A margine delle analisi sulla povertà, un approfondimento particolare andrebbe fatto sulla condizione di marginalità economica e sociale degli immigrati. E’ opportuno, infatti, dedicare un’attenzione particolare al modo in cui gli immigrati vengono collocati nel modello italiano di povertà poiché ciò costituisce un elemento nuovo e, al contempo, di maggiore complessità. In Italia l’interesse nei confronti della povertà degli immigrati è maturato solo di recente. Basti pensare che fino agli anni ottanta del novecento soltanto una percentuale modesta di immigrati entrava nelle rilevazioni statistiche. Nel censimento del 1991 risultavano presenti in Italia poche centinaia di migliaia di persone provenienti da Paesi poveri tant’è che venne individuata una specifica componente (i cosiddetti “non radicati”) che presentava le caratteristiche di precarietà della maggior parte degli immigrati di allora. Questa incapacità di analizzare il fenomeno migratorio nella sua specificità ha provocato distorsioni a tutti i livelli tanto che il terzo Rapporto della Commissione di indagine sulla povertà e l’emarginazione includeva gli immigrati extracomunitari tra i soggetti in condizione di povertà estrema assieme ai “senza fissa dimora”, i “nomadi” e i “malati di mente”. Questa confusione concettuale e metodologica non è stata priva di conseguenze e l’equivalenza immigrato-marginale-povero ha finito purtroppo per caratterizzare molti studi italiani sul tema e avere una forte influenza sull’opinione pubblica.
A monte di questa situazione vi è stata anche una visione sostanzialmente “emergenziale” del fenomeno, una sorta di evento imprevisto causato da fattori contingenti. Questa visione emergenziale ha generato due tipi di narrazioni: quella della “invasione” e quella dell’immigrato come “accaparratore” dei servizi di welfare e delle risorse pubbliche nonché di posti di lavoro. Entrambe queste narrazioni finiscono per considerare le famiglie degli immigrati come qualcosa di esterno e non una componente ormai stabile della struttura sociale italiana fino a estremizzare il concetto della estraneità definendo immigrati i tanti che non hanno in realtà conosciuto alcuna esperienza migratoria. Mi riferisco a coloro i quali sono nati in Italia da genitori stranieri o vi sono giunti in tenera età. Da qui l’ostilità verso le proposte di legge che possano porre una correzione a questa situazione (jus soli o jus culturae).
Vi sono dunque diversi motivi per suggerire una certa cautela nel considerare gli immigrati poveri “in quanto immigrati”. Essa sembra essere particolarmente opportuna non solo e non tanto per lo specifico modello della povertà italiana, quanto per le caratteristiche e per gli aspetti determinati dal fenomeno migratorio nella fase storica in cui viviamo. Molto spesso, parlando di migrazione, si fa riferimento al fenomeno che ha caratterizzato il periodo post bellico in Europa. I due fenomeni, comunque, sono difficilmente paragonabili. Tra i caratteri specifici, infatti, delle attuali migrazioni internazionali va ricordata, ad esempio, la maggiore diversificazione dei Paesi di provenienza e di diverse motivazioni all’espatrio rispetto alle migrazioni intraeuropee degli anni dell’espansione economica del secondo dopoguerra. Va, inoltre, considerata la maggiore articolazione delle figure sociali di immigrato e, in particolare, una maggiore presenza di donne sole per lo più con figli (fenomeno del tutto assente degli anni 50/60 del secolo scorso dove a migrare erano solo uomini) che costituiscono, peraltro, due categorie a forte rischio povertà. Vi sono poi differenze individuali come ad esempio quelle tra migranti giovani e migranti più anziani con famiglie a carico nel Paese di provenienza.
Un’altra importante dimensione dell’analisi è rappresentata da quello che gli esperti definiscono “fase del ciclo migratorio”. Può essere utile, a questo proposito, riferirsi ad una ricerca condotta in Lombardia dall’ISMU per conto della Commissione di indagine sulla povertà che ha individuato il ciclo di vita della povertà negli immigrati dove l’incidenza dell’indigenza è massima tra gli immigrati al primo arrivo e declina dopo qualche anno di stabilizzazione per poi aumentare nuovamente in corrispondenza della formazione di una famiglia e del periodo post lavorativo conseguente all’avanzamento dell’età.
Questa ultima analisi ci conduce a una riflessione su due impedimenti al superamento della condizione di indigenza. Il primo riguarda il riconoscimento giuridico di primo arrivo e la concessione di un permesso che consenta ai migranti di accedere in maniera più regolare al mercato del lavoro. Il secondo è il raggiungimento di un consistente numero di anni di contribuzione che generi un reddito pensionistico al raggiungimento di un’età che preclude la continuazione delle abituali attività lavorative. Quest’ultima condizione è, purtroppo, comune a molti giovani italiani costretti ad accettare lavoro in nero che non produce accumulo pensionistico.
La conclusione di questa breve analisi ci porta a constatare che, più che un sussidio come nel caso degli indigenti italiani, ciò che aiuterebbe gli immigrati a stabilizzare la loro condizione economiche sarebbe un più snello e rapido disbrigo di pratiche burocratiche al fine di garantire loro una maggiore forza contrattuale e al sistema nel suo complesso l’emersione dal nero di una notevole mole di forza lavoro attualmente sfruttata fuori da ogni regola. Prima ancora di essere un problema giuridico è una questione che ci interroga sul piano morale ed etico. Quanto ancora possiamo ritenere possibile che una società che si ritiene civile possa accettare che un numero ormai consolidato di cittadini non abbiano riconosciuto il diritto ad esistere giuridicamente?