Lorsignori

Delle potenze intellettuali. E dei loro mortai

Poco prima dell’ultimo congresso del Pd l’ineffabile chiaroveggente Paolo Mieli ci aveva a un certo punto preavvertiti dell’andazzo che avrebbero preso le sinistre (si fa per dire) di governo di questo Paese.

Era infatti uscita un’intervista in cui aveva, senza ombra di ironia, affermato che la progressione verso la segreteria del partito di Elly Schlein avrebbe saputo parlare a una “parte vegana della società” [sic!]. Ne nacque in effetti un bel fenomeno collettivo per cui, a dispetto di un responso degli iscritti del partito favorevole a Bonaccini, un’operazione di banchetti in strada, in verità in poderoso calo di affluenza ma raccontata con l’enfasi della Lunga Marcia, chiedendo un parere un po’ a chi passava per via senza aver nulla di meglio da fare, avrebbe messo un pezzetto di giovane borghesia ticinese alle vette del Nazzareno.

Non sappiamo se si siano uniti, come i lavoratori de “Il Manifesto” di Marx, i vegani di tutto il mondo, ma sappiamo che la partita è si effettivamente volta a loro favore o, per meglio dire, a favore di quella parte di loro che avrebbe potuto nutrire un interesse per la faccenda.

Ci si è trovati, in tal modo, in epoca di veganesimo intellettuale in cui, invece di limitarsi a non mangiare prodotti derivati da animali, cosa per cui nutriamo, di per sé, assoluto rispetto, si è deciso di non mangiare neppure prodotti concettuali. Ma perché poi prodotti? Diremmo che si è giunti a una santa anoressia  di presupposti logici, quali il principio di non contraddizione, o funzioni psicologiche fondamentali, quali l’esame di realtà, presupposti e predisposti, in genere, all’articolazione di concetti intelligibili.

Un bell’esempio di questa evoluzione ce l’ha subito dato una dichiarazione di apertura del nuovo lavoro di segreteria, riportata niente meno che da Il Sole 24 Ore: “bene le critiche ma serve lealtà sui temi”. Ora, poiché in termini generali una critica riguarda un tema, delle due l’una: o la critica prelude a una discussione che consente di sviluppare il tema, oppure non è critica, nel senso che è una critica vuota, formale, senza orizzonte e senza obiettivo. Insomma: o si è liberi di criticare o si ha il dovere di restare fedeli; diciamo che, a spanne, funziona più o meno così.

Eppure è proprio sul regno del formalismo vuoto che si è svolto un bel pezzo di questa vicenda politica. Ad esempio sulla guerra in Ucraina, in merito alla quale, sostenendo il valore supremo delle Pace, il nuovo corso democratico si è al contempo speso per l’invio di armi al governo di Kiev come se la presenza di armi potesse essere al contempo un modo per aumentare le aspettative di soluzione diplomatica. “Sai come ti dimostro che sono contro la guerra? Ti invio contro un bel po’ di cannoni, così costruiamo la pace!” La costruiamo a cannonate, ma veganamente, si intende: forse con cannoni di tofu. Il tutto precisando, ovviamente, che “va fatto uno sforzo diplomatico”. Come? Dove? Su quali basi di trattativa? Mentre si inviano cannoni? Non è spiegato, non è dato sapere, e forse appare terribilmente irritante da chiedere, perché rovina la leggerezza, l’entusiasmo e lo spirito di gruppo.

Un’altra prova della storia la si sarebbe dovuta avere con la tragedia di Gaza. No, diciamolo meglio: con la guerra coloniale e con il genocidio di Gaza. Anche qui la nuova segreteria, nel sostenere di essere “con Israele e Palestina” sulla vicenda, probabilmente intesi come nomi collettivi astratti e non come entità politiche reali e realmente in conflitto, aveva inaugurato una nuova linea sul filo di una molteplicità logicamente agnostica, per così dire.

La soluzione del problema non è, infatti, il ripristino di una legalità internazionale, anche attraverso le azioni sanzionatorie più volte invocate (e sempre disattese, vuoi per veto americano e vuoi per connivenza internazionale) dalla comunità internazionale verso i governi di Tel Aviv: no è il contemporaneo riconoscimento del diritto di Israele a difendersi con le armi da azioni ostili sul suo territorio scambiando una popolazione intera – i palestinesi- con un attore politico –Hamas- ma di farlo, ecco, diciamo… un po’ meno, via, posto che lo stesso diritto alla difesa non sia invece riconosciuto alla popolazione palestinese. Che poi, infatti, lo stesso diritto al ricorso alla forza non sia inspiegabilmente, una volta accettata la logica della forza stessa, riconosciuto ai palestinesi [fu forse Bettino Craxi uno degli ultimi ad avere il coraggio di parlare di questa scontata simmetria in Parlamento, ndr] e che un eventuale cessate il fuoco per costruire un corridoio umanitario in assenza di una nuova legalità internazionale si tradurrebbe automaticamente nell’ennesimo esodo palestinese, beh questo non importa troppo. Perché importa poco l’esame di realtà, evidentemente; o comunque disturba la narrazione.

