Quella che esce dalla vetrata che si apre al caldo afoso di Santiago è una donna di 75 anni. Longilinea, il volto affilato come una lama, lo sguardo perso, è stanca. Si guarda intorno alla ricerca di un volto amico. Il lungo viaggio in aereo da Dallas, via Atlanta, ha messo a dura prova il suo fisico. Non è più abituata a viaggiare, i lunghi anni trascorsi nella sua casa di Fort Worth hanno lasciato il segno nella sua capacità di muoversi con disinvoltura negli aeroporti. Mentre si avvia, lentamente, trascinando il piccolo trolley arancione verso l’uscita, la vede. E’ Maria Ximena Izzo, la sua amica Reye. Era piccolina Maria, uno reyezuelo, uno scricciolo, con i capelli lunghi, neri, sempre raccolti in uno chignon come le vecchie donne Mapuche. Reye però è di origine italiana e proprio per questo è ancora qui anche lei con i suoi anni sulle spalle ma viva. L’abbraccio è silenzioso, Reye, più piccola di lei le cinge la vita, un singulto tradisce l’emozione. Suzi, Susan Portman, le bacia la fronte, odora di lavanda, di capelli da poco lavati. Non ci sono parole dopo 45 lunghi anni di separazione, non c’è domanda perché non ci sono risposte. Si tengono per mano, e insieme escono sul piazzale antistante l’aerostazione. “Bentornata a Santiago Suzi”, “Grazie Reye”.
E’ difficile riprendere il discorso interrotto da così tanto tempo. I pochi contatti epistolari non sono bastati a mantenere la familiarità di una volta. La vecchia FIAT di Reye sballonzola per le vie di Santiago in un continuo tentativo di evitare gli altri veicoli. Il traffico caotico attenta continuamente alle poche capacità di Reye, non ha mai imparato a guidare bene la macchina. Evitano il centro, percorrono la statale 70 che circonda Santiago come un lungo anello. E’ difficile ricordare, il pudore attanaglia l’animo delle due anziane donne. Ma il ricordo in un giorno come questo è un dovere.
“Andiamo a casa, così ti riposi un po’, poi facciamo una passeggiata per il quartiere se ti va, è molto cambiato vedrai”.
“Mi basterà una doccia, non vedo l’ora di rivedere la casa di Alejandro”
Un brivido freddo lungo la schiena di entrambe accompagna il nome di Alejandro Cantillana, 27 anni nel 1973, neo laureato in architettura alla Pontificia università cattolica del Cile, militante comunista, desaparecido.
“I suoi genitori non ci sono più, adesso li ci vive sua sorella Pilar con il marito”
La vettura esce dalla statale e imbocca Avenida Cardinal Raul Silva Henriquez, la via principale del barrio La Granja. Suzi ha un sussulto, per la prima volta vede qualcosa di familiare. Un negozio di alimentari ancora lì dopo tanti anni, un’edicola. Frammenti di una vita lontana nel tempo e nella storia. Reye svolta a sinistra su Tome, poi dopo qualche centinaio di metri a destra imbocca El Quisco, sono arrivate. Qui le case sono modeste, alcune poco più di baracche. Bandoni di latta come tetto, porte e finestre fatiscenti. La casa di Reye è una delle poche con un portoncino e due finestre ben curate, la facciata dipinta di un rosa tenue, il tetto di tegole. Non è la stessa di quando Suzi viveva a Santiago con lei. Quella fu demolita per far spazio ad una serie di edifici pubblici durante una delle ristrutturazioni della città. Le fu dato un risarcimento con il quale Reye acquistò la casa dove attualmente vive.
La casa della famiglia di Alejandro non è molto lontana da dove vive Reye. Le due donne si avviano a piedi. Le strade del barrio hanno poco dell’atmosfera vibrante degli anni ’70. Dove prima c’era vita, agitazione, entusiasmo adesso c’è un clima mesto, rassegnato. La gente cammina a testa bassa, davanti ai pochi bar nessuno che si intrattiene in chiacchiere. Non più i capannelli di uomini e donne infervorati in infinite discussioni politiche, non c’è più nulla di tutta quella vita, è rimasto solo un ricordo. Percorrendo quelle poche centinaia di metri Suzi rivive come in un film i due anni trascorsi a Santiago. Figlia di un ingegnere americano, la famiglia si trasferisce in Cile per seguire lo sviluppo di progetti per conto di una ditta americana.
