza e ho cominciato a lavorarci. E mentre spennellavo mi sono ricordata l’episodio in Tom Sawyer, della birichinata della verniciatura della staccionata della zia Molly, ma anche di quello mi scordai presto.

Fino a quando non ha suonato il campanello. Dapprima non volli aprire, ma insistettero come se sapessero che ci fossi. Fuori questa volta ce n’erano due di ometti oltre la sessantina, quello a sinistra a dirmi qualcosa in vernacolo stretto. Quando capì che non capivo, l’altro ha tradotto: erano del comitato per la festa della processione della madonna del santuario quello là del borgo , se volevo comprare un biglietto della tombola, “ci sono bei premi, anche lo scimattefone”. L’ho preso per non discutere: numero 148! Poi però invece di andarsene, hanno attaccato con l’altra: “Ci sei residente qui?”, mi ha fatto ancora quello a sinistra e seppure quello a destra gli aveva fatto cenno di smontare.

No”, gli ho fatto, “perché?”

No, è che volevamo chiedere per gli africani.”

Cioè?”

Eh, che non lo sai? Mo’ li vogliono mettere pure qua.”

I profughi, dite?”

Ma che pofughi pofughi, tutta gentaglia ladri è!” Si è beccato la gomitata di quello a destra che ha provato a rimediare: “No, niente, ci vediamo alla festa eh.”

No, no, un attimo, cosa volevate a proposito dei profughi?”

E che ce raccojamo ‘e fime, che nun ce li vogliamo no! Fimmi pu’ te, che italiana almeno sciarai!” Non ce la faceva proprio a non fiatare.

Italiana? Sì. Ma spiacente, anche migrante. Sono arrivata da poco dalla città e sono stati tutti gentilissimi con me. Non vorrei che poi mi mandate via anche a me.”

E sci manche’bbe, mica sci’a negra!” Non ci volevo credere che l’avesse detto!

Nera no, ma sa, sono un po’ ebrea. E capisce, queste cose contro i profughi mi mettono l’ansia, perché so come vanno a finire!”. Gli ho sbattuto la porta in faccia, tremava negli stipiti.

Mai fatto una cosa del genere in vita mia. Tornando in salotto già c’era penombra ed erano neanche le quattro e mezza. Senza una lampada da lavoro, dovevo inventarmi un’ergoterapia alternativa. Ho pulito i pennelli, la tavolozza e mi sono fatta un panino. Tra il gratta e vinci della mattina, la telefonata della signora e la visitina dei due, la giornata si era messa a fare sempre più vortice, come se ce la mettesse tutta a farmi sbroccare una volta per tutte. Niente uncinetto e lane e guarda caso, neanche un libro. Ho provato con la tv, sono inciampata nella telenovela di zia e ho rispento all’istante. Poi sono andata a caricare una lavatrice, ho raccolto la cenere dal camino, l’ho sparsa intorno alle rose, ho tirato su una razione di ciocchi e ho acceso. Ma non riuscivo a calmarmi e stare ferma. I pavimenti li avevo lavati due giorni prima non mi rimaneva che mangiarmi le unghie. Poi mi sono ricordata di quei siti di cucina dove metti quello che hai in dispensa, dai l’opzione dolce o salato e ti sparano una ricetta: torta di mele con farina di noci e l’olio al posto del burro! E proviamo, mi sono detta. Ho sgusciato, sbucciato, pestato, sbattuto, infornato, rimesso a posto il casino e sono andata a farmi la doccia il tempo che cuocesse. Una volta tirata fuori la teglia ho svuotato la lavatrice e messo ad asciugare i panni sullo stenditoio istallato nella cameretta. Ma anche ciò fatto, non erano ancora le sette e io agitata come prima. Ho capito che dovevo parlare con qualcuno, erano mesi che non mi succedeva. Sono andata a infilarmi uno dei due golfini nuovi e poi le scarpe e la giacca, ho messo la torta su un piatto, l’ho avvolta in un canovaccio pulito ho preso la bottiglia di vino che avevo comprato alla bancarella dei produttori locali giù al mercato e sono uscita.

