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Israele bombarda il Sud di Gaza nella notte, 29 morti. Biden contestato in casa dai democratici cincischia con Netanyahu

Nella notte tra venerdì e sabato si sono concentrati al Sud di Gaza i bombardamenti delle forze armate israeliane, in particolare nell’area di Khan Younis. Lo riportano media palestinesi. Secondo l’agenzia di stampa Wafa si sarebbero registrati anche pesanti combattimenti nell’area intorno all’ospedale Nasser e ci sarebbero stati nel complesso 29 morti. Khan Younis è stato l’epicentro delle operazioni di terra israeliane nelle ultime settimane.

I combattimenti hanno costretto migliaia di abitanti di Gaza a fuggire dalla zona, molti dei quali già sfollati dai quartieri settentrionali dove Israele ha lanciato la sua offensiva.

“Una soluzione due stati non è impossibile”. All’indomani del muro posto dal premier israeliano Benjamin Netanyahu, il presidente americano è tornato pesantemente all’attacco con Israele nel tentativo di convincerlo a lavorare per uno Stato palestinese dopo la fine della guerra di Gaza. “Esistono diversi tipi di soluzioni a due Stati”, ha affermato. E ha quindi sollevato opzioni che limiterebbero la sovranità palestinese per rendere la prospettiva più appetibile per Tel Aviv.

Sperando di superare la strenua resistenza di Netanyahu, Biden ha ventilato la possibilità di una nazione palestinese disarmata che non minaccerebbe la sicurezza di Israele. Nessuna indicazione al momento che il premier israeliano possa allentare la sua opposizione, soprattutto in un momento in cui la sua fragile coalizione di destra scricchiola da tutte le parti. Nonostante questo Biden ha espresso ottimismo sul fatto che potrebbero ancora trovare consenso.

Alla Casa Bianca, diverse ore dopo la chiamata al leader israeliano, la prima in quasi un mese nel mezzo della tensione per la guerra, il leader Usa ha voluto tornare davanti ai giornalisti sull’argomento. “Ci sono un certo numero di paesi membri delle Nazioni Unite che non hanno i propri eserciti. Un numero di stati che hanno limitazioni” ha affermato -. E quindi penso che ci siano modi in cui questo potrebbe funzionare”.

Alla domanda su cosa fosse realmente disponibile Netanyahu, Biden ha però risposto vagamente: “Ve lo farò sapere”. Ma ha rifiutato l’idea che una cosiddetta soluzione a due Stati sia impossibile finché Netanyahu è al potere: “No, non lo è” ha detto, respingendo anche l’idea di imporre condizioni sugli aiuti americani per la sicurezza a Israele se il primo ministro continuerà a resistere. “Penso che saremo in grado di trovare una soluzione”, ha minimizzato il problema Biden.

Negli Stati Uniti i democratici invece sono furiosi con il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu per aver rifiutato l’idea di creare una nazione palestinese indipendente dopo la fine dei combattimenti nella Striscia di Gaza.

Netanyahu è stato schietto riguardo alle sue intenzioni durante una conferenza stampa giovedì, affermando che Israele “ha bisogno del controllo di sicurezza su tutto il territorio” a ovest della Giordania dopo la guerra, ha detto. “Ciò si scontra con l’idea di sovranità”.

Dopo aver lasciato un incontro di giovedì sulla crisi in Medio Oriente con il segretario di Stato Antony Blinken e altri parlamentari della commissione per le relazioni estere del Senato, il senatore Chris Van Hollen ha detto che Washington è stufa della leadership israeliana. “Penso che le persone siano allo stremo delle forze con la coalizione di Netanyahu… che comprende estremisti di destra”, ha detto Van Hollen a POLITICO. “È abbastanza chiaro che Netanyahu sta ascoltando molto più gli estremisti del suo governo che il presidente degli Stati Uniti e l’amministrazione Biden”.

Il democratico del Maryland ha sostenuto che il presidente Joe Biden dovrebbe abbandonare la “diplomazia silenziosa” con Netanyahu, insieme ai “segnali contrastanti” inviati “quando l’amministrazione Biden ignora la notifica del Congresso di inviare più artiglieria e altre armi a Israele, quando allo stesso tempo , stanno dicendo a Netanyahu di ridurre il numero delle vittime civili”.

Se c’è una cosa che i primi cento giorni del tragico conflitto di Gaza hanno dimostrato è che esso non rimane confinato a Gaza.

Fin da subito – scrive Roberto Iannuzzi – oltre che a sud Israele è stato impegnato in scontri di crescente violenza con Hezbollah sul fronte settentrionale. Tel Aviv ha anche ripetutamente bombardato obiettivi iraniani in Siria, oltre agli aeroporti di Damasco e Aleppo.

Le basi americane in Siria e Iraq sono state prese di mira dalle locali milizie filo-iraniane con razzi e droni. Gli USA hanno risposto con rappresaglie aeree via via più aggressive, senza però riuscire a scoraggiare i propri avversari.

Più a sud, il movimento sciita yemenita di Ansar Allah (meglio noto come gli “Houthi”, dal nome del suo fondatore Hussein al-Houthi) ha letteralmente dichiarato guerra a Israele e, data la considerevole distanza che separa i due paesi, dopo alcuni lanci di missili e droni neutralizzati dalle difese israeliane, ha rivolto i propri attacchi contro il traffico navale legato a Israele nel Mar Rosso.

