Editoriale, Mondo

Netanyahu avrebbe bisogno di oceani non di missili

Nell’attesa di attribuire le responsabilità dell’eccidio dell’ospedale Al Ahli di Gaza City, (se mai saranno accertate con esattezza e, ancor più, accettate da entrambe le parti e dalla comunità internazionale), è bene tornare sull’annoso argomento della risposta che Israele è intenzionata a dare all’attacco palestinese del 7 ottobre.  Già prima ancora che l’esercito israeliano abbia iniziato la prevista operazione di terra a Gaza, l’intero Medio Oriente appare già sull’orlo della catastrofe.

Le prossime mosse di Benjamin “Bibi” Netanyahu saranno decisive per delineare con maggiore esattezza gli scenari futuri. Se una guerra regionale totale si realizzerà dipenderà molto dai prossimi passi di Israele. L’analogia molto utilizzata da tutti gli analisti è quella che descrive gli attacchi di Hamas come “l’11 settembre di Israele”. Ci sono, con lo scenario successivo all’attacco alle torri gemelle, numerose analogie che possono essere anche un ottimo canovaccio per analizzare gli errori fatti in quel caso e quelli che potrebbe fare o non fare Israele in questa occasione. 

Il primo e più eclatante parallelo è il fallimento dell’intelligence che ha permesso a un gruppo armato di colpire al cuore una potenza militare largamente più attrezzata sia militarmente che sul piano dell’intelligence. Le autorità israeliane si sono rivelate chiaramente impreparate. Nonostante i segnali ricevuti da varie fonti di un prossimo possibile evento di proporzioni importanti, non sono state prese le dovute precauzioni, il che ha provocato un numero di vittime mai visto dalla fondazione dello Stato nel 1948. Già solo il numero delle vittime (senza considerare il valore strategico del successo dell’attacco) distingue questo evento dai consueti “turmoil in the Middle East.”

La seconda analogia è il fatto che Israele oggi, così come gli Usa allora, si trova di fronte ad una scelta che non è solo tattica, ma è strategica e piena di insidie. Quale risposta, contro chi, con quale impatto sul territorio della Striscia? E ancora, con quale finalità? Gli Usa fecero seguire il loro 11 settembre con l’invasione dell’Afghanistan. Venti anni dopo hanno dovuto ritirarsi con disonore lasciando sul campo macerie figlie di una politica scellerata, senza una strategia e senza una visione. Cosa vuol fare Benjamin “Bibi” Netanyahu di Gaza dopo che ha annientato Hamas come dichiarato? E più in generale come si vede Israele tra 5/10/20 anni? Quanto ancora potrà sopportare di vivere con la minaccia di future guerre, attacchi, attentati?

La resa dei conti arriverà per Netanyahu, la sua carriera politica è segnata, la fine di questa crisi sarà anche la sua fine. Ma resta da vedere che fine farà Israele come nazione, come popolo, come entità geopolitica. Il diritto alla risposta all’attacco del 7 ottobre e alla difesa del proprio territorio è riconosciuto unanimemente anche oltre la logica e la ragione. E’ sempre bene scindere l’attualità dalla storia. L’attualità ci dice di una brutale offensiva principalmente perpetrata contro civili da parte di Hamas, la storia ci dice di un brutale atteggiamento imperialistico di Israele sul popolo palestinese.

Dopo l’11 settembre del 2001 gli Stati Uniti acquisirono il diritto di difendersi dagli attacchi terroristici di Al-Qaeda. Contando sul sostegno simbolico e concreto di molti paesi in tutto il mondo attuarono il progetto del tutto arbitrario e contrario al diritto internazionale di “esportare la democrazia” . Due decenni dopo, a fronte di centinaia di migliaia di morti, per lo più civili, e trilioni di dollari spesi, gli Stati Uniti sono ora un attore meno potente e meno rispettato nella regione e nel mondo.

Se Israele vuole evitare gli errori commessi dagli americani, vincere su Hamas ed emergere più forte come società, dovrà andare oltre l’attuale ondata patriottica sulla scia degli attacchi. Anche nel settembre 2001, negli Usa ci furono manifestazioni e raduni patriottici. Il popolo finì per appoggiare un presidente fino a quel momento debole che non era nemmeno stato eletto dalla maggioranza della popolazione e aveva prestato giuramento dopo una lunga diatriba legale. Dopo venti anni di guerre oggi il Paese è più diviso che mai, e una delle ragioni di ciò sono proprio le “guerre eterne” iniziate in risposta all’11 settembre, compreso il loro enorme costo per i contribuenti statunitensi. Sull’onda di quella storica, strategica sconfitta Donald Trump ha potuto essere eletto facendo appello a uno “splendido isolamento”, “America first”. Ciò nonostante gli Usa hanno retto perché aiutati anche dalla loro collocazione geografica protetti come sono da due oceani e da confinanti amici.

Israele, per contro, è circondata da nemici, belligeranti o solidali con essi. L’attacco del 7 ottobre dimostra, senza appello, che Israele non sarà in grado di ritirarsi dentro i propri confini e che alla fine dovrà trovare un equilibrio con i Paesi della regione. Il governo israeliano negli ultimi tempi sta tentando un riavvicinamento con i Paesi arabi, anche in una prospettiva anti-iraniana. Per evitare di inficiare possibili accordi le richieste dei palestinesi sono state deliberatamente lasciate da parte. Questo fatto ha irritato ulteriormente Hamas. 

Un accordo con l’Arabia Saudita, avrebbe costretto la dirigenza della Striscia a scendere a compromessi legandosi al Paese che ospita i luoghi più sacri dell’Islam e girando le spalle ai tradizionali amici sciiti.Se ce ne fosse ancora bisogno, gli attacchi di Hamas sottolineano che, senza un’intesa diretta tra Israele e palestinesi, una pace duratura è impossibile. La pace si fa con il nemico, il nemico adesso è Hamas ma poi sarà con loro e con la corrotta dirigenza della Cisgiordania che ci si dovrà mettere d’accordo. Se la fine di Israele come stato è impossibile, altrettanto impossibile è continuare sine die a tenere in uno stato di disumano isolamento il popolo palestinese. 

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