Bisogna mantenersi a quel livello di superficialità di analisi in cui produrre tutta la forza dialettica del “Ni” e del “ma anche”. Perché così non ci si rovina la merenda -rigorosamente vegetale- nella percezione delle contraddizioni della storia, della realtà, del pensiero.

Nel frattempo in Donbas si muore, a Gaza si muore, mentre Finmeccanica, Rheinmetal, Dassault e altri colossi militar-tecnologici di questa splendida Europa di larghe intese democratiche (non criticabile e intoccabile quasi quanto un Paolo Mieli) fanno ottimi affari sul riarmo per timore dei cosacchi.

Ma la critica si ferma al “Ni!” e, forse davvero aveva ragione la Schlein e torto noi, è una critica tutta interna a un paradigma di lealtà: il “bene le critiche ma serve lealtà sui temi” di cui abbiamo parlato sopra non è la sciocchezza che sembra, bensì l’assioma di una dottrina politica che si sta, in fin dei conti, svolgendo nei fatti.

Perché la critica non dice che la crisi russo-ucraina si inserisce tutta nella retroazione a un unipolarismo incauto durato dalla caduta dello stato Sovietico a qualche manciata di mesi orsono; la critica non dice neppure che a Gaza si compie una guerra coloniale di sostituzione etnica che trova nella strage del 7 ottobre il mero casus belli. La critica non propone neppure una strategia alternativa all’invio di armi sul fronte russo-ucraino, la critica non richiede neppure il ripristino della legalità internazionale che Israele aggira dal 1948. No, la critica viene dopo: nello spazio residuo che resta una volta confermata la lealtà assoluta all’atlantismo monopolare di Biden, all’ordoliberismo europeo, alle malcelate mire post-coloniali dell’occidente tutto, ai suoi addentellati con la classe dirigente israeliana in quanto longa manus della stabilità americana in medio oriente e via discorrendo. A valle di questa lealtà resta lo spazio per la critica fatta di poderose e coraggiose affermazioni quali “la pace è più bella della guerra”, “serve uno sforzo diplomatico” e via disimpegnandosi; è la reductio ad nihilum delle ragioni del conflitto, che si immagina forse che nasca per autocombustione e si spenga per un acquazzone. Senza toccare le ragioni, a contraddizioni invarianti, perché, in fin dei conti, si è capito che su quelle contraddizioni, quelle vere, non si possono “mettere le mani”. A questo serve forse il nuovo corso dei fanciullini della politica: a prendere tempo verso la storia attraverso una grande stagione della disinvoltura.

In un modo o nell’altro la critica alla violenza diventa critica di linguaggio perché non può essere critica di strutture economiche, sociali, di rapporti di forza: sicché si prende qualche vecchio intellettuale che usa parole troppo aggressive e, tolte le mani dalla realtà, le si affonda con vigore virile nella sua canizie per combattere un’indignata battaglia contro il nemico di cartapesta delle parole.

Ed è così che il nuovo corso democratico è diventato la perfetta autorappresentazione di quella borghesia di progresso, in fin dei conti incolta –se intendiamo la cultura in senso gramsciano- e pavida e indolente –in qualunque modo intendiamo il termine-, che anima le ZTL delle città italiane e che sembra preoccupata non tanto della dimensione concreta, strutturale, della violenza nella nostra società globale e delle sue spaventose e poderose ragioni abilitanti, quanto del rumore, della quota di cattivo gusto, che produce al contorno.

Si rappresenta nella politica il disagio emotivo, diciamo così, di una parte, demograficamente in restrizione per via delle ripetute crisi economiche, della società che non vorrebbe essere turbata dalle cattive immagini della guerra, della violenza, dell’ingiustizia sociale, ma che non vuole neppure di certo prendere parte attiva nelle contraddizioni che le determinano. Vuole sognare un mondo buono di cui sentirsi parte. Questa esigenza, tutta psicologica, si rileva e si rivela benissimo nella progressiva irrilevanza politica, ché la politica che si occupa delle dinamiche strutturali della realtà è arte dura, sporca di conflitto, inevitabilmente divisiva (perché divisi de facto sono gli interessi e le forze materiali in campo), animata di scontro e impegolata di contraddizione.

