Senti l’estate che torna: lo cantavano Le Orme, nel 1968. Gran pezzo, devo dire, con quel misterioso profumo che hanno gli evergreen. Anche se ricordarsene è un’impietosa dichiarazione della propria carta d’identità. E’ bello, il ritorno dell’estate, ma ha un difetto: perlomeno a Torino. All’inizio ti scalda e t’illumina, vivificante: poi, repentina come i cobra che affrontava il prode Tremal Naik (altro indizio sull’età), colpisce con lunghi giorni di afa in cui daresti il tuo regno per una canottiera di Gin Tonic gelato.
Così è, comunque, e cambiano pure le ricette. Ma io, ostinato, ho preparato ancora qualcosa che sapeva d’autunno. Mia moglie è arrivata bella bella con tre stinchi di maiale. Non li ho pesati: non ne avevo il coraggio. Dopo il solito battibecco cucini tu cucino io, l’ho avuta vinta e mi sono dato da fare.
Non ho marinato lo stinco. Non ho glassato lo stinco. Non ho preparato una salsa di mele o di mirtilli: tra me e la cucina teutonica c’è un rapporto difficile. Ho preso gli stinchi e li ho messi in casseruola con solo olio EVO (poco) e li ho rosolati a lungo: circa 15-20 minuti direi. Dopodiché ho aggiunto 66 cc di birra chiara e ho lasciato sfumare. A questo punto, cinque o sei spicchi di aglio nudo e schiacciato (lo sapete, a me l’aglio in camicia sembra Belen con il cappotto), rosmarino, una foglia di lauro, bacche di ginepro e becche di pepe del Sichuan (non è un vero pepe, ma una bacca leggermente piccante (Zanthoxylum piperitum) e dall’aroma di limone, di cui si adoperano i gusci tostati).
Ho infornato a 90°, controllando con il mio nuovissimo termometro da forno, per cinque ore. Alla fine delle cinque ore la temperatura interna, ancora leggermente bassa, indicava che la carne sarebbe stata rosata. E noi il maiale non lo vogliamo rosato: succulento e morbido, ma non rosato. Così ho alzato a 200° per circa quaranta minuti. Sfornati gli stinchi, ho addensato il fondo, abbondante grazie alla prevalenza delle basse temperature, tenendolo per qualche minuto a fuoco vivace dopo avervi aggiunto uno slurry di acqua tiepida e maizena.
Risultato? I quaranta minuti ad alta temperatura hanno finito di cuocere perfettamente la carne, che si staccava dall’osso con facilità, ma non hanno per nulla compromesso la sua morbidezza e la sua succulenza. Unico appunto: la prossima volta aggiungerò il pepe del Sichuan a cottura ultimata, per conservarne meglio l’aroma.
Come direbbe Achille Campanile, abbiamo sempre domande da porci, specie sugli stinchi dei porci stessi.
Alessandro Defilippi