Editoriale

“Aiutate i vostri allievi a diventare esseri umani”

Il 15 febbraio 2003 una massa di persone quante non se erano mai viste prima (si calcolò 110 milioni) manifestò in tutto il mondo per la pace. Furono in tutto 603 le grandi città che aderirono. Questo corpo informe di uomini e donne che possiamo propriamente definire soggetto a se stante, come un unico individuo sociale, avrebbe potuto contare se solo avesse preso coscienza della sua devastante forza. Ma così non è stato. Quello che il New York Times, il 16 febbraio 2003, definì come una delle  “due superpotenze sul pianeta: gli Stati Uniti e l’opinione pubblica mondiale”, è scomparso lasciando all’altro attore di questa tragedia il compito di condurci all’epilogo.

E’ venuto il momento di ripensare alla storia di questo movimento e di riprenderne l’eredità a cominciare dal raccontarla alle nuove generazioni perché la faccia propria. Si è detto che il movimento per la pace fosse un movimento con grandi ideali ma con poca forza, con poco impatto sulla politica mondiale. Dobbiamo cominciare, o ricominciare per meglio dire, dallo scuotere le coscienze, dal combattere l’indifferenza.

Hannah Arendt in La banalità del male ci lascia una testimonianza straordinaria sulla quale riflettere:

“Le peggiori atrocità possono scaturire da ciò che è apparentemente innocuo, dalla “normale” passività che può caratterizzare la vita quotidiana di milioni di individui nella società di massa: la triste verità è che il male è compiuto il più delle volte da coloro che non hanno deciso di essere o agire né per il male né per il bene”.

E’ proprio questa passività che dovremmo combattere. E’ ora il tempo delle scelte di campo, dell’uscire dall’ombra.

C’è un luogo e un tempo per tutto. C’è il luogo ed il tempo perfetti per educare alla pace; la scuola. Se non qui dove, se non da giovani quando. Il preside di una scuola americana ogni inizio di anno scriveva questa lettera ai suoi professori:

“Caro professore, sono un sopravvissuto di un campo di concentramento. I miei occhi hanno visto ciò che nessun essere umano dovrebbe mai vedere: camere a gas costruite da ingegneri istruiti, bambini uccisi con veleno da medici ben formati, lattanti uccisi da infermiere provette, donne e bambini uccisi e bruciati da diplomati di scuole superiori e università. Diffido – quindi – dell’educazione. La mia richiesta è: aiutate i vostri allievi a diventare esseri umani. I vostri sforzi non devono mai produrre dei mostri educati, degli psicopatici qualificati, degli Eichmann istruiti. La lettura, la scrittura, l’aritmetica non sono importanti se non servono a rendere i nostri figli più umani”.

Mi ricorda l’esortazione di Vittorio Arrigoni: “Restiamo umani”. Ed è proprio su questa esortazione all’umanità senza la quale ogni scienza è inutile che dovremmo riflettere. E forse proprio da qui dovremmo cominciare a raccontare la pace, dagli aspetti umani, positivi. Ai ragazzi dobbiamo far vedere esempi di persone che questa scelta (essere/rimanere umani e prendere posizione) l’hanno fatta anche a scapito della propria vita.

“Beato quel popolo che non ha bisogno di eroi”, questa frase attribuita a Bertold Brecht (in realtà lui la fa dire al suo “Galileo”, “Sventurato quel popolo che ha bisogno di eroi”), ha da sempre avuto una grande fortuna ed è stata citata da chiunque, a ragione ma anche a sproposito. Io non amo la retorica del cavaliere senza macchia e senza paura. Ma qualche volta le figure che potremmo definire eroiche servono a far comprendere dove può arrivare la passione, la volontà di lotta e di affermazione del diritto e della giustizia.

E’ il caso di Thomas Sankara, politico africano troppo presto dimenticato ma che può e anzi deve essere portato ad esempio di come una politica diversa sia possibile anche in un continente come quello africano dove tutti gli sforzi per l’affermazione della democrazia sembrano fallire. E fallì anche lui, Thomas Sankara, presidente del Burkina Faso (“il paese degli uomini onesti”) come lo chiamò cambiandogli nome da Alto Volta che era. Ma lasciò un segno indelebile nella storia del continente.

Thomas Sankara è uno di quei personaggi di cui pochi, oggi, conoscono l’esistenza. La sua breve esperienza alla guida del   Burkina Faso, rappresentò per molti africani una speranza. Essi intravidero nel giovane statista non solo un leader carismatico ma anche un uomo pragmatico, capace di tradurre aspettative comuni e richieste di giustizia in realtà concrete. Lottò per il progresso e l’indipendenza del suo paese e dei suoi abitanti in contrapposizione agli interessi neocolonialisti delle potenze straniere (in primis la Francia) e alla sfrenata corruzione della classe politica africana.

