Salute

Nuovo farmaco sperimentale a Rna-messaggero abbassa la pressione alta. Bastano due iniezioni l’anno

I pazienti che non riescono a tenere a bada la pressione alta potrebbero contare su un nuovo aiuto grazie a trattamenti di lunga durata in grado di superare il problema dell’aderenza alle cure antipertensive. Una sfida sanitaria molto seria e importante se si considera che dopo circa un anno fino il 50 per cento dei pazienti abbandona la terapia antipertensiva abbassando di conseguenza la possibilità di proteggere cuore e cervello da infarto e ictus.

La conferma di una prospettiva di miglioramento in questo senso arriva dai più recenti risultati delle ricerche su un nuovo farmaco, zilebesiran, ancora in sperimentazione, al centro dello studio KARDIA-2 presentato al congresso dell’American College of Cardiology che si è concluso lunedì 8 aprile ad Atlanta.

Lo studio, in doppio cieco e controllato con placebo, è stato presentato da Akshay S. Desai, professore associato dell’Harvard Medical School, e ha ha valutato l’efficacia e la sicurezza di zilebesiran in 672 pazienti in aggiunta alle pillole giornaliere.

«I risultati della ricerca sono molto incoraggianti: la nuova molecola – spiega Pasquale Perrone Filardi, presidente Società italiana di cardiologia e direttore della Scuola di specializzazione in malattie dell’apparato cardiovascolare dell’Università Federico II di Napoli – interferisce conl’RNA-messaggero bloccando nel fegato la produzione di angiotensinogeno, una proteina che è in cima alla catena dei processi organici che alla fine provocano il rialzo dei valori pressori. Riducendo la disponibilità di questa proteina nel sangue si abbassa anche la pressione. L’innovativa terapia si somministra con una semplice iniezione sottocutanea simile a quella che si fa con l’insulina – aggiunge Perrone Filardi – e la sua azione dura a lungo perché è sufficiente ripeterla a distanza di tre o addirittura sei mesi».

Battuta d’arresto per farmaci beta-bloccanti nei pazienti meno gravi: dopo un infarto sembrano non ridurre il rischio di un secondo attacco e di mortalità.

Questo dicono i risultati dello studio multicentrico REDUCE-AMI condotto da settembre 2017 a maggio 2023 in 45 centri in Svezia, Estonia e Nuova Zelanda per valutare l’efficacia dei beta-bloccanti, farmaci di routine nel trattamento post-infarto. La ricerca, anch’essa presentata al congresso dell’American College of Cardiology di Atlanta e appena pubblicata sul New England Journal of Medicine, ne mette in discussione il beneficio nel prevenire un secondo attacco di cuore o ridurre la mortalità nei pazienti meno gravi a cui, fino a oggi, poteva essere consigliata questa terapia.

«L’utilizzo dei beta-bloccanti nel post infarto – ricorda Ciro Indolfi, Past-president della Società italiana di cardiologia – è una pratica clinica consolidata. Si tratta di una classe di farmaci che agisce inibendo i recettori beta-adrenergici e inducendo la riduzione della frequenza cardiaca e della pressione arteriosa. L’efficacia terapeutica di questi farmaci si basa però, ancora oggi, sull’effetto dimostrato in studi clinici datati, condotti prima della diffusione delle attuali tecniche di rivascolarizzazione con lo stent, dell’implementazione sistematica delle statine, della disponibilità di efficaci farmaci per la prevenzione primaria e secondaria e delle moderne terapie antiaggreganti. Da quando questi nuovi trattamenti sono diventati accessibili – sottolinea Indolfi – il valore della terapia con beta-bloccanti nei pazienti con infarto miocardico, senza insufficienza cardiaca, è stato messo in dubbio, ma fino a oggi erano disponibili solamente studi osservazionali che fornivano risultati contrastanti».

Lo studio REDUCE-AMI ha valutato l’efficacia della terapia con beta-bloccanti in 5.020 pazienti con età media di 65 anni con infarto miocardico acuto trattati con angioplastica e con una normale funzionalità contrattile del muscolo cardiaco. La ricerca, in particolare, ha confrontato il decorso clinico del gruppo dei pazienti ai quali era stata prescritta una terapia con beta-bloccanti rispetto a quelli trattati senza questi farmaci. «I risultati –  commenta Indolfi – hanno mostrato che, a circa tre anni e mezzo dall’inizio dello studio, l’incidenza di decessi e di un secondo infarto non sono stati significativamente differenti nei due gruppi. Non sono state registrate differenze di rilievo neanche nel numero di ospedalizzazioni per fibrillazione atriale, per insufficienza cardiaca, ictus o per interventi di impianto di un pacemaker».

REDUCE-AMI, comunque, non ha riscontrato segnali negativi riguardo la sicurezza del trattamento, precisa Perrone Filardi, e perciò «riteniamo che le evidenze siano ancora a favore dei beta-bloccanti per i pazienti con infarto miocardico di grandi dimensioni, che presentano insufficienza cardiaca. Per i pazienti con normale contrattilità del cuore, questo studio stabilisce, invece, che non ci sono indicazioni che l’uso di routine dei beta-bloccanti sia vantaggioso. Potrebbe però essere troppo presto per escludere definitivamente questo tipo di terapia dagli strumenti a disposizione nella prevenzione secondaria – conclude il presidente della Sic – e sono pertanto necessari ulteriori studi». (American College of Cardiology)

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