Ida e Luigi avevano già cenato: “Ci siamo abituati in Germania”. Ho accettato di buon grado il loro invito ad entrare e assaggiare la torta con loro: “Vino però beviamo il mio, cosi mi dici che ne pensi”, mi ha fatto Luigi. E poi, dopo i complimenti reciproci, loro per la torta loro e io per il vino, ha tastato lui il terreno: “Sono venuti anche da te oggi per la tombola, eh?”

O per firmare contro i profughi, piuttosto”, gli ho fatto io.

Si è messo a ridere: “Vedo che ci capiamo! Sai, volevo venire io da te, ma Ida non mi ha lasciato, che poteva sembrare che mi facessi gli affari tuoi. Perché quando sono venuti qua, mi hanno chiesto se conoscevo l’ebrea che abitavo di fronte e … insomma, era per rassicurarti, che non si sa, magari ti sei spaventata.”

Sì”, ha intercalato Ida, “per rassicurarti. Ma io gli ho detto, che poteva sembrare … che volevamo sapere.“

Se è vero?”, ho chiesto. “No, se è per questo, non sono ebrea. Quando ero piccola mi ci sfottevano, ma questo è un’altra storia. Che dite, faranno una petizione anche per me adesso?”, l’ho detto come battuta, ma Ida non c’è arrivata:

Oh, cara! Ma questo non lo permettiamo! Oh, ma allora ti sei spaventata davvero, avevi ragione Luì! E meno male che è venuta lei!”

Ma no, che non mi sono spaventata, Ida. Mi sono incazzata, è diverso. Ma voi, questi li conoscete?”

Li conosciamo, li conosciamo”, ha fatto Luigi. E poi l’ha presa più alla larga:

Vedi, qui siamo di due specie, quelli che sono andati a fare gli emigrati e quelli no. Noi siamo stati in Germania per più di vent’anni, gli altri più in Belgio, nelle mine, ma io nelle mine non ci volevo andare e per cui sono andata nella Ruhr, a Duisburg, prima in fonderia e poi in fabbrica. E sai, quando ci sei passato, non dico tutti eh, figurati, c’é chi non impara mai, ma sui migranti non è che poi la pensi come quelli della Lega, che poi noi per loro, siamo africani pure noi. Io volevo venirti a bussare per dirti, che non hai da temere niente da quelli e che noi con loro non abbiamo niente a che fare. Qui in frazione non vediamo l’ora che vengono un po’ di profughi e che rimangono, che noi sappiamo che hanno studiato più di noi e perché i giovani vanno via peggio di noi negli anni Cinquanta. Di giovani e gente in gamba ce n’è sempre meno, anche se qualcuno si incaponisce a restare, come mio nipote. Che poi con i giovani dell’Arci in paese si stanno mobilitando per la contro-raccolta firme per l’accoglienza”.

E così via, a raccontarmi degli anni in Germania, della gente del posto e di questo e di quello. Mi sono congedata alle dieci e quando sono andata a dormire ero tranquilla, serena, contenta.

Solo sta mattina ho ripensato alla chiamata della gallerista e ci ho pensato in lungo e largo. E infine ho pensato, che in fondo la storia dei quadri era diversa dai gratta e vinci. E che con quelli, per quanto mi ci volevo arrovellare, non ne sarei venuta a capo. Anche perché, ma che cosa potevano rappresentarmi? Un toccasana se mi fossi venuta a trovare nella situazione peggiore, a dormire sul marciapiede e fare la fila per i pasti alla Caritas? Se proprio toccasana volevano essere, ma perché non me ne era capitato uno che ci vincevo 10 milioni, un bel Turista per sempre, che mi mettevo l’anima in pace con il lavoro, la pensione, le buon’uscite e mi trasferivo dritto nei Caraibi! Pure volendo, ma come avrei fatto a camparci a furia di botte di venti, trenta, cinquanta o cento euro alla volta? Raccoglievo quel tanto al giorno che mi permetteva di pagare affitto, bollette e magari anche la super-buonuscita a quelli di casa mia? Mi sarei dovuto studiare un piano da servizi segreti per intascarli in posti sempre diversi per non dare nell’occhio ai tabaccai, magari spostandomi per tutto il paese, perché altrimenti invece di finire in manicomio sarei finita in galera! E poi la signora era stata davvero gentile. E perché non farla sta prova del nove, ma che avevo da perderci? I quadri in fondo mi piace farli davvero e a continuare, magari a venderne altri tre, mi ci compravo colori, tele e pennelli per tutto l’inverno senza sentirmi in colpa per la spesa extra.

