L’Afghanistan non esiste. È un pensiero di passaggio incastrato tra i nostri archetipi. È un libro abbandonato sullo scaffale, sfogliato velocemente anni fa e poi lasciato lì perché indecifrabile. Troppo complicato, troppo lontano, troppi intrecci di trama. E i nomi sono troppo difficili da ricordare.
L’Afghanistan esiste occasionalmente in funzione delle narrazioni scadenti che ondeggiano quando si discute di guerra. Una guerra che i contadini, i pastori, gli insegnanti, le madri, i padri, i bambini, le bambine afghane non hanno mai voluto.
Eppure l’Afghanistan è. Mentre il mondo continua, il paese affonda nella propria realtà. Non si spegne quando noi non lo vediamo più.
Intanto, i finanziamenti e i sussidi da parte delle grandi potenze si riducono: gli afgani e le afgane non sono una priorità.
A quattro anni dal ritorno dei talebani, i reparti pediatrici – supportati da Medici Senza Frontiere – nelle province di Helmand, Balkh, Herat, gridano aiuto. Nel 2024 quattrocentoventidue strutture sanitarie hanno dovuto sospendere le attività o hanno chiuso a causa dei tagli degli Stati Uniti. Più di tre milioni di persone ora non hanno assistenza sanitaria. I bambini sotto i cinque anni che passano al Boost Hospital di Helmand sono il doppio rispetto al 2020. Ad Herat sono aumentati del ventisette percento dal 2024. Ma chi decide sul diritto alla salute e alla cura in tempo di guerra?
L’ottantatre percento delle vittime di mina tra gennaio e novembre 2024, in Afghanistan, sono bambini. Queste morti, più della metà delle volte, sono avvenute nei momenti di gioco. I famosi effetti collaterali di un preciso schema di guerra. Il problema sarà l’incoscienza dei bambini.
L’Afghanistan non stupisce nemmeno più, l’opinione pubblica è assuefatta dall’idea che esisterà sempre una guerra altrove. L’Afghanistan è solo uno dei tanti problemi nel mondo: pace. Sì, per noi.
Scriveva Gino Strada in Buskashi, nel 2002: “Enduring Freedom, libertà duratura: suona una minaccia più che un ideale”.
E dopo oltre vent’anni, l’Afghanistan è libero? O siamo noi ad essercene liberati?

A fine 2024, Emergency riporta che durante l’anno nell’ospedale di Kabul hanno ricevuto centotrentacinque bambini vittime di mine o schegge: uno ogni tre giorni. Secondo l’ONU, nel paese sono disseminati almeno quattordici milioni di ordigni bellici esplosivi. Il settanta percento delle vittime delle mine terrestri è composto da civili. Un terzo di questi sono bambini amputati, gravemente feriti, che non sentono o non vedono più a causa delle esplosioni. Portano con sé anche lo strascico di un danno psicologico che non possiamo ignorare e condannare quando è troppo tardi.
Secondo l’Ufficio delle Nazioni Unite per il Coordinamento degli Affari Umanitari (OCHA), l’Afghanistan ha un tasso di mortalità materna quasi tre volte superiore alla media mondiale: ogni centomila nascite, muoiono seicento donne.
Alberto Cairo, fisioterapista delegato del Comitato Internazionale della Croce Rossa in Afghanistan dal 1989, ha spiegato recentemente che i fondi della cooperazione destinati al paese sono diminuiti dal rientro dei talebani: “La gente pensa che i fondi vadano ai talebani, ma invece no. Vanno alle organizzazioni. Ma da qui, dal Paese, la percezione è che il mondo si sia stufato dell’Afghanistan. Questa è una fase molto triste. Ci sono così tante guerre. Ucraina, Sudan, Gaza… Chiudete gli occhi, mettete un dito sopra la carta geografica e trovate una guerra”.
In vent’anni di occupazione militare nella regione, l’Italia ha investito circa otto miliardi che hanno lasciato il forte dubbio – o la certezza – che l’Afghanistan non sia diventato un posto migliore. E nemmeno il resto del mondo: la guerra al terrore che Bush ha proclamato nel 2001 e seguita con dedizione anche dal nostro paese non ha liberato nessuno.
E intanto, mentre in Afghanistan le cure sono limitate e i bambini continuano a morire per le mine, in Occidente diverse nazioni si stanno allontanando dalla Convenzione di Ottawa che vieta l’uso, la detenzione, la produzione e il trasferimento di mine antipersona e impone la distruzione degli stock esistenti nonchè l’assistenza alle vittime del loro uso. Ora sembra necessario osservare le responsabilità globali e la gestione politica internazionale sulle mine terrestri.
L’Ucraina ha annunciato la sua uscita dalla Convenzione (mentre il conflitto in atto ha trasformato il Paese in uno dei territori più minati al mondo), sulla scia di altri Paesi che hanno preso una decisione simile, tra i quali Polonia, Lituania, Estonia e Finlandia. Cina, Russia, USA, Repubblica di Corea, Corea del Nord, Israele, Libia e Libano non hanno mai firmato il Trattato.
L’esempio afgano fa domandare: in che modo rendere più accettabili le mine antiuomo può ritenersi un passo verso la pace? Gli esperti da salotto televisivo diranno che è una strategia valida, che polverizza e minimizza ogni potenziale pericolo per i civili.
In tutto ciò, l’Afghanistan sta vivendo una gigantesca deportazione di massa. Più di un milione di afgani sono stati costretti a tornare dai paesi vicini, con arresti, violenze e crudeltà.
Ora, guardando il presente, chi possiamo chiamare terrorista in Afghanistan? I talebani che pubblicizzano viaggi speciali per i turisti americani? I mujaheddin che hanno resistito per decenni? La NATO? Emergency? Medici Senza Frontiere? I fondamentalisti islamici? O i bambini che durante il gioco, raccolgono un pallone ma trovano delle mine che stravolgono la loro vita?