Lorsignori

La figura del cinghiale bianco ovvero come ti sorprendo un colonialista

“Se Benito ci ha rotto le tasche tu, Badoglio, ci hai rotto i coglioni” cantava “La Badoglieide”, canzone antifascista composta, si dice, dalla quarta banda dei partigiani di Giustizia e Libertà nella notte tra il 25 e il 26 aprile del 1944. Lo stesso spirito deve fortunatamente aleggiare in questi mesi in Africa dove, finalmente, si inizia a far presente a qualche ex buana coloniale che, rotte da tempo le tasche dei governi africani con la morsa del debito e dello sfruttamento, deve essere arrivata anche l’epoca dei coglioni.

Gira, infatti, su YouTube un interessante video del recente colloquio tra il presidente della Namibia Hage Geingob e Norbert Lammer, rappresentante della CDU –i cristiano-democratici tedeschi-, già presidente del Bundestag e, tra le varie onorificenze patrie e internazionali, anche Cavaliere di Gran Croce dell’Ordine al Merito della Repubblica Italiana.

Il video merita di essere ricercato e visto con attenzione perché Lammert si produce in un tale saggio di mentalità coloniale da diventare quasi didattico: se si vorrà spiegare a qualcuno in cosa consiste esattamente la mentalità coloniale d’ora in avanti sarà sufficiente indicargli il compassato politico cristiano-democratico.

Come incipit di una visita di cortesia –e in tal senso ci atterrisce non poco pensare cosa possa intendere un politico europeo dei nostri tempi per scortesia- il buon Norbert esordisce facendo presente al Capo di Stato della Namibia che, in primo luogo, nel Paese africano da lui governato ci sono troppi cinesi, in secondo luogo, che è ben vero che ci sono anche molti tedeschi, ma tra tedeschi e cinesi, non ci si confonda, ci sono delle chiare differenze (non meglio specificate perché, a quanto pare, per il politico teutonico esse devono essere auto-evidenti), infine che questa è una situazione che non può non destare preoccupazione e a cui bisogna, di conseguenza, porre rapidamente rimedio (forse cacciando i residenti cinesi?).

Ora, se uno venisse a casa mia a dirmi senza troppe cerimonie che devo essere ben lieto di ospitare lui ma che devo assolutamente guardarmi dall’ospitare Tizio o Caio, credo che gli indicherei piuttosto sgarbatamente la via della porta; tuttavia, siccome il Presidente Geingob è evidentemente persona più cortese e più saggia di me, si è limitato a interrompere affabilmente con un sorriso il suo interlocutore e a fargli presente alcune cosette che avrebbero dovuto metterlo in guardia circa l’inopportunità di un approccio quale quello adottato.

Per capire il senso delle precisazioni del presidente namibiano occorre forse ricordare qualche dettaglio in merito al rapporto tra Germania e Namibia e, visto che Lammert insiste, anche in merito alle effettive differenze tra tedeschi e cinesi in Namibia.

In primo luogo occorre ricordare che la Namibia fu una colonia tedesca e che, come da tradizione europea nei rapporti con l’Africa (nessuno si senta escluso!), il colonizzatore si espresse attraverso una serie di continui, giganteschi e raccapriccianti massacri: tra le principali etnie del Paese, furono massacrate l’80 per cento della popolazione Herero e circa il 50 per cento della popolazione Nama; il saccheggio, l’esproprio dei beni, la legge marziale, lo stupro, erano comunque all’ordine del giorno anche per le altre etnie non direttamente interessate da piani di sterminio sistematico. Davvero un bel ricordo, deve immaginare Lammert, per i namibiani! L’occupazione coloniale tedesca cessò fortunatamente con la fine del primo conflitto mondiale, ma ai Deutschnamibier, i tedeschi di Namibia, fu consentito di restare in condizioni di assoluto privilegio da parte dei nuovi colonizzatori: gli Afrikaner di origine olandese e gli inglesi dell’allora Unione Sudafricana.

Il dominio del Sudafrica bianco e razzista durò sotto forma di un’occupazione militare illegale in Namibia fino al 1990; in questo lungo e tormentato periodo il Paese fu retto secondo la feroce politica segregazionista dell’apartheid sudafricana: i Deutschnamibier, così come gli olandesi Afrikaner e gli inglesi godevano di pieni diritti civili e politici mentre la popolazione namibiana di colore era privata dei diritti civili e politici, costretta in comunità chiuse e povere e destinata a lavorare solo ed esclusivamente alle dipendenze delle minoranze bianche in condizioni di evidente sfruttamento. Di tale regime i tedeschi di Namibia si giovarono grandemente e lo sostennero al pari degli Afrikaner e degli inglesi.