Insomma, alle dieci ho staccato altre due tele dal muro, le ho fotografate e le ho girate al numero del cellulare della signora col messaggio che poteva metterle in vendita sempre come De Feo e mandarmi l’assegno a nome mio. Ha risposto subito: “Provvedo, grazie!” E poi mi sono fatto anche un bel regalo: ho ordinato una lampada da terra con tre fari orientabili sul sito dell’Ikea, pagamento alla consegna che mi arriva domani pomeriggio. E già che c’ero, ho chiamato anche il mio bottegaio, che mi ha portato un’altra mezza dozzina di tele, i tubetti che stavo finendo, quattro pennelli nuovi e un altro flacone del diluente.

A questo punto la voglio prender proprio come una vacanza, termine previsto metà dicembre, poi o smonto o vado a Roma e faccio quel che debbo fare.

A Roma poi sono andata, ho fatto il trasloco, le volture alla Corti, ho preso la sua buon’uscita e le ho consegnato le chiavi di casa di zia, che sicuro il giorno dopo avrà cambiato la serratura.

Ho ritrovato i quaderni sul fondo della cesta della cartastraccia, perché sta sera faceva un po’ freschetto e per non accendere già il riscaldamento ho fatto il fuoco. Me ne ero completamente dimenticata e ho riletto. È passato un anno e ho ripensato a com’era, come stavo. E invece di bruciarli, ho deciso di scriverci ancora. Ma non per i gratta e vinci. Con loro funziona ancora, ogni tanto ne raccolgo uno per sincerarmi. Mi ci diverto, non mi mettono più l’angoscia. Come mi mette allegria ogni quadro che vendo e mica perché sono andata nel pallone a credermi ‘sta gran pittrice. No, perché mi continua a piacere dipingerli e se non ne vendessi, ne avrei casa piena fino al soffitto. Adesso però faccio anche delle strisce curve, dei rettangoli e altre forme. La Francesca di Bologna mi ha detto di chiamarli “composizioni” se proprio non mi vogliono venire dei titoli.

Ho smesso di torturarmi sul paranormale e quant’altro. O forse è, che ho potuto concedermi di non torturarmici più. Perché nel frattempo ho trovato lavoro. E tra lavorare, dipingere e leggere, dove lo trovo il tempo. È successo che ero appena andata a Roma e Gianni, il traslocatore peraltro gentilissimo, mi aveva già portato su tutto. Mancavano due giorni alle feste, venerdì mattina, dovevo andare dalla Cinzia- immobiliare per pagarle l’affitto dei prossimi tre mesi. Uscendo da lei, ho preso un piatto dipinto e dei maron glacé per Ida e Luigi e poi sono andata alla bottega d’arte a comprare i tubetti di colore in esaurimento e un paio di tele piccole che riuscivo a portarmi appresso sul treno. Perché quando avevo chiamato per farmi recapitare il rifornimento, mi hanno detto che il servizio consegne era sospeso per il periodo natalizio.

