Fino a qualche anno fa non lo conoscevo. Me misero! Poi l’ho assaggiato, al ristorante Sardegna, qui a Torino. E da quel giorno Sergio Coghe, patron e chef, persona squisita e di buona memoria, non manca mai di portarmelo, senza una parola, in tavola.
Di cosa sto parlando?
Ma del prosciutto crudo di pecora, naturalmente.
Non sono un carnivoro elettivo. Amo verdure e legumi, crostacei e molluschi, frattaglie e farinacei (ahimè). Assaggio ogni cosa e la carne -pur apprezzandola– non è tra le mie prime scelte. Ma il prosciutto di pecora!
Stagionato con aromi e peperoncino, ha un profumo intenso, ampio, talora pungente, non dissimile da quello di certi pecorini; un sapore a un tempo vivace delicato, sapido. Il sapore e il profumo che deve avere la carne ovina, con quel sentore vago di selvatico che a molti fa esclamare, con risentita indignazione e con le mani protese a palmo in avanti: “Com’è forte, signora mia!, Ah no, la pecora no, grazie. E nemmeno l’aglio o la cipolla. Il peperone, poi, si ripropone. Sa, i sapori forti proprio no; eppure la mia povera mamma mi cucinava sempre la trippa. E io no, mai. Non l’ho mai assaggiata”. Fieri, dignitosi, con l’aria di saperla lunga, non amano i profumi intensi. Eppure, come canta Paolo Conte, “la vita intensa lo è”.
Mah.
Se non lo conoscete e vi capita di incontrarlo, magari in un ristorante saggio come quello di Sergio o direttamente in Sardegna, al tavolo di una trattoria o in una salumeria, non tremate: fatevene tagliare sottili fragranti fette. Disponetele religiosamente su del pane carasau o, meglio ancora, portatele, nude e impudiche alla bocca, direttamente con le mani, che restano, come insegna Totò, le migliori posate.
E ne trarrete grande giovamento, nel nome di Gargantua e della vita intensa.
Alessandro Defilippi