Dopo il 1990 la Germania ha partecipato in Namibia come altrove, insieme al resto di un’Occidente non più contrastato dalla spinta anticoloniale che, piaccia o meno, l’Unione Sovietica aveva rappresentato in Africa, ai vari tentativi di influenza e di egemonia economica con i quali da secoli il nostro amato vecchio continente si mantiene ricco sulla pelle del resto del mondo; tra questi farebbe quasi tenerezza, se non facesse spavento, l’idea della Germania delle larghe intese di qualche anno fa di un “piano Marshall per l’Africa”.

L’iniziativa, propagandata come “atto di spirito samaritano” (ché la faccia tosta è la vera fonte rinnovabile di energia, altro che l’eolico o il fotovoltaico!), consisteva in un programma di prestiti, e quindi di ulteriore debito per i Paesi africani, finalizzati allo sviluppo industriale: e indovinate un po’ con chi dovrebbero contrarre quei debiti i namibiani e di chi sarebbero le industrie che dovrebbero installarsi in Africa? Sorprendentemente per i pari di Lammert l’idea è parsa sgradita alle vittime.

D’altra parte è pur vero che al danno segue sempre la beffa. Come si può pensare, infatti, che un Paese così vessato esca dalla sua povertà? Come si può pensare che non si formino masse di persone che cercano una via di sopravvivenza a casa di chi da secoli espropria la loro ricchezza (i cosiddetti “migranti economici”)? E come vengono accolti questi pochi scampati ai nostri crimini (non solo tedeschi, ripeto: nessuno si senta escluso)? Beh, se non muoiono in mare e non vengono rimpatriati dopo soggiorni in centri di raccolta degli orrori, finiscono negli strati più disagiati dei suburbi europei, nelle voragini dello sfruttamento lavorativo più bieco.

Ecco, è esattamente con questo fardello storico e politico sulle spalle, tanto oggettivamente pesante quanto, evidentemente, soggettivamente inavvertito, che il vecchio cristiano-democratico pensa bene di poter aprire una visita di cortesia dicendo che è bene che in Namibia ci siano tanti tedeschi bianchi ma è male, ed è assolutamente preoccupante, che ci siano anche i cinesi.

Il Presidente Geingob, dicevamo, dimostrandosi persona straordinariamente affabile e paziente, ha quindi interrotto il visitatore alemanno con un sorriso paterno chiedendogli quale fosse, esattamente, il suo problema con la presenza di cinesi in Namibia e ricordandogli che, nonostante la Germania avesse un passato remoto coloniale criminale, un passato prossimo postcoloniale piuttosto tetro e pesante e un presente piuttosto ingerente e inospitale, a nessun tedesco di Namibia è mai stato torto un capello, né le loro attività sono state ostacolate, né a nessun tedesco è stato impedito di entrare o soggiornare liberamente nel Pese, sebbene non proprio lo stesso trattamento ricevano i namibiani in Germania e nel resto d’Europa; ha quindi aggiunto che nessuna ragione al mondo potrebbe spingerlo a rifiutare la presenza della comunità cinese che, non solo non si è macchiata di nessuna delle colpe sopra citate contro i cittadini namibiani, né in passato né nel presente, ma è molto meglio integrata nella società locale, non ha mostrato finora volontà egemoniche o di superiorità, ha contribuito significativamente in questi anni all’economia del Paese e, cosa non trascurabile, non ha cercato finora di dirgli chi dovrebbe e chi non dovrebbe soggiornare o fare affari nel suo Paese. Dopo aver lasciato qualche secondo al suo interlocutore per metabolizzare il messaggio, il Presidente ha aggiunto che non capisce per quale motivo, per altro, la Germania, al pari del resto d’Europa e degli Stati Uniti, possa condurre affari con l’industria cinese ma si preoccupi se lo stesso intendono fare anche gli stati africani. Siccome anche un uomo paziente giunge a un limite di sopportazione giacché, come diceva Totò, “ogni limite ha una pazienza”, ha chiuso il discorso chiedendo, con un sospiro esausto, di smettere questa infinita giaculatoria anticinese intorno agli affari africani e di occuparsi degli affari di casa propria.

La risposta di Geingob è talmente logica, lineare e fondata sulla semplice disamina dei fatti che, in effetti, è difficile trovare un’obiezione, eppure fin qui abbiamo descritto solo parzialmente l’accaduto, perché tutto il succo di quello che è successo sta nell’espressione che Lammert ha assunto a quel punto: il vecchio democratico-cristiano è ammutolito, ha  mostrato appena un accenno di rossore, ed è rimasto, come avrebbe scritto Camilleri “imparpagliato” quasi come un botolo prepubere a cui un cugino più grande fa notare d’improvviso che la bravata in cui crede di essersi appena prodotto si è tradotta in una colossale figura di merda. E così, con la faccia di chi ha scavalcato un muro per fare il gradasso ma ha finito per farsela addosso e ora deve gestire massa e fetore dell’incidente, il politico tedesco è rimasto a bofonchiare sottovoce qualche confusa banalità, in evidente stato di spaesamento.

