Cultura

Oggi 4 novembre 2019

Il sole splende luminoso, il vento sferza la costa dopo aver sollevato, in mare, onde potenti. Ma non fa freddo anzi, tutt’altro. non credo fosse così il 4 novembre 1918 quando l’ultimo colpo della Prima guerra mondiale fu sparato. Ad Anzio, città dove nel dicembre scorso il consiglio comunale ha respinto la richiesta di revoca della cittadinanza onoraria a Benito Mussolini e che lo scorso 25 aprile ha “festeggiato” la ricorrenza con una commemorazione dove la maggior parte dei figuranti era vestita con divise delle SS per la gioia della folla accorsa a farsi i selfie con i gerarchi, ad Anzio, quindi si celebra la ricorrenza della vittoria della nostra amata Patria contro i nostri ex alleati. Ci sono i militari di tutte le armi, c’è la gente (poca), ci sono gli studenti delle scuole elementari e medie.

La scuola dovrebbe avere il compito storico e morale di ricordare che il 4 novembre non vi è nulla da festeggiare. Questo, in realtà, è un giorno di lutto, in ricordo degli oltre 13 milioni di uomini e donne morti, in una delle guerre più violente della storia, una scellerata macelleria sociale che generò i frutti velenosi del fascismo e del nazismo. La ricorrenza del 4 novembre è la più insopportabile occasione per alzare alta la retorica del nazionalismo e del militarismo. Invece le scolaresche sono qui, in piazza, insieme ai militari, ai reduci, alle forze politiche e amministrative a raccogliere (si spera distrattamente) i messaggi retorici dell’occasione.

Ma ecco che succede l’imprevisto, il colpo di genio. Un infiltrato (deve essere per forza così) all’interno dell’organizzazione dell’evento riesce a far suonare e cantare ad un non meglio identificato gruppo musicale “La guerra di Piero” di Fabrizio De Andrè, il più anarchico dei nostri cantautori. Il brano viene presentato come la storia di un eroe che perde la vita in un gesto di altruismo. La scena diventa irreale, le note della canzone e le divise allineate in bella mostra e postura marziale stridono come un vecchio tram in frenata. E’ una non so quanto volontaria zeppa inserita nel meccanismo propagandistico della manifestazione. Se solo ascoltassero queste parole (difficilmente accadrà) gli orgogliosi rappresentanti delle FFAA si accorgeranno che nel testo non viene celebrato l’ eroe che si immola per i valori della patria, ma l’ uomo che per non uccidere il nemico esita e perda la vita. Ah se solo si ricordassero ciò che lo stesso De Andrè disse di questa canzone: «Quando è uscita, La guerra di Piero rimase praticamente invenduta; divenne un successo solo cinque anni dopo, con il boom della protesta, con Dylan, Donovan e compagnia. Penso che finirò per scrivere una canzone in favore della guerra, che naturalmente venderò nel 1980 quando ci sarà qualche “guerra sacra” in nome di qualche non meglio identificato ideale» (Fabrizio de André, in un’intervista al Corriere Mercantile di Genova, 8 marzo 1968). Quale incredibile profezia.

Non ci aspettiamo che una società dove la retorica nazionalista l’ha fatta da padrona per decenni prenda improvvisamente una direzione opposta. Non ci aspettiamo che qualcuno (qualcuno che conta, uno di quelli che può) prenda per mano questo Paese e lo traghetti finalmente in un terzo millennio di pace, di tolleranza, di giustizia sociale. Ma almeno che non si cerchi di tirare per la giacchetta un fine intellettuale, un poeta come lo sono stati quelli che lo hanno ispirato, questo, sommessamente, ci sentiamo di chiederlo.

«Nella limpida corrente «Lungo le sponde del mio torrente

ora scendon carpe e trote voglio che scendano i lucci argentati

non più i corpi dei soldati non più i cadaveri dei soldati

che la fanno insanguinar» portati in braccio dalla corrente»

(Italo Calvino, Dove vola l’avvoltoio, 1958) (Fabrizio De André, La guerra di Piero, 1964)

 

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