Entrando ho capito perché: c’era la ressa! Alberto era solo con i clienti che a momenti facevano la fila sul marciapiede fuori. Più stavo ad aspettare il mio turno, più vidi che stava sull’orlo dell’esaurimento. Si barcamenava tra cassa, impacchettare regalini, scendere a prendere le cose in magazzino, dare consigli, ecc. Poi due clienti si sono pure messi a litigare a chi toccava prima per i pacchettini. Quando ho visto la faccia che fece quell’uomo, che avevo conosciuto come il più paziente del mondo, mi è scattato il riflesso incondizionato: ho posato la mia busta, gli sono andata vicino e gli ho fatto: “Permette, dia a me, con le confezioni sono una scheggia.” E lui, come un automa, mi ha mollato le due scatole di pastelli comprate dall’uno e la penna fighetta dall’altra e sono andata ad incartarli al tavolino con la carta regalo, nastri e resto. Liquidati i due litiganti, mi ha passato anche un cofanetto di acquarelli, sguardo bassotto che si è mangiato l’anatra invece di portarla al padrone ed è corso giù a prendere i cinque chili di creta chiesti da uno; e siccome il tempo che è sceso ne sono entrati altri tre ancora, quando è risalito gli ho detto, che gli potevo fare io i pacchetti e se si fidava pure la cassa, che ero capace. “Magari! Ma magari, signora, grazie, un angelo dal cielo!”

Ci siamo praticamente risvegliati alle otto, all’ultimo cliente che si è tirato dietro la porta. “Mamma mia, mi scusi! Grazie, signora, grazie! Mamma, le ho fatto perdere tutto il pomeriggio, ma come faccio a sdebitarmi! E che brava, pure con la carta di credito e il bancomat. Io ancora mi ci impappino. Lei mi ha salvato la vita!” Eccetera, eccetera. Voleva pagarmi a tutti i costi e alla fine ho lasciato che mi regalasse le tele e quello che ero venuta a prendermi. E anche che mi offrisse l’aperitivo, ma solo quello, perché più tardi di tanto non volevo fare, anche se non pioveva e le luci della bici erano a posto, l’idea di risalire col buio non mi entusiasmava. Alla fine però, mi ha accompagnata a casa in macchina, perché tra raccontarmi tutto lui, del figlio che era il ragazzo che mi aveva sempre portato la roba, che improvvisamente avevano assunto a Milano e la ragazza sostituta che gli aveva dato buca tre giorni prima (un classico!), e raccontarli io, che ero di Roma, che avevo fatto la commessa, la frottola del cavalletto che avevo comprato per via della frottola detta ai vicini che dipingevo, ma che poi mi ci sono trovata e che riuscivo persino a vendere quelle strisce, si era fatto tardi. Poi in macchina, lui che non parlava più e a vederlo ai semafori che era preoccupatissimo, gli ho detto che se volevo gli potevo dare una mano anche l’indomani della vigilia, che mica avevo impegni. Alla fine ha accettato, ma solo se mi facevo pagare: “Ok”, gli ho fatto, “facciamo che mi dà un’altra mezza dozzina di tele, magari un po’ più grandi e che mi riaccompagna a casa.”

E così è andato, anche se poi alle tele ha aggiunto una serie completa di oli di marca costosissima, superfini, fantastici, ora che arrivo a concepire la differenza. E poi, il 28 mi ha chiamato e mi ha invitato a cena. “Non può rifiutare, perché l’invito è anche da parte di mia moglie e lei è meglio non offenderla. E ovviamente siamo felici se vuole portare qualcuno.” – “Se vengo da sola va bene uguale?”, gli ho fatto dopo che avevo fatto mente locale, che con l’armadio pieno della mia roba di città, riuscivo a vestirmi da uscita a cena. Mi hanno portato in un posto bellissimo, un vecchio mulino di un borgo vicino, con uno chef che l’aveva restaurato e adibito a ristorante e che prima aveva lavorato a Parigi e a Berlino, ma si era stufato. Non ho mai mangiato così bene in vita mia! Marta fa l’assistente ai ferri in sala operatoria all’ospedale, un lavoro che le piace e che non mollerebbe neanche dovesse andarci di mezzo la bottega di Alberto. Dicendomi questo, i due erano arrivati al sodo. Perché l’invito era anche per chiedermi se volevo andarci a lavorare fisso con Alberto, ora che il figlio sarebbe rimasto a Milano piuttosto di istruire ancora qualcuno che alla prima occasione lo avrebbe piantato in asso. Mi hanno offerto un contratto in regola, ma io ho esitato, perché l’idea di smettere di dipingere mi metteva quasi il panico. E niente, per Alberto andava bene anche il part-time, ci siamo accordati che avrei coperto le mattine dal mercoledì al venerdì 9-13:30 e il sabato tutto il giorno, così lui poteva fare le consegne e sabato quando c’erano più clienti, eravamo in due.

