Editoriale

Non c’è tempo per fare pace

 

L’Orologio dell’apocalisse nell’anno appena trascorso non ha segnato variazioni. E’ un buon segnale? Non direi; siamo pur sempre fermi a 2 minuti alla mezzanotte. Di cosa sto parlando? Di una iniziativa ideata nel 1947 dagli scienziati della rivista Bulletin of the Atomic Scientists dell’Università di Chicago che consiste in un orologio metaforico che misura il pericolo di una ipotetica fine del mondo. E’ una delle tante conseguenze dello choc rappresentato nella comunità scientifica mondiale e non solo dall’esplosione atomica di Hiroshima e Nagasaki.

L’ Orologio dell’apocalisse (Doomsday Clock in inglese) indica il pericolo quantificato tramite la metafora di un orologio la cui mezzanotte simboleggia la fine del mondo. Siamo a soli due minuti dalla mezzanotte, non un tempo rassicurante direi. Durante la guerra fredda, l’orologio fu impostato a sette minuti dalla mezzanotte. La massima vicinanza all’apocalisse è stata di due minuti e fu raggiunta due volte, una tra il 1953 e il 1960 e una nel 2018 con conferma nel 2019. Fino alla seconda metà degli anni ’90 veniva considerato quasi esclusivamente il rischio nucleare. Dal 2007 lo spostamento delle lancette è condizionato anche dai pericoli derivanti dai cambiamenti climatici, dall’effetto serra, dall’inquinamento e dai nuovi sviluppi nel campo delle armi biologiche e dell’ingegneria genetica.

Il combinato disposto di guerre regionali/locali/nazionali, catastrofi ecologiche (vedi incendi in Brasile e Australia, scioglimento dei ghiacciai, alte temperature fuori stagione ecc.) ha determinato il mantenimento di quello che è, a tutti gli effetti, un indice assai preoccupante. Le notizie di questi giorni nei teatri di guerra guerreggiata e/o minacciata, sono alquanto inquietanti per non dire terrificanti. Il Medioriente in particolar modo sembra volersi riprendere la scena dei conflitti. Da una parte la situazione Libia dove la contrapposizione tra i due signori della guerra Fayez al-Sarraj appoggiato ormai ufficialmente visto il voto del parlamento turco dal presidente Recep Tayyip Erdoğan e il generale Khalifa Haftar che ha al suo fianco le milizie mercenarie filo russe della Wagner Group e le armi generosamente elargite da Vladimir Putin. Dall’altra la instabile situazione in IRAQ dove ancora una volta si fronteggiano sciiti e sunniti peraltro uniti nella richiesta di abbandono del territorio iracheno da parte delle truppe statunitensi. La risposta dell’ineffabile presedente Yankee è stato un vero e proprio atto di aggressione all’IRAN, l’uccisione del generale Qassem Soleimani, potente e carismatico capo dell’unità speciale Al Quds dei Guardiani della rivoluzione. Questo atto potrebbe rappresentare un punto di non ritorno nei rapporti tra USA e IRAN e potrebbe a sua volta rappresentare l’innesco di una detonazione che porterebbe ad incendiare l’intera regione legando definitivamente i vari focolai (Libia, Siria, Yemen, IRAN). Insomma la ripetizione dell’omicidio di Saraievo.

Il generale Soleimani era alle dirette dipendenze dalla Guida suprema iraniana, l’ayatollah Khamenei. Dopo il fallimento dell’accordo sul nucleare, infatti, è stato proprio Soleimani a prendere il controllo della situazione. Per il regime degli Ayatollah è una perdita gravissima sul piano strategico e su quello politico che Teheran vorrà vendicare portando avanti l’escalation contro gli Stati Uniti. Per il regime è l’unica via d’uscita di fronte anche alle proteste popolari al momento represse duramente ma che rischiano di far tornare nelle piazze centinaia di migliaia di persone come ni mesi scorsi. A questo punto è probabile che gli iraniani metteranno in atto la loro risposta in Iraq, dove è stato commesso l’omicidio di Soleimani e dove l’influenza di Teheran è profonda, in Arabia Saudita con la quale hanno in corso la guerra per procura nello Yemen e dove gli interessi statunitensi sono enormi, e/o in altre regioni, in luoghi dove nessuno se l’aspetta.

Quale possa essere il disegno politico e strategico a sostegno di un atto così grave è l’enigma che sembra interessare gli osservatori di tutto il mondo. Ci si chiede chi abbia potuto consigliare al presedente USA di alzare in maniera così eclatante l’asticella dello scontro non solo con l’IRAN ma con tutti i suoi alleati nella regione compresi Turchia e Cina. A chiederselo sembra sia anche una parte non trascurabile della Camera dei Deputati che ha avuto notizia dell’attacco direttamente a cose fatte. E’certamente nelle prerogative del presidente prendere decisioni in maniera autonoma ma raramente si era visto dare il via ad una operazione di questa portata senza un solido consenso politico. L’unica spiegazione che viene data, anche sotto quest’ultimo punto di vista, è che questo sia un attacco volto a sviare l’attenzione dell’opinione pubblica americana dall’impeachment al quale Trump è stato avviato e rilanciare le sue quotazioni elettorali. Fa impressione vedere come sulla vita di milioni di persone si possa giocare una partita così meschina e cinica come quella tutta interna alle prossime elezioni presidenziali USA. E fa ancora più impressione notare come, ancora una volta, se un presidente americano vuole compattare il proprio popolo lo può fare usando l’arma della guerra. Sembra che nulla risvegli gli ardori patriottici degli Yankee come il galvanizzarsi dietro le gesta delle loro truppe ovunque sia e per qualsiasi causa giusta o sbagliata che possa essere.

Il fatto che l’Orologio dell’Apocalisse, il Doomsday Clock, rimanga fermo a soli due minuti dalla fatidica “ora X” è, per quanto si tratti di una scadenza del tutto simbolica, un fatto gravissimo. E’ il segno della sfiducia degli scienziati (della stragrande maggioranza degli scienziati) sulla possibilità di trovare, a livello politico, risposte condivise e coerenti ad alcuni gravi problemi che affliggono l’umanità e il pianeta.

Non un bel modo di cominciare l’anno, i fuochi d’artificio che hanno salutato l’arrivo del 2020 non saranno le uniche esplosioni che sentiremo nel corso dei prossimi 12 mesi. E’ stato così per tutti gli anni che ci hanno preceduti e sarà così, purtroppo, anche per l’anno appena iniziato. La speranza è che i conflitti si mantengano a livello ancora controllabile da parte delle diplomazie e che queste facciano ogni sforzo per ridurne l’impatto principalmente sulle popolazioni civili coinvolte. Certo che se la diplomazia europea si affida a quella italiana per trovare almeno in Libia una soluzione le speranze si riducono al lumicino.

 

 

 

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