Ma perché tanto spaesamento? Perché tanto stupore? La faccenda ci pare avere la struttura di una matrioska e lasciar schiudere un guscio dopo l’altro. Intanto da molto tempo un politico europeo non era evidentemente abituato a sentirsi rispondere a tono da un politico africano, sicché la sorpresa di Lammert è la sorpresa che un graduato prova di fronte all’insubordinazione della truppa; e questo è forse il primo strato.

Al di sotto si trova lo stupore verso il fatto che qualcuno possa ritenere un partner non europeo o nordamericano per qualche ragione preferibile; Lammert e tutti quelli come lui sono talmente convinti di rappresentare non solamente il migliore, ma il solo possibile sviluppo della civiltà umana, che il solo fatto che qualcuno possa non essere allettato dal modello gli fa lo stesso effetto che farebbe a un emiliano la scelta di mangiare ravioli in scatola in un mondo in cui esistono i ravioli freschi: non si capisce né razionalmente, né emotivamente.

Il nucleo, però, quello che sta sotto tutto, è la vera, profonda, mentalità da colonizzatore; forse nel cervello del politico tedesco sono passate, in fretta, una serie di domande: come può, costui, non comprendere la differenza sostanziale che esiste tra un europeo e un cinese? Come può addurre la storia di un rapporto di colonizzazione come ragione di una diffidenza attiva verso di noi? Come può pensare di avere questo diritto alla simmetria? Perché, in fine, è così “antieuropeista”? Non sa che noi siamo il continente della libertà, dei diritti, del libero mercato e dello sviluppo? Non ambisce a identificarsi con noi, a sposare il nostro modello di vita, a convertirsi, magari dimenticando gli orrori del passato e accettando un paterno rimbrotto sul presente? Perché non vuole farsi guidare e civilizzare da me?

Solo da questa prospettiva si può, senza vergogna, chiedere ad altri ciò che Lammert ha chiesto senza percepire di non essere nella posizione né formale, né sostanziale, né politica, né storica, né morale per chiederlo.

A scompigliare le carte e consentire di avere nuova forza alla risposta del presidente namibiano c’è poi un fenomeno geopolitico che si è troppo occupati a temere per volerci fare i conti razionalmente e che quelli come Lammert sembrano più aborrire che voler intendere e considerare: la crescita dei BRICS.

Si può pensarla come si vuole, ma esiste un nesso diretto tra l’espansione di questo gruppo di Paesi e il tema della decolonizzazione: il fatto che l’adesione non richieda di sposare un intero modello di società (bianca, cristiana, capitalista, atlantista, eccetera), il sostanziale agnosticismo verso le politiche interne e quindi la minore ingerenza, la tendenza a una maggiore bilateralità e quindi a una minore gerarchizzazione delle relazioni internazionali, l’essere la maggior parte dei Paesi aderenti non coinvolti nella storia del colonialismo, eccetera, eccetera…. Sono tutti elementi che rendono al momento quella proposta più appetibile, più percorribile, più interessante e più conveniente per chi del colonialismo ha subito le tragedie e, si badi, non per “immaturità politica” (ah quanto è tenace l’arroganza del colonizzatore!) ma per ragioni tanto razionali quanto razionalmente intellegibili.

Per affrontare questo nesso, però, occorre fare almeno due operazioni: rinunciare al presupposto di superiorità culturale, da un lato, e dall’altro sollevare il velo sul più grande rimosso della storia occidentale e cioè la natura criminale del colonialismo o, in altre parole, del nostro rapporto con il resto del mondo.

Dal 1492 a questo inizio di 2024 ogni contatto che prima le nazioni europee e poi quelle nordamericane hanno avuto con ogni altra cultura ha avuto una e una sola forma: l’esproprio di risorse fino alla fame o lo sterminio di massa. Nessuna pausa, nessuna eccezione e, si badi, nessuna reciprocità, ché nessuno ha fatto a noi una cosa del genere.

Caro Lammert non sono i cinesi il pericolo e neanche gli arabi, gli africani, gli asiatici in genere o gli amerindi: il pericolo siamo noi, siamo noi i massacratori, i sopraffattori, il mal seme della terra, la mala pianta infestante che ha affamato e lordato di sangue il resto del mondo. Noi e solo noi.

Perché o decidiamo una volta per tutte di metterci davanti a questa triste realtà e decostruire la nostra mentalità da predoni o alle figure pietose di un Lammert indebitamente stupito, si sostituirà prima o poi l’ostilità dei troppi popoli oppressi e sarà stato prevedibile, comprensibile, evitabile ma soprattutto, se si vuole essere onesti, anche giusto, diciamocelo.

 

 

 

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