E così da gennaio lavoro. Alberto intanto mi ha insegnato tutto, sono espertissima di colori, tele, carte, colle, gessi, ecc. E mi fa provare ogni cosa, così che riesco a dare i consigli non per sentito dire. Se ripenso a come mi trascinavo tra quei negozi di vestiti a Roma, chi l’avrebbe mai pensato che mi sarei divertita così tanto a fare la commessa in una bottega d’arte! A febbraio ho preso una Panda con l’impianto a gas, usata e a rate, perché con il gelo al mattino, scendere in bici era diventato pericoloso. Le volte che faccio tardi, ci vado fin’ in città. E ci vado anche il martedì sera, perché adesso sono membro del circolo di lettura. Ci riuniamo alla famosa libreria vicino alla stazione, che ci fa leggere tutto gratis a patto che stilliamo le nostre piccole recensioni e sunti, delle quali la clientela si fida tantissimo. Siamo più o meno nove tra femmine e i due maschi: Filippo che studia letteratura latinoamericana e fa le sinossi in stile rap che gli chiedono anche dal giornale locale e il prof Turulli in pensione, persona coltissima, squisita. Ho trovato il mio prof Higgins, nel senso che rivede i miei di riepiloghi di letture che lui chiama “sinossi”. Ma tutto qua, perché sarò pure tardona, ma alla pensione me ne manca e oltretutto è uno che ha studiato e io ho già avuto il piacere. Abbiamo ripreso da poco dopo la pausa estiva e prima delle vacanze ho invitato tutti qui con compagni e figli a fare barbecue e festa in giardino. Sono venuti anche Ida e Luigi e Filippo ha fatto il DJ, siamo stati una meraviglia.

Ora non solo ho il giardino più bello del mondo ma persino l’orto. Debbo solo fare la raccolta dei pomodori, zucchine, carote, lamponi e tutto quanto mi piantano e curano i migranti del centro in paese: ho fatto l’abbonamento alla cooperativa che ha messo su Corrado, il nipote di Luigi, che è anche agronomo oltre che presidente del circolo. Quelli in attesa di permesso di soggiorno lo possono fare solo come volontari e per lo più si occupano del giardino comunale, della ciclabile e danno una mano anche su al parco. Ma a fare i giardini e gli orti fanno a gara, perché gli si dà una mancia come ci vuole. La cooperativa non è solo per tenerli occupati; Corrado ha messo su due corsi, uno di viticoltura e l’altro di olivicoltura. Un produttore di qui ha assunto tre dei ragazzi che hanno avuto il permesso e due sono andati in Provenza, mica a fare gli schiavi dei pomodori come da noi, no no, pagati benissimo e assunti anche per via dell’attestato di frequenza del corso di Corrado con tanto di timbro del comune. Il che fa sì, che spargendosi la voce, quest’anno si sono iscritti anche cinque tra ragazzi e ragazze del paese. Ho contribuito all’acquisto del loro camioncino, con un’offerta anonima di gratta e vinci raccolti e incassato a Bologna a Pasqua, quando sono andata a conoscere la signora Francesca e il signor Nino della galleria. E ho regalato loro anche lo “scmiattefone” della ditta, che ho vinto alla tombola del santuario della madonna, perché ovviamente è uscito il numero 148. L’ho letto sul giornale locale per caso e mi ha accompagnato Luigi a ritirarlo: “Per sicurezza”, ha insistito, “non vorrei che s’incazzano a vedere che l’hai vinto tu”.

