Almeno settanta persone sono state uccise in un attacco all’unico ospedale funzionante nella città assediata di El Fasher in Sudan, ha affermato domenica il direttore generale dell’Organizzazione mondiale della sanità, nell’ambito di una serie di attacchi avvenuti mentre la guerra civile nella nazione africana si intensificava negli ultimi giorni.
L’attacco al Saudi Teaching Maternal Hospital, che i funzionari locali hanno attribuito alle Rapid Support Forces ribelli, è avvenuto mentre il gruppo ha visto apparenti perdite sul campo di battaglia contro l’esercito sudanese e le forze alleate sotto il comando del capo dell’esercito, il generale Abdel-Fattah Burhan. Ciò include Burhan che appare vicino a una raffineria di petrolio in fiamme a nord di Khartoum sabato che le sue forze hanno affermato di aver sequestrato alle RSF.
Il Ministero degli Esteri dell’Arabia Saudita ha denunciato l’attacco come “una violazione del diritto internazionale”.
I tentativi di mediazione internazionale e le tattiche di pressione, tra cui la valutazione degli Stati Uniti secondo cui RSF e i suoi alleati stanno commettendo un genocidio e le sanzioni contro Burhan, non hanno fermato i combattimenti.
La presa di Wad Madani, importante snodo e principale città nelle vicinanze di Khartoum “ha rafforzato il morale tra le truppe e consente alle SAF di intensificare la pressione” spiega ad Al Jazeera Jalel Harchaoui, ricercatore associato presso il Royal United Services Institute di Londra, secondo cui per riguadagnare terreno le RSF potrebbero ora lanciare una controffensiva su El Fasher, l’ultima roccaforte dell’esercito nella regione occidentale del Darfur. Negli ultimi mesi, le forze guidate da Hemedti avevano subito molteplici sconfitte sul campo di battaglia, perdendo il controllo di molte aree intorno a Khartoum, nella città gemella della capitale Omdurman, e nelle province orientali e centrali, consentendo all’esercito di prendere il sopravvento. Ora la resa di Wad Madani consentirà alle SAF di accedere ad altre parti del paese da cui gli avversari saranno invece tagliati fuori, come gli stati di Sennar, Blue Nile e White Nile. Le forze guidate da Hemedti tuttavia, controllano ancora buona parte dello stato di Gezira, oltre alla quasi totalità dei territori nell’ovest e nel sud del paese.
Carestia: lotta contro il tempo?
Ma la riconquista della città non è importante solo dal punto di vista strategico: con Wad Madani di nuovo sotto il controllo delle SAF infatti, le autorità potrebbero cercare di contrastare la drammatica crisi alimentare che minaccia il paese, poiché lo stato ospita i terreni e i programmi agricoli più fertili del Sudan. La maggior parte delle attività agricole, infatti, è rimasta ferma sotto il controllo delle RSF e la carestia è ormai alle porte in diverse aree del paese, tra cui la regione occidentale del Darfur, sede di numerosi campi profughi. Anche Wad Madani, nei primi giorni del conflitto, era diventata un rifugio per le famiglie sfollate. Da quando le RSF avevano preso il potere, però, era diventata teatro di alcuni dei più sanguinosi attacchi commessi dai paramilitari contro i civili, dell’incendio di campi, saccheggio di ospedali e mercati e allagamento dei canali di irrigazione. Le forze guidate da Hemedti hanno negato ogni abuso, ma di certo la guerra ha creato la più grande crisi di sfollamento al mondo, costringendo più di 14 milioni di persone, circa un terzo della popolazione sudanese, ad abbandonare le proprie case. L’Onu stima inoltre che circa 3,2 milioni di sudanesi abbiano attraversato il confine verso i paesi limitrofi, tra cui Ciad, Egitto e Sud Sudan.
RSF accusate di genocidio?
È in questo contesto, e dopo quasi due anni di conflitto, che lo scorso 7 gennaio l’amministrazione americana guidata da Joe Biden ha accusato le RSF e i suoi alleati di genocidio e ha imposto sanzioni contro Mohamed Hamdan Dagalo e sette società di proprietà di RSF negli Emirati Arabi Uniti, accusate di aver fornito armi e sostegno finanziario alle sue forze armate. Mentre sia le RSF che le forze armate sudanesi (SAF) sono state accusate di aver commesso crimini di guerra, il dipartimento di Stato Usa ha definito “sistematico” e riconducibile “alla fattispecie del genocidio” il modello di violenza etnica con cui i paramilitari hanno ucciso civili in fuga e bloccato loro l’accesso ai beni essenziali. “Entrambe le parti in conflitto sono responsabili della violenza e della sofferenza in Sudan e non hanno la legittimità per governare un futuro pacifico” ha affermato nella dichiarazione il segretario di Stato Blinken. Per quanto tardiva, la decisione di Washington mira ad alzare il livello dell’attenzione internazionale su ciò che sta avvenendo in Sudan, aumentando al contempo la pressione sui sostenitori regionali affinché prendano le distanze e diffidino dal sostenere fare affari con le RSF. Di recente, l’esercito sudanese ha accennato all’accettazione della mediazione turca con gli Emirati Arabi Uniti sul conflitto.
Il commento
di Sara De Simone, ISPI Associate Research Fellow
La dichiarazione di genocidio è stata accolta con favore dalle organizzazioni internazionali che si occupano di diritti umani come Human Rights Watch e Refugee International, nonché dagli altri governi occidentali. Per quanto un’accusa di genocidio di questo tipo non abbia implicazioni legali dirette, in quanto firmatari della Convenzione delle Nazioni Unite per la prevenzione e la repressione del delitto di genocidio gli Stati sono obbligati a perseguirne i colpevoli qualora ne avessero la possibilità. Si tratta in ogni caso di una mossa finalizzata principalmente ad alzare il livello dell’attenzione internazionale su ciò che sta avvenendo in Sudan, alla stregua di quanto già avvenuto nello stesso Sudan nel 2003-2004. All’epoca, quando nel 2004 gli Stati Uniti dichiararono che in Darfur era in corso un genocidio, questa strategia aveva funzionato.