Mondo

Quanti muri da abbattere

A forza di parlare di frontiere il termine perde quasi il suo significato originale. E’ come se diventasse avverbio da giustapporre