E poi: ad agosto ho fatto due settimane di vacanze vere. E no, che non sono andata a Gallipoli dove andavo sempre con Aldo! Mi sono imbarcata con la macchina ad Ancona e ho traghettato a Split e da lì all’isola di Hvar, a fare un corso di acquarello in un ex-albergo degli ex-dirigenti comunisti che ai tempi ci andavano da ogni parte dietro la cortina di ferro: mi è piaciuto tantissimo! E poi cos’altro? A sì, ho trovato anche un accordo con i miei inquilini, hanno acconsentito al contratto regolare con preavviso di disdetta reciproco di sei mesi. Tanto ora che ho pagato il mutuo, tra l’affitto loro, lo stipendio di Alberto e i quadri che vendo, ma che fretta ho di tornare a vivere a Roma! E non solo: a febbraio, a meno che non mi rinnego per la fifa, faccio una mostra, alla galleria di Francesca e Nino. “Ci dispiace, febbraio non è un gran momento, probabilmente all’inaugurazione verrà poca gente, ma se vuoi possiamo metterti in calendario già anche per maggio dell’anno prossimo” (!).

Ora che ci penso, una cosa c’è che mi dispiace della mia vita nuova: non posso più ad andare al mercato in paese i giovedì mattina, ma mica si può avere tutto, no?

E sì, dei gratta e vinci mi sono fatta una ragione: non è affatto questione di magia, miracoli o culo. È semplicemente che la probabilità di trovane dei vincenti buttati via è altissima, perché la gente – tanta gente! – li gratta convinti di non poter vincere, perché è troppa convinta di dover vincere a tutti i costi. Questo è! E per cui nemmeno controlla se vince o meno, esattamente come quell’idiota della prima volta. È che il mondo è pieno di ciechi sul serio, e non solo come succede nel libro di Saramago, questo è la spiegazione! E pensare che c’è chi ha detto che con la cultura non si mangia. Non fosse per quel libro, io non mangerei da tempo, perché mi sarei impiccata per non averla saputa, la spiegazione!

Non so se scriverò ancora, ma ho deciso di tenermi i quaderni. E fosse mai che un giorno capitino in mano a qualcuno che li leggesse, aggiungo questo: Mi chiamo Fortunata e non è uno scherzo. Ed è vero tutto quello che ho scritto, perché non ho la fantasia di inventarmi niente. E per il mio eventuale lettore voglio scrivere anche che quando è morta mia zia, ho capito che anche senza di lei, senza figli e un compagno, sarei riuscita a vivere da sola senza sentirmici mai, perché per fortuna, mica tutti sono della specie di quelli della tombola. C’è tanta di questa gente che uno gli amici se li trova. E se un giorno dovessi rischiare di morire di freddo e di fame, ebbene allora camperò con i gratta e vinci o quello che avranno ideato ancora per spillare i soldi ai ciechi che non vedono l’ora di farseli spillare. Lo farò senza farmi il minimo problema, dovessi vivere sui treni e girare l’Italia fino all’ultimo giorno per incassarli senza dare nell’occhio. Potrebbe essere la volta che becco il Turista per sempre e mi trasferisco ai Caraibi. Dove come passatempo, se sarò diventata brava abbastanza, potrei organizzare dei corsi di acquarello anch’io. Oppure mi iscrivo al privato e con il prof Turulli come tutore, arrivo a prendermi la maturità uno di questi giorni. Ma per fare questo non ho bisogno dei gratta e vinci, posso farlo senza e ci sto anche pensando.

Di cognome poi faccio Stirpe, che è tipicamente ciociaro. Mia madre, oltre che temeraria a mettermi al mondo, a chiamarmi Fortunata è stata anche spiritosa. E se la nostra piccola stirpe di tre femmine sole non ha combinato niente di eccezionale, se non altro non abbiamo fatto del male a nessuno. Io sicuro sono stata molto fortunata ad avere avuto come madri queste due piccole donne che mi hanno cresciuta senza religione e superstizione. Si chiamavano Mariella e Antonietta Stirpe.

Greta Bruni

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