Editoriale

Proletari di tutti i paesi, unitevi! Per la miseria, stavolta votiamo Trump

Per comprendere perché Donald Trump con buone probabilità sarà il 47° Presidente degli Stati uniti d’America si dovrebbe fare un viaggio in una delle zone dell’America profonda, per esempio in uno dei distretti industriali della cosiddetta Rust Belt, un’espressione che indica la regione compresa tra i monti Appalachi settentrionali e i Grandi Laghi, un tempo cuore dell’industria pesante statunitense. Un’intera economia che era cresciuta intorno alla produzione di acciaio e che negli ultimi venti anni non ha fatto altro che perdere posti di lavoro e speranze.

Si deve cercare di comprendere come vivono i poveri di queste aree produttivamente desertificate, qual è l’impatto psicologico che produce la povertà materiale ma anche spirituale su questi ex lavoratori e sulle loro famiglie. In altre parole si deve cercare di capire dove sia andato a finire, per milioni di persone, il sogno americano.

Bisogna cercare di capire in cosa consiste realmente l’arresto del cosiddetto «ascensore sociale». Nella società americana fondamentalmente ancora razzista, figlio dell’ignoranza, il comune eloquio non va quasi mai al di là del colore della pelle: si parla di «neri», di «asiatici» e di «bianchi privilegiati». Ma dietro a queste categorie ce ne sono altre che spiegano meglio la reale situazione del Paese e dell’economia. Pensiamo ai milioni di proletari bianchi, proletari di origine irlandese e scozzese con una bassa scolarizzazione che non hanno maturato una formazione specifica e che i sociologi definiscono “working poors”. Per questa gente, la povertà è una condizione endemica, quasi una tradizione di famiglia. Nel corso dei decenni si sono alternate condizioni diverse ma sempre caratterizzate da precarietà e povertà. I loro antenati erano prima braccianti nell’economia schiavista del Sud, poi mezzadri, minatori e infine, più recentemente, meccanici e operai.

Gli americani li chiamano hillbilly (buzzurri, montanari), redneck (colli rossi) o white trash (spazzatura bianca). E questa situazione è comune a stati importanti anche elettoralmente come Ohio, Michigan, Indiana, Pennsylvania, Illinois, stati dove si giocherà una parte importante della partita il prossimo 5 novembre.  Ecco, questi sono gli elettori più incazzati di Donald Trump.

Come scrive Sandro Moisto in “Da che parte stare”, Viaggiando in lungo e in largo per gli Stati Uniti, mi sono convinto che gli americani di origine scozzese e irlandese rappresentino la sottocultura regionale più persistente e immodificabile del paese. Mentre in quasi tutte le altre zone la gente si distacca in massa dalla tradizione, le loro strutture familiari, le loro convinzioni religiose e politiche e la loro vita sociale restano immutate”.

Pur trattandosi di una regione sterminata che arriva fino ad alcune parti del Nord dello stato di New York, quest’area conserva, infatti, una coesione culturale straordinaria. Ed è in questa regione che le fortune dei bianchi della classe operaia sembrano particolarmente in declino. Dalla bassa mobilità sociale alla povertà, dalla diffusione dei divorzi alla droga endemica, questo è diventato un luogo di infelicità.

In un Paese dove la povertà assoluta arriva a livelli inimmaginabili per la prima economia mondiale, l’emarginazione e la frustrazione dovuta anche alla colpevolizzazione della povertà. Questo atteggiamento negli Stati Uniti è una dinamica culturale e sociale in cui la responsabilità della condizione di povertà viene attribuita agli stessi individui poveri, piuttosto che riconoscerla come conseguenza di fattori strutturali ed economici più ampi.

Il fenomeno ha radici profonde nella storia americana ed è sostenuto da narrazioni e pregiudizi che spesso collegano il successo economico alla morale e al valore individuale, escludendo l’impatto di fattori sistemici come l’accesso diseguale all’istruzione, al lavoro e alla sanità.  Gli analisti che si occupano del declino del Midwest industriale e dello svuotamento del bacino principale di occupazione degli operai bianchi sostengono che la causa principale sta nel fatto che le industrie manifatturiere sono andate all’estero e che i lavori impiegatizi sono difficilmente accessibili per chi non ha un’adeguata formazione.

Per capire lo slogan “America first” di Donald Trump, pertanto, si deve andare a vedere ciò che avviene nella vita delle persone reali quando l’economia industriale si delocalizza. Chiudersi facendo leva sui dazi è la prova di come si possa reagire a una situazione negativa nel peggior modo possibile. Un atteggiamento che ha radici in una cultura che promuove sempre più il decadimento sociale anziché contrastarlo. Ciò che rimane è la sensazione di non avere il controllo della propria vita e un rabbioso senso di impotenza. È qualcosa che esula dal panorama economico complessivo dell’America contemporanea che presenta una complessità tale da non poter essere analizzata scomponendo la società in gruppi sociali o singole aree geografiche. A nulla serve, però, negare l’evidenza: per comprendere dove si alimenta la retorica e la squinternata propaganda repubblicana in questo drammatico 2024 bisogna scavare proprio nel profondo della pancia dell’elettorato.

 

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