Basta poco a Suzi per incontrare lo sguardo vivace di Alejandro ed innamorarsene. Lei figlia di quegli yankee tanto odiati lui studente universitario fresco di laurea, comunista. Le immagini si sovrappongono una all’altra, i ricordi sono pieni di rumori, musica, sguardi. Il sogno di una società più libera e più giusta li accomuna comunque, indipendentemente dalle loro origini. Dal novembre del 1970 era presidente del Cile Salvador Guillermo Allende Gossens a capo di un governo formato da una coalizione di sinistra.
Il Cile, uno dei Paesi sudamericani con la più forte tradizione democratica sente di essere il luogo ideale di un esperimento politico di proporzioni storiche. Gli esiti di questa stagione politica possono cambiare la storia del mondo. Tutto questo eccita gli animi dei giovani cileni. Suzi viene travolta dalla passione politica di Alejandro, ne è affascinata, ama il suo uomo e con lui le sue idee. E’ un amore contrastato dalla famiglia di lei che sente il peso della contraddizione di avere in famiglia un padre espressione della forza economica e politica nordamericana e la figlia fidanzata con un rivoluzionario comunista. Suzi non si lascia condizionare dall’opposizione dei genitori e si dà completamente ad Alejandro.
Susi e Reye camminano lungo il giardino di Combarbalà. Li ci sono le panchine dove Susi e Alejandro si fermavano spesso a chiacchierare prima di tornare a casa. Suzi le osserva mentre un irrefrenabile magone l’attanaglia. Reye se ne accorge e la abbraccia.
“E’ tutto apposto, è normale che sia così, noi ci abitiamo qui, i nostri ricordi li viviamo tutti i giorni per te è diverso, non è facile”
Svoltano su Inca de oro e Suzi rallenta, davanti a sé si apre la strada dove ha vissuto Alejandro. Una serie di edifici a 2 o 3 piani in mattoni rossi. Lì davanti tra un albero e una macchina posteggiata, si intravede il portone di ingresso di casa Cantillana. L’incontro con Pilar è struggente. Si fermano sul portone, si abbracciano senza dire nulla, le lacrime bagnano i loro volti. La casa non è cambiata molto, sono stati sostituiti i mobili e le imposte, ma tutto sembra essere rimasto come allora. Le tre amiche trascorrono un lungo pomeriggio ricordando, rievocando, sciogliendo emozioni e sentimenti in un fiume di parole. Suzi deve farsi coraggio, ha qualcosa da dire, da comunicare. Prende una fotografia dalla borsa e la porge a Pilar.
“Ma questo è Alejandro, come può essere…”
Poi tace, una mano sulla bocca, di nuovo le lacrime riempiono gli occhi di entrambe. Reye ancora non capisce, guarda le amiche con sgomento.
“E’ Manuel, il figlio di Alejandro”
Quando il 20 settembre 1973 Alejandro accompagna Suzi all’aeroporto nessuno dei due sa che lei è incinta. Suzi lo scoprirà una volta tornata negli Stati Uniti, convinta da Alejandro a seguire i genitori. Si sarebbero rivisti presto le diceva, avrebbe chiesto un visto per uscire dal Cile, l’avrebbe raggiunta. Fu l’ultima volta che lo vide.
Qualche giorno prima, l’11 settembre il Cile si era svegliato con il rombo dei caccia militari che andavano a bombardare il loro stesso palazzo presidenziale, la Moneda. Era la fine del governo democratico di Salvador Allende e l’inizio di una dittatura violenta e sanguinaria, destinata a durare fino al fatidico 1989. I notiziari di tutto il mondo si riempirono delle foto di un generale Augusto Pinochet che dietro i suoi occhiali scuri tradiva il giuramento fatto solo pochi mesi prima al suo legittimo presidente.