Thomas Sankara è stato presidente del Burkina Faso per soli quattro anni. Pur avendo preso il potere nell’agosto 1983 con un colpo di stato (ma senza spargimento di sangue) come nella tradizione dell’Africa, la sua fu una rivoluzione senza violenza, fatta di coraggio e speranza. Fu un preculsore della globalizzazione ma della globalizzazione della solidarietà non quella del denaro. Imboccò una via autonoma di sviluppo che fu osteggiata sistematicamente dalla Banca Mondiale e Fondo Monetario Internazionale

Mentre i suoi omologhi si trinceravano in lussuose ville o agli ultimi piani dei migliori hotel, lontani dai bisogni quotidiani della popolazione, Sankara aveva scelto di vivere in una casa come tante altre nella capitale Ouagadougou. Nella sua iniziativa economica decise di risollevare il Paese facendo leva sull’economia locale destinando le magre risorse per mandare a scuola i bambini e le bambine (nel 1983 la frequenza scolastica era solo il 15%) e per fornire cure mediche, organizzando campagne di vaccinazione capillare contro la febbre gialla, il colera e il morbillo.

“Parlo in nome delle madri che nei nostri Paesi impoveriti vedono i propri figli morire di malaria o di diarrea, senza sapere dei semplici mezzi che la scienza delle multinazionali non offre loro, preferendo investire nei laboratori cosmetici o nella chirurgia plastica a beneficio del capriccio di pochi uomini e donne il cui fascino è minacciato dagli eccessi di assunzione calorica nei loro pasti, così abbondanti e regolari da dare le vertigini a noi del Sahel”.

Una delle battaglie più importanti portate avanti da Sankara fu quella per la cancellazione del debito. “Noi siamo estranei alla creazione di questo debito e dunque non dobbiamo pagarlo. […] Il debito nella sua forma attuale è una riconquista coloniale organizzata con perizia. […] Se noi non paghiamo, i prestatori di capitali non moriranno, ne siamo sicuri; se invece paghiamo, saremo noi a morire, possiamo esserne altrettanto certi”.

Aveva ben presente quale fosse la vera battaglia da combattere e vincere per gli africani: “Per l’imperialismo è più importante dominarci culturalmente che militarmente. La dominazione culturale è la più flessibile, la più efficace, la meno costosa. Il nostro compito consiste nel decolonizzare la nostra mentalità”.

Secondo lui, la politica aveva senso solo se era onesta ed aveva, come suo primo e fondante obiettivo, la felicità del popolo. Affermò, con il proprio esempio personale, che la politica era servizio, non potere o arricchimento personale. Sostenne le ragioni degli ultimi, dei diversi e delle donne. Denunciò lo strapotere criminale della grande finanza. Denunciò le regole di un mondo fondato su di una competitività che punisce sempre gli umili e chi lavora, e che arricchisce sempre i burattinai di questo immenso business. Si fece paladino di tutte le donne e tutti gli uomini che potevano solo guardare la vita dei pochi ricchi e lottare per sopravvivere. Lo uccisero all’età di 38 anni il 15 ottobre 1987. Quello che è peggio è che tentarono di cancellarne ogni memoria. Se oggi pochi sono quelli che ricordano quello che fu definito il Che Guevara dell’Africa evidentemente ci sono riusciti.

Io credo che esempi come quello di Thomas Sankara aiutino più di qualsiasi altra cosa a indicare un percorso, una via verso lo sviluppo che sia davvero per tutti. Pur nella sconfitta sono proprio uomini come lui che ci lasciano la testimonianza che un altro mondo è possibile. E’ su questo che dobbiamo far riflettere le nuove generazioni perché, come diceva Don Milani bisogna “Avere il coraggio di dire ai giovani che essi sono tutti sovrani, per cui l’obbedienza non è ormai più una virtù, ma la più subdola delle tentazioni, che non credano di potersene far scudo né davanti agli uomini né a Dio, che bisogna che si sentano ognuno l’unico responsabile di tutto.”

Racconta Carlo Batà

Il 15 ottobre 1987 Sankara, che a dicembre avrebbe compiuto 38 anni, veniva ucciso: troppo scomodo, troppo generoso, troppo attento alle esigenze della povera gente.

Insieme a Leopold Sedar Senghor  e a Nelson Mandela ci lascia l’immagine migliore dell’Africa, fatta di speranza, di impegno umano e di pace.

Roberto Pergameno

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