Oltre alla violenza e alle conseguenti ripercussioni umanitarie, una delle questioni che si pongono con maggior attenzione nella crisi politico-sociale del Burundi è quella della stabilità dell’intera regione. Per dare un’idea dell’entità della questione, dieci anni fa la rivista “Limes” scrisse di “Guerra Mondiale dei Grandi Laghi” in merito ai conflitti divampati durante gli anni Novanta.
Già nel maggio 2015 il principale giornale rwandese riferì che “l’assenza di pace in Burundi significa in realtà mancanza di pace in tutta la regione”. Come l’ONU rilevava nel mese di luglio, la questione era ed è legata soprattutto all’alto numero di rifugiati burundesi nei Paesi vicini: attualmente sono oltre 240mila, secondo l’UNHCR, tra Repubblica Democratica del Congo, Rwanda, Uganda e Tanzania. Vi è, tuttavia, un inquietante fantasma che viene evocato da mesi, ovvero quello di un possibile ruolo del Rwanda nella destabilizzazione del Burundi: agli inizi dell’ottobre 2015, ad esempio, ci furono pesanti scambi di sospetti e accuse, oltre all’espulsione di un diplomatico rwandese. In particolare, Alain Nyamitwe, ministro degli esteri burundese, disse che il Paese confinante aveva orchestrato le violenze delle settimane precedenti e, inoltre, che stava addestrando i ribelli; la risposta fu di totale rigetto di tali affermazioni, sottolineando, piuttosto, che erano solo un modo per distogliere l’attenzione dai problemi interni del Burundi. Altro motivo di preoccupazione regionale fu il ritrovamento a Goma, città congolese sul confine rwandese, di un’auto burundese piena di armi.
Per qualche tempo la tensione diplomatica è scemata, ma nelle ultime settimane è tornata a farsi grave, specie dopo il fallimento del negoziato con l’Unione Africana per l’invio di 5000 peacekeeper della missione MAPROBU. Questa capitolazione, in particolare, è stata definita “vergognosa” dalla stampa africana e un “bluff” da “Foreign Policy” e restano oscure le ragioni per cui non si è riusciti a persuadere il governo di Nkurunziza. Inoltre, tale debolezza della diplomazia è ritenuta altamente preoccupante dallo stesso Segretario Generale dell’ONU, Ban Ki-moon, al punto che potrebbe occuparsi personalmente della questione, anche per le pressioni recenti della Francia, che chiede l’invio immediato di una forza internazionale di polizia, a cui il Belgio ha dato la sua disponibilità.
L’aspetto più minaccioso, tuttavia, è tornato ad essere quello del rapporto tra Burundi e Rwanda: secondo Benjamin Chemouni, ricercatore della “London School of Economics”, vi sarebbe un supporto clandestino di Kigali per armare i gruppi burundesi ribelli, una eventualità che, però, non sembra una mera congettura perché sarebbe confermata da un rapporto confidenziale del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite in cui il Rwanda è accusato di reclutare e addestrare centinaia di rifugiati burundesi presenti nel Paese, con l’obiettivo di spodestare il presidente Nkurunziza. Gli estensori del documento si basano sulle testimonianze di 18 combattenti burundesi, i quali hanno tutti asserito di essere stati reclutati nel campo profughi di Mahama, nel Rwanda orientale, tra maggio e giugno 2015, nonché di essersi addestrati per due mesi grazie ad istruttori militari rwandesi.
Gli Stati Uniti, che pure hanno espresso più volte la loro contrarietà alla leadership burundese, in questo caso, attraverso il loro diplomatico Tom Periello, hanno incolpato ufficialmente il Rwanda di voler destabilizzare il Burundi. La risposta del governo rwandese non si è fatta attendere e, come prevedibile, respinge nettamente ogni accusa di ingerenza, ma contiene anche dell’altro, particolarmente allarmante, ovvero l’intenzione di spostare tutti i profughi burundesi attualmente presenti sul suo territorio verso Paesi terzi, che però non sono specificati.
Come una valanga inarrestabile, dunque, la crisi del Burundi si ingrandisce e si aggrava di giorno in giorno, non solo sul piano politico-diplomatico (alcune settimane fa riferimmo dei tre possibili scenari in cui può evolvere la crisi), ma ora anche alimentare e sanitario: in un’intervista alla televisione belga RTBF, Sophie Léonard, medico e rappresentante dell’Unicef in Burundi, dice che durante l’ultimo anno la già fragile qualità della vita del Paese è peggiorata in maniera inquietante: industrie e negozi sono chiusi, la capitale si è svuotata e non c’è modo di acquistare le sementi per la prossima stagione agricola, i prezzi sono aumentati e il cibo si è rarefatto, così come il carburante per i camion che trasportano merci dalla Tanzania. Il tasso di malnutrizione tra i bambini al di sotto dei 5 anni, in particolare, è aumentato anche a Bujumbura, che è la zona più ricca della nazione, per cui lo scenario che si apre è di una vera e propria crisi nutrizionale e sanitaria.
A questo quadro così drammatico ha fatto seguito un rapporto ufficiale dell’Unicef in cui viene spiegato che 400.000 burundesi, di cui 200.000 bambini (e i bambini sono coloro che stanno soffrendo di più), nei prossimi mesi avranno bisogno di aiuto, per cui, per scongiurare un‘ulteriore degradazione della situazione, questo è il momento chiave per agire concretamente.