Le “operazioni”, così le definirono i militari golpisti, durarono poco. Solo una piccola parte delle forze armate era rimasta fedele alle istituzioni democratiche. Allende perse la vita durante l’assalto alla Moneda. Prima di morire fu fotografato con l’elmetto in testa e un kalashnikov, un regalo di Fidel Castro, tra le braccia. Nel pomeriggio iniziarono i rastrellamenti. Decine di migliaia di persone vennero arrestate e chiuse sulle gradinate dello stadio di Santiago, in attesa di essere portate negli spogliatoi e nei salottini per essere “interrogate”. Non tutti ne uscivano vivi. Le urla dei torturati si sentirono quella notte per le strade. Per la maggior parte si sarebbero aperte, a tempo indeterminato, le porte delle carceri: ancora torture, ancora violenze, ancora sparizioni nel nulla.
Alejandro si nascose in casa di un suo professore dell’università. Da li fece sapere a Suzi che avrebbe fatto in modo di rivederla prima che lei partisse. Suzi era disperata, temeva che non lo avrebbe più rivisto ma non fu così. Il giorno della partenza Alejandro riuscì a farle recapitare un biglietto nel quale le diceva che l’avrebbe aspettata in aeroporto dandole indicazione di dove avrebbe dovuto recarsi. L’incontro fu struggente, entrambi sapevano quanto la situazione fosse grave, quanto rischioso fosse per Alejandro continuare a rimanere a Santiago. Ma non c’erano alternative, lei doveva prendere quell’aereo e sperare che lui riuscisse a scappare dal Cile e raggiungerla. Fu l’ultima volta che si videro. Alejandro fu arrestato qualche giorno dopo mentre cercava di uscire da Santiago a bordo di un bus di linea. Il pullman fu fermato da una pattuglia di militari, tutti i passeggeri furono fatti scendere, i più giovani furono trasferiti con delle jeep a Villa Baviera nota anche come Colonia Dignidad, un villaggio cileno posto 35 km a sud-est di Parral, Provincia di Linares, nella regione del Maule, sulla sponda settentrionale del fiume Perquilauquén. Da quel momento di Alejandro Cantillana non se ne seppe più niente, nulla più di un nome nell’infinito elenco dei desaparecidos.
Anche Reye fu costretta a scappare ma il suo nome la salvò: Maria Ximena Izzo. In particolar modo quell’ultimo “Izzo”, le sue chiare origini italiane. Rimase due giorni chiusa in una soffitta nel centro di Santiago, nel palazzo signorile dove lavorava sua madre come domestica. Era la casa di un politico conservatore, li sicuramente non avrebbero cercato fuggiaschi. La madre continuava a svolgere i suoi compiti nei piani sottostanti ignorando che la soffitta nascondeva la figlia. In effetti la madre di Reye non sospettava neppure che lei fosse implicata in qualche modo nell’attività politica del Partito Comunista del Cile di Pablo Neruda. Dopo 48 ore di totale isolamento e completamente senza viveri, né cibo né acqua, Reye non poteva più restare lì. Approfittando della calma mattutina quando in casa rimaneva solo sua madre, scese al piano di sotto e si avviò verso la cucina.
“Santoddio da dove esci fuori tu?”
“Zitta ma’ devo scappare, siamo ricercati, tutti, io Alejandro, Marzio, Eugenia, tutti”
Reye spiegò tutto alla madre. Il suo impegno politico nel partito, i rischi che adesso avrebbe corso se fosse tornata a casa. Concordarono di andare all’Ambasciata italiana.
“Tuo padre è italiano, li qualcosa potranno fare”
Quella sera uscì all’imbrunire dalla casa del senatore Eduardo Montalva e si diresse verso Calle Clemente Fabres 1050 a Providencia dove c’era l’Ambasciata italiana.