Per tutta risposta, dopo un ultimatum lanciato all’inizio di gennaio ma puntualmente ignorato, Stati Uniti e Gran Bretagna hanno bombardato postazioni militari degli Houthi in territorio yemenita.

Lungi dal dissuadere il movimento, queste azioni hanno suscitato ulteriori risposte armate di Ansar Allah contro obiettivi navali americani, rendendo ancor più insicuro il traffico commerciale nel Mar Rosso.

Quella in corso a Gaza non è una semplice rappresaglia, seppur violentissima, come quelle abbattutesi sulla Striscia a più riprese nel 2008-2009, nel 2012, nel 2014 e nel 2021.

L’attuale bombardamento israeliano è stato definito uno dei più distruttivi della storia, paragonabile a quelli alleati sulla Germania nazista durante il secondo conflitto mondiale. In poco più di tre mesi, esso ha causato oltre 24.000 morti, che probabilmente salgono a più di 30mila  se si tiene conto dei cadaveri tuttora non estratti dalle macerie.

Il carattere indiscriminato dell’operazione militare di Tel Aviv ha spinto esperti e organizzazioni internazionali a lanciare l’allarme su un possibile tentativo israeliano di pulizia etnica, di rendere Gaza inabitabile – e addirittura uno stato come il Sudafrica a denunciare Israele, con il sostegno di numerosi paesi, alla Corte Internazionale di Giustizia con l’accusa di “genocidio”.

Il conflitto ha un impatto politico ed emotivo dirompente sulla regione, avendo allarmato paesi confinanti come Egitto e Giordania, suscitato la condanna di potenze regionali come Turchia e Arabia Saudita, e prodotto la reazione militare già menzionata da parte dei membri del cosiddetto asse filo-iraniano nella regione.

La facilità con cui si stanno propagando le fiamme del conflitto di Gaza è conseguenza dell’estrema “infiammabilità” del tessuto mediorientale, devastato da più di un trentennio di guerre americane, che hanno distrutto interi paesi ed esacerbato rivalità e tensioni regionali.

Sostenendo l’azione bellica israeliana con un costante flusso di armamenti, condividendo apertamente l’obiettivo di Tel Aviv di eliminare Hamas, e rifiutando la prospettiva di un cessate il fuoco, l’amministrazione Biden è vista in Medio Oriente come totalmente schierata con Israele.

Tuttavia, se la Casa Bianca ha sposato gli obiettivi militari di Israele a Gaza, non vi è accordo con il governo del premier israeliano Benjamin Netanyahu sugli scenari post conflitto. Ma, soprattutto, Washington non ha interesse a un possibile allargamento delle ostilità al Libano, o addirittura all’Iran.

A una simile prospettiva possono essere interessati alcuni esponenti politici in Israele (i quali segretamente sperano di trascinare gli USA nel conflitto per regolare una volta per tutte i conti con i propri avversari regionali), o qualche lobby neocon o filo-israeliana a Washington, ma non l’establishment americano nel suo complesso.

Gli Stati Uniti avrebbero molto da perdere da una guerra regionale. Le loro basi in Siria, Iraq e nel Golfo, così come le loro navi e i loro altri interessi nella regione, sarebbero esposti al fuoco nemico, in un confronto potenzialmente incontrollabile. Gli USA non sono usciti vittoriosi dall’Iraq, difficilmente emergerebbero vincitori da una pericolosissima guerra estesa al Medio Oriente.

In passato, quando serviva a Washington, i presidenti americani hanno sempre imposto il proprio volere all’alleato israeliano. Ci riuscì Reagan nel 1982 allorché obbligò il premier Menachem Begin a ordinare un cessate il fuoco a Beirut. Fece lo stesso George H. W. Bush nel 1991 quando trattenne 10 miliardi di dollari di aiuti per convincere il primo ministro Yitzhak Shamir a fermare la costruzione degli insediamenti in Cisgiordania.

Malgrado ciò, finora Biden si è rifiutato di esercitare pressioni reali su Tel Aviv per spingerla a ridurre l’intensità dei bombardamenti a Gaza, a consentire l’ingresso degli aiuti umanitari, ad accettare il (peraltro velleitario) piano americano sul futuro assetto della Striscia, o a non esacerbare la situazione sul confine libanese.

Le azioni di “deterrenza” compiute da Washington nella regione per “contenere il conflitto” hanno dimostrato di non avere effetto. In occasione del breve cessate il fuoco di novembre per lo scambio di ostaggi a Gaza, invece, tacquero anche le armi di Hezbollah in Libano, delle milizie sciite in Siria e Iraq, e perfino le azioni degli Houthi nel Mar Rosso furono sporadiche.

In un libro intitolato “I sonnambuli”, il noto storico Christopher Clark spiegò brillantemente come le potenze europee alla vigilia della grande guerra scelsero l’opzione militare nella convinzione di poter circoscrivere il conflitto. Allo stesso modo, gli Stati Uniti stanno scivolando come sonnambuli verso una guerra su vasta scala illudendosi di poter contenere le fiamme dell’incendio di Gaza.

Soltanto spingendo Israele verso un cessate il fuoco permanente, anche attraverso l’adozione di misure concrete come la sospensione dell’invio di armi americane, Biden avrà la certezza di scongiurare un conflitto regionale.

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