Diritti

Non sparate sullo psichiatra

Otto operatori sanitari uccisi in circa venti anni. Senza contare le ferite, le minacce, gli abusi, le violenze protratte nel tempo: per una ‘contabilità’ totale che parla di circa mille casi di violenza ogni anno contro gli operatori delle strutture psichiatriche. Non tutti denunciati e non tutti con conseguenze ‘fisiche’, ma certamente in grado di mettere in pericolo i medici e gli infermieri delle strutture psichiatriche italiane, che hanno in cura oltre 3,5 milioni di pazienti. A lanciare l’allarme è la Società italiana di psichiatria, in occasione della prima giornata nazionale su salute e sicurezza degli operatori in psichiatria, che si svolge oggi a Bari, e dedicata a Paola Labriola (uccisa lo scorso anno) e Rocco Pollice (suicida nel gennaio di quest’anno).

Due casi diversi, ma pur sempre due vittime di questo sistema che ormai va assolutamente migliorato. Il primo passo sarà l’avvio di una indagine che coinvolgerà tutti i Dsm italiani, grazie alla quale sarà prodotto un documento ufficiale per identificare e garantire gli standard minimi di sicurezza per operatori e pazienti. Il rischio di violenza infatti è in larga misura controllabile e prevenibile. Il problema reale sono le carenze di molti servizi, si di organico che di struttura. Ma non solo: troppi ancora i baroni e gli infermieri “disturbati” o incapaci che coprono incarichi importanti mettendo a rischio la vita dei colleghi e dei pazienti.  Senza considerare una mancata rivoluzione su teorie e prassi ancorate a vecchi dogmi culturali che non consentono una vera e propria trasformazione di questa delicata disciplina medica.

A questo si aggiunge la diffusione sempre maggiore e dilagante di persone che fanno uso di droghe, sintetiche e non, in grado di indurre agitazione psicomotoria tale da accrescere il pericolo di violenza. Persone, queste, che spesso non hanno uno specifico disturbo mentale, ma che accedono ai servizi di salute mentale, gli unici rimasti sul territorio a disposizione della popolazione.

“I disturbi mentali più gravi – spiega Emilio Sacchetti, presidente nazionale sella Sip e direttore del Dsm degli Spedali Civili, Università di Brescia – possono associarsi ad un maggior rischio di azioni aggressive. È però anche vero che i pazienti sono spesso loro stessi vittime di violenza da parte di altri. È evidente, quindi, che condurre il problema della sicurezza a una semplice equazione ‘paziente – violenza – aumento del rischio’ è un errore che rischierebbe di incrementare l’uso di terapie restrittive (aumento delle contenzioni o eccesso di sedazione) di cui il paziente non ha affatto bisogno. Non è però nemmeno più accettabile che medici e infermieri si trovino in prima linea in una guerra che non possono e non devono combattere.

“Anche queste – aggiunge Sacchetti – sono ‘morti sul lavoro’, e come tali inammissibili. Inoltre i nostri reparti e servizi territoriali, in questo periodo di crisi economica e sociale, hanno progressivamente perso risorse umane, si sono impoveriti diventando un territorio poco presidiato e di nessuno. La violenza e il rischio di aggressioni sono fenomeni controllabili, ma non si può lavorare in servizi sottodimensionati. Perché questo comporta difficoltà di controllo e ritardi nella gestione delle cure, con rischio maggiore di errore medico, e non solo, e rischio di burn-out per gli operatori”.

In questo contesto la Sip guarda con “grandissima preoccupazione” all’eventualità di nuovi tagli che sarebbero, “oltre che ingiustificabili anche insostenibili”. Da qui parte l’iniziativa di indagine sugli standard minimi di sicurezza che la Sip promuoverà nei prossimi mesi e che porterà ad un documento ufficiale.

“In questi anni di crisi – aggiunge Claudio Mencacci, past-president Sip e direttore del Dsm del Fatebenefratelli di Milano – si è verificato un aumento della pressione mediante una aggressività verbale (e non solo) da parte della cittadinanza che si rivolge ai servizi psichiatrici non per chiedere cure ma per ottenere cibo, soldi, casa. Esasperata dalla situazione economica, questa si ripercuote su personalità fragili e antisociali che avendo meno supporti, possono scaricare la loro rabbia solo sui servizi, tentando di psichiatrizzare la disperazione sociale. Sono le personalità fragili, ma prepotenti, spesso non consapevoli e più orientate alla antisocialità, che diventano più aggressive in un ambiente sempre più aggressivo”.

Per Enrico Zanalda, segretario nazionale della Sip e direttore del Dsm della Asl Torino 3, “affrontare il tema dei comportamenti violenti non è quello di fomentare la paura, ma di pretendere consapevolezza dei rischi e sicurezza di mezzi per gli operatori, in modo che non si sentano soli nell’affrontare situazioni così complesse. Bisogna ricordare che l’abuso di droghe incrementa notevolmente il rischio di comportamenti violenti e che i pazienti con disturbi mentali, soprattutto giovani, hanno minori capacità di ‘resistere’ all’assunzione e all’abuso di queste sostanze”.

Secondo Guido Di Sciascio, vicesegretario nazionale della Sip e dirigente della clinica psichiatrica del Policlinico di Bari, “una copertura universale dei servizi di salute mentale, rivolta anche a patologie non storicamente prese in carico dai servizi rappresenterebbe una pietra angolare nel ridurre l’impatto della crisi, come elemento per ridurre disuguaglianze nella salute. C’è poi un’ampia convergenza in letteratura nel ritenere che interventi di supporto al benessere di genitori e figli è protettivo sul rischio di sviluppare patologia mentale, con un guadagno di lungo periodo superiore ai costi di breve periodo”.

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