In quell’orgia di sangue che fu il Cile di Pinochet, un uomo rimasto lontano dai riflettori, Tomaso De Vergottini, fu la salvezza di centinaia di cileni. Era finito in Cile per un caso, a fare l’incaricato d’affari dell’ambasciata italiana di Santiago. Un incarico pro tempore, sembrava. Gli eventi lo costrinsero a restare. E, soprattutto, a fare qualcosa di importante. L’ambasciata italiana a Santiago ha un enorme giardino, circondato da un alto muro. La gente, la notte stessa del golpe, iniziò a scappare dai rastrellamenti arrampicandosi sopra, e saltando giù, verso la salvezza garantita dell’extraterritorialità. Maria Ximena Izzo, Reye per gli amici, fu una di quelle persone. De Vergottini avrebbe potuto rimandarli indietro, nel nome della neutralità che ogni sede diplomatica deve mantenere. Ma questo significava mandare al macello degli esseri umani. Lui scelse le ragioni della civiltà. Per un anno accolse quegli esiliati nella loro stessa patria, dandogli da mangiare e da dormire. Con i militari che stringevano letteralmente d’assedio il comprensorio, ed arrivarono a buttar dentro il giardino, come un sacco di stracci, il cadavere di una ragazza torturata da loro per avere la scusa di intervenire poi in barba alla extraterritorialità. De Vergottini tenne duro, e in quella sorta di Hotel Rwanda che era divenuto l’ambasciata, ci furono uomini e donne che, invece di trovarsi tra i desaparecidos, finirono per essere tra i salvati.
Il lungo pomeriggio si protrasse fino a sera inoltrata e poi ancora fino all’alba in un lungo dolente scambio di ricordi, emozioni, storie. Le tre amiche rievocarono episodi più o meno belli. Suzi racconta del figlio, suo e di
Alejandro, quel figlio così uguale al padre da ingannare zia Pilar. L’alba le sorprese sonnecchianti sul divano e le poltrone del salotto di casa Cantillana. E’ l’alba dell’11 settembre, anniversario del colpo di stato di Pinochet. Quella mattina in Plaza de la Constitution ci sarebbe stata la commemorazione di quell’evento. Suzi, Reye e Pilar avevano solo il tempo di fare colazione ed avviarsi verso il luogo di ritrovo.
“Ho fede nel Cile e nel suo destino”, è la scritta che si può leggere sul monumento a Salvador Allende di fronte al palazzo del governo di Santiago del Cile. Queste furono le ultime parole del presidente Allende alla nazione cilena, prima che i militari l’11 settembre 1973 bombardassero la Moneda portando al potere il generale Augusto Pinochet e provocando la morte del presidente eletto, in circostanze tuttora poco chiare.
Man mano che Suzi, Reye e Pilar si avvicinavano alla piazza la folla si faceva più compatta, una moltitudine di persone di tutte le età si avviava silente verso il luogo della cerimonia. Suzi a stento riusciva a respirare attanagliata com’era dall’emozione. Si teneva stretta a Reye, aggrappata al braccio dell’amica si faceva quasi trascinare da lei. Percorsero Morandè ma già davanti al Centro culturale de la Moneda era difficile andare avanti, la folla si era compattata. Le tre amiche, in fila indiana con Suzi al centro, si fecero largo e, non senza difficoltà, arrivarono all’angolo con il Parco comunale di Plaza de la Constitucion. Da quel punto potevano vedere il monumento ad Allende e il palco eretto per la commemorazione.
È difficile oggi poter immaginare quel giorno: il palazzo in fiamme, i corpi allineati nelle strade, i carri armati. Sono passati 50 anni dalla data fatidica, e le parole del defunto presidente riecheggiano in Plaza de la Constituciòn attraverso altoparlanti di fortuna. “È qui con noi”, sussurra commosso un vecchietto e Suzi non può trattenere le lacrime. “E’ qui con noi” sussurra anche lei ma pensa al suo Alejandro. Guardandosi intorno la sensazione è quella di ritrovarsi a un funerale: in molti portano gli occhiali da sole nonostante il cielo grigio, e numerose corone di rose rosse ricoprono il monumento. Alcuni studenti suonano un valzer della memoria invitando i presenti a ballare con loro: hanno il viso pitturato di bianco e solcato da una lacrima nera. Nonostante la piazza sia transennata e controllata da un cordone di polizia, lo spazio residuo è più che sufficiente a contenere tutti i manifestanti “la gente ha ancora paura di scendere in strada in questa ricorrenza”, spiega Carlos, studente di sociologia alla Universidad de Chile “il rischio di ritrovarsi arrestati o picchiati dalla polizia senza motivo è alto”.