Ed è qui, nella riduzione a niente della contraddizione, di cui parlavamo, che si produce una teoria più estetica che etica dell’agire politico: è qui che occorre spendere le proprie “potenze intellettuali”.

Tra queste si produce in un virtuosismo a Piazza del Popolo la scrittrice Chiara Valerio che, in difesa del diritto-dovere di criticare e giudicare nel modo più innocuo possibile, auspica un mondo in cui si parli di politica come si parla della pasta aglio, olio e peperoncino [sic!], tra una folla democratica plaudente perché in questo ideale pantofolato, o per meglio dire impiattato, in fin dei conti si riconosce, e se ne sente perciò legittimato, se non addirittura liberato. Finalmente lo si è detto: ora applaudiamo!

Si tratta di una di quelle strategie comunicative che piacerebbero tanto agli esperti di marketing, public speaking e tutte le altre forme di confettatura del niente che vanno molto di moda: si parte dall’esempio facile e accattivante del “cibo tipico” [ah quali feste omeriche ci piacerebbe celebrare il giorno che qualcuno scriverà una poderosa contro-storia di questa infestante stronzata del rapporto cultural-spirituale degli italiani con il mangiare!], perché si cerca una rapida, leggera, identificazione e lo si utilizza come modello culturale.

La conclusione è un manifesto: “Se parlassimo di diritti civili, politici, climatici come parliamo di cibo saremmo un’utopia realizzata o, almeno, la democrazia”. Tra i diritti mancano quelli sociali e del lavoro, ma sarà un caso. In ogni caso la piazza applaude.

Ci piacerebbe perdere un po’ di tempo a spiegare che di diritti non si può, e in verità non si dovrebbe, parlare come si parla di cibo –di cui in questo Paese si parla per altro decisamente troppo- per un motivo sostanziale: e cioè che l’esistenza o la negazione di quei diritti impatta, a differenza degli spaghetti, in modo drammatico sull’esistenza di intere coltri di esseri umani, specialmente quelle meno protette e capaci di autorappresentarsi, che magari non erano a Piazza del Popolo, ma che sono nelle periferie degradate della nostra società, nei luoghi di lavoro precario o di assenza di lavoro, nelle capitali dell’ammassamento e dello sfruttamento umano oppure, se si vuole semplificare e restare in una gastro-analogia, nella quotidianità di quella nettissima maggioranza di esseri umani che abitano il mondo e che si ammala di effetti della malnutrizione per permettere a una ristretta minoranza di ammalarsi di effetti delle sovralimentazione e del cibo come oggetto di consumo e rappresentazione di status sociale.

No, il mondo dei diritti non è il mondo della pasta aglio, olio e peperoncino e ci raccapriccia che non raccapricci l’idea, perché c’è qualcosa non solo di nullificante, ma di essenzialmente repressivo, di profondamente volto alla stabilizzazione dello status quo nell’immaginare che questa pacificazione della parola e del sentimento politico sia auspicabile. Capita che il sonno filosofico del public speaker che entusiasma il pubblico con il suo espediente retorico faccia, forse involontariamente, come il sonno della ragione di Goya: generi mostri.

Il mostro, nel caso di fattispecie, è che questa dialettica pacificata che si vuole adottare a modello è la stessa dialettica interna campo della lealtà verso l’esistente su cui ragionavamo poco sopra: è la dialettica che permette di dire di essere animanti dalla volontà di proteggere i palestinesi senza prendere parte alla questione della mancata legalità internazionale della politica israeliana, che permette di invocare la pace diplomatica in Ucraina continuando a esportare armi, cannoni e mortai al fronte.

Perché poi, se la critica non è svolta fino in fondo, se non rompe lo spazio della lealtà e si svolge, appunto, come si svolgerebbe una discussione sulla pasta all’olio, incorpora accanto all’aglio e al peperoncino anche la presenza dei mortai.

Al che, a queste nuove potenze intellettuali che bramano discussioni disincarnate mentre tuonano i mortai sui fronti di guerra non possiamo che rispondere, con i magistrali Nino Taranto e Antonio De Curtis ne “I due Colonnelli”:

-“Eh… Mortai loro”

-“Eh già: li  mortai vostri… e della vostra famiglia!”

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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