Editoriale

Gettate le armi, diamo vita al dialogo

Il prossimo 5 novembre i movimenti che a vario titolo e in varie forme si oppongono alla narrazione tossica del conflitto tra Russia e Ucraina, torneranno in piazza per far sentire la voce di chi chiede di superare la logica della guerra come unica soluzione e praticare tutte le forme possibili di dialogo al fine di raggiungere il solo vero obiettivo possibile in questa fase, il cessate il fuoco.

Sono passati tanti anni dalle grandi mobilitazioni di piazza che cercarono di opporsi a quello che tutti davano per inevitabile nell’ex Jugoslavia e in Iraq. Il 15 febbraio 2003 a Roma ci fu la manifestazione del milione di partecipanti. All’epoca in Italia si era formato un grande movimento pacifista e di solidarietà internazionale che alimentò e si alimentò al tempo stesso dei movimenti no global di Porto Alegre di Firenze e che fu (non a caso) schiacciato a Genova. Era un movimento che coniugava il pacifismo con la lotta contro la globalizzazione dell’ingiustizia. Senza i no global, il 15 febbraio non avrebbe avuto le dimensioni che ebbe.

Dopo Genova una convergenza così ampia e articolata non c’è più stata. Quel movimento si disperse velocemente non solo sotto i colpi della repressione brutale ma anche della visone miope e delle convenienze politiche di tanta parte della politica italiana di sinistra. In tutti questi anni di frammentazione e di dispersione di idee e persone ogni movimento, piccolo o grande che sia, ha sviluppato idee, competenze e azioni sul proprio terreno e molti hanno prodotto grandi passi avanti sia sul tema dei contenuti che del coinvolgimento di attori sociali. Oggi il movimento che si richiama alla pace come valore assoluto (faccio anche io fatica a chiamarlo “pacifista”, perché sembra quasi una vecchia parola di cui vergognarsi) è disperso in mille realtà, fa fatica a far sentire la propria voce.

Uno dei limiti maggiori del pacifismo attualmente sta nella comunicazione inadeguata. E’ estremamente difficile competere in modo efficace con i media mainstream in quella che è diventata una vera e propria battaglia dell’informazione che contribuisce in modo determinante alla formazione delle idee nella pubblica opinione. Un altro limite è quello della mancanza di una rappresentanza politica del movimento. Le rivendicazioni delle piazze non hanno sempre coinciso con quelle di chi doveva concretizzare le scelte politiche “per la pace”. Se le immagini delle bandiere arcobaleno nelle strade e sui balconi, ai tempi dell’invasione statunitense dell’Iraq, sono ormai lontane lo si deve in Italia anche a quella che Marescotti definiva in maniera colorita “sinistra con l’elmetto”. Purtroppo il cosiddetto centrosinistra, fin dagli anni Novanta, ha abbracciato politiche interventiste che nulla hanno a che vedere con la cultura pacifista propria della sinistra.

Un esempio evidente è la presa di posizione a favore dell’invio di armi all’Ucraina. Il ragionamento sembra logico e politicamente corretto: se è internazionalmente riconosciuto a un Paese il diritto di difesa da aggressioni esterne, essendo stata l’Ucraina invasa dalla Russia noi abbiamo il dovere di aiutarla inviando armi. La sinistra si adeguò a questo ragionamento con poche ancorché qualificate eccezioni. I pochi che osavano contrapporre timide obiezioni articolando ragionamenti diversi dalle semplicistiche interpretazioni del diritto internazionale finivano per essere apostrofati come filo putiniani.

Eppure un episodio del tutto sottaciuto dagli organi di informazioni aveva messo in evidenza quanto l’invio di armi fosse del tutto contrario agli interessi europei e tutt’altro che utile alla soluzione del problema. Lo scorso 28 febbraio, quattro giorni dopo l’invasione dell’Ucraina la decisione del Consiglio UE n° 2022/338 era stata preceduta da una Concept Note, una sorta di Relazione Illustrativa del Segretario Generale del 27 febbraio che elencava i rischi che sarebbero derivati dall’invio di armi sottolineando in particolare che:

  1. La fornitura di armi può rafforzare il ciclo della violenza e del conflitto;
  2. Le unità supportate possono commettere o essere accusate di violazioni del diritto umanitario internazionale;
  3. L’attrezzatura fornita può finire nelle mani sbagliate;
  4. La Federazione Russa può rispondere alla fornitura di armi in modo ostile agli interessi dell’UE (Fonte Milex 2022)

Ciò nonostante il Consiglio deliberò l’invio di armi. Ma davvero Kiev aveva un bisogno così impellente di aiuti militari? Proviamo a leggere i fatti. Il 24 febbraio Putin entra in Ucraina con l’intento, come dice Silvio Berlusconi e come concordano tutti gli analisti politici e militari, di arrivare velocemente a Kiev, deporre il governo Zelensky e sostituirlo con “brave persone”. Perché non ci riesce? Semplicemente perché l’esercito ucraino era già stato armato e addestrato per poter resistere all’attacco di 190mila uomini del secondo esercito più potente della storia dell’umanità. Le armi inviate con la delibera di cui sopra sono arrivate settimane dopo e non sono quelle che hanno determinato la capacità di resistenza dell’esercito ucraino. Sono stati i sistemi satellitari, le armi pesanti, il sostegno sul campo degli addestratori americani e inglesi, le informazioni capillari dei servizi di spionaggio militare anglosassone ecc. E allora perché non approfittare di questo supporto militare anglo americano per far assumere alla UE il ruolo che è stato preso furbescamente pro domo sua da Recep Tayyip Erdoğan? Perché è del tutto evidente che gli interessi di USA e NATO andavano e vanno al di là della semplice difesa del diritto internazionale e del sacrosanto diritto di autodifesa del popolo ucraino.

Se da una parte è assurdo chiedere al movimento pacifista che per sua natura opera in ogni momento e in ogni circostanza con azioni di prevenzione dei conflitti la ricetta per la soluzione della crisi ucraina è altrettanto vero che se volessimo scendere su questo piano, come sopra dimostrato, ci sono argomenti ben corposi sui quali basare una visione opposta alla tossica narrazione bellicista che ci viene propinata quotidianamente. Il prossimo 5 novembre saremo di nuovo in piazza nella speranza che non sia solo l’ennesima inutile occasione per ritrovarci ancora una volta tra noi a raccontarci di un mondo che non c’è.

 

 

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