“Anni di silenzio e di mancato dibattito pubblico non hanno fatto altro che radicalizzare i toni e polarizzare lo scontro politico”, conferma un altro studente.
Intanto, sul palco ai piedi della statua, rappresentanti politici e della società civile prendono la parola. Ci sono le madri dei desaparecidos che ancora chiedono giustizia, mostrano le foto sbiadite dei loro cari aggrappandosi a un ricordo questo invece limpido e dolente. Ci sono i minatori con casco e tuta da lavoro che denunciano e reclamano una degna sepoltura per i colleghi tuttora dispersi “Dove sono i nostri compagni? Generali traditori dite la verità!” urlano. L’emozione che trasuda da quelle parole è tanta e testimonia anni di dolore.
“Questo è il risultato di anni di silenzio istituzionale”, dice la signora Ana, parente di un desaparecido: “Per oltre 20 anni i vari governi hanno avuto la possibilità di fare chiarezza ed incarcerare i responsabili delle nefandezze della dittatura, ma la politica ha impedito che la verità venisse a galla, e ora in molti cercano di riciclarsi fingendo di essere innocenti”. Dalla strada principale arriva un piccolo corteo in rappresentanza del partito socialista cileno: un ragazzino guida il gruppo sventolando due bandiere cilene accompagnato da canti inneggianti al defunto presidente. Sale il canto dell’inno socialista l’Internazionale. Pugni chiusi accompagnano l’arrivo del corteo. Suzi l’americana alza il pugno, intona il canto che riunisce i lavoratori di tutto il mondo. In alto il pugno, in alto i cuori, per Alejandro e per tutti gli altri uccisi, torturati o scomparsi.
Qualche minuto dopo la famiglia Allende entra nella piazza e guadagna il palco accompagnata da abbracci di condoglianze ed applausi. Isabelita, come chiamano tutti affettuosamente la vice presidente del Partito Socialista, sorregge la figlia visibilmente commossa e provata. Il silenzio è già calato sulla folla e Isabel prende la parola:
“Con molta emozione oggi ricordiamo Salvador Allende, un uomo degno, un lottatore sociale che per più di 50 anni ripose nel Cile speranze e sogni. Ci insegnò che era necessario fare profondi cambiamenti sociali, che era necessaria una società diversa (…) e vogliamo dirgli con orgoglio che oggi è un referente universale. Un pensiero va anche ai giovani che manifestano ormai da 2 anni contro i costi proibitivi dell’istruzione: “Salvador Allende sarebbe stato più che orgoglioso nel vedere i giovani manifestare nelle strade per un’istruzione di qualità e gratuita!”.
Poi ringrazia anche tutti coloro che hanno lottato in questi anni per la verità e la giustizia, i parenti delle vittime e gli avvocati difensori dei diritti umani: “A loro voglio dire che solo attraverso la verità e la giustizia potremo ritrovarci come Paese, e con questi valori etici potremo far sì che mai più si distrugga la democrazia, mai più ci sia un colpo di stato e che mai più si possa rovesciare l’ordine costituzionale”.
Un applauso chiude il discorso e la famiglia Allende se ne va inseguita da un nugolo di giornalisti e sostenitori. La cerimonia si conclude di lì a poco ma il pellegrinaggio presso la statua continua fino a sera.
Lentamente, mentre l’emozione si scioglie nel petto, le tre amiche si allontanano. Sono sfinite dalla notte passata a ricordare, a raccontarsi le loro vite e dall’emozione provata durante la commemorazione. Suzi tornerà in Texas alla sua vita di sempre. Ad attenderla ci sarà suo figlio, il figlio di Alejandro che non sa di suo padre, non conosce la sua storia. Durante il volo di ritorno Suzi prende la decisione di raccontare tutto a Manuel. E’ giusto così, glie lo deve e lo deve anche alla memoria di Alejandro.