“Oggi diamo per scontato che la carne sia allevata e nessuno la considera di bassa qualità o pretende, quando va in macelleria, di acquistare un animale selvatico cacciato. La stessa cosa non avviene per il pesce. Quello allevato non è ancora ben visto, come se fosse di qualità inferiore”. A dirlo è Francesco Gai dell’Istituto di scienze delle produzioni alimentari (Ispa) del Consiglio nazionale delle ricerche. In realtà il pesce d’allevamento ha valori nutrizionali simili al pescato. “Inoltre, in acquacoltura l’animale vive in un ambiente controllato, motivo per il quale mostra una maggiore salubrità certificata”, spiega il ricercatore del Cnr. “Questo vale anche per quanto riguarda l’esposizione a eventuali contaminati chimici come Pcb (Policlorobifenili), diossine e metalli pesanti, problema che interessa soprattutto i pesci di grossa taglia come tonno e pesce spada, che tendono ad accumulare queste sostanze tossiche. Sotto l’aspetto nutrizionale la quantità di acidi grassi omega 3 è di poco inferiore rispetto a quello catturato in mare o in acqua dolce”.
“I pesci carnivori, di maggiore interesse dal punto di vista commerciale, sono nutriti con mangimi contenenti farine vegetali, in particolare soia e cereali”, continua Gai. “Questo comporta una differenza: invece che acidi grassi della serie omega 3 i mangimi contengono omega 6, entrambe comunque importanti per il corretto funzionamento dell’organismo. Gli allevatori, per ovviare alla carenza di omega 3, in prossimità del raggiungimento della taglia commerciale del pesce introducono per circa due settimane una dieta a base di farina e olio di pesce, in grado di fornire questa tipologia di lipidi”. Questo cambiamento nutrizionale non colma però del tutto le differenze: nel pesce d’allevamento la quantità di omega 3 rimane comunque inferiore rispetto a quello che si può trovare, ad esempio, in una spigola pescata in mare.
La scelta delle farine vegetali è legata a un problema di sostenibilità. “In passato, si utilizzavano farine animali, che però creavano gli stessi problemi del pescato per l’ecosistema marino”, aggiunge il ricercatore. “È quello che gli ecologi chiamano ‘il paradosso acquacoltura’: si alleva pesce per pescarne meno ma lo si nutre con altro pesce, per questo si è deciso di optare per l’uso di farine vegetali. Riguardo al supposto problema dato dal nutrire animali carnivori con sostanze di tipo vegetale, non ci sono studi che mostrino effetti collaterali sul prodotto ittico né pericoli per la salute dell’uomo”.
I pesci possono essere allevati in vasche o in gabbie costruite in mare. Nel primo caso il prodotto ittico ha un sapore diverso rispetto a quello pescato. L’acqua di solito viene dal mare, ma è depurata e filtrata per rimuovere eventuali sostanze nocive: questo processo la rende essenzialmente acqua salata o poco di più. Nel secondo caso invece: “In genere questi allevamenti si trovano in siti contraddistinti dalla presenza di correnti marine che assicurano una buona qualità dell’acqua”.
Nella vasche e in gabbia, i pesci allevati tendono però a muoversi di meno rispetto a quelli pescati, con conseguente accumulo di grassi e questo incide sul sapore. Un palato esperto è in grado di riconoscere un pesce d’acquacoltura rispetto a uno pescato.
Le specie ittiche attualmente allevate rimangono ancora poche a fronte della larga gamma di quelle pescate. Secondo un rapporto di Confagricoltura, la produzione di pesce d’allevamento nel 2014 e nel 2015 è diminuita del 3% rispetto al 2010: l’acquacoltura ha grandi potenzialità che non sono sfruttate al meglio per un problema di coordinamento delle istituzioni, procedure amministrative lunghe e costi eccessivi per le concessioni demaniali, come afferma il Piano strategico per l’acquacoltura in Italia 2014-2020 del ministero delle Politiche agricole e forestali. Ma la principale motivazione della mancata diffusione di questo tipo di prodotto rimane culturale.
Giacomo Tirozzi
Fonte: Francesco Gai, Istituto di scienze delle produzioni alimentari , email francesco.gai@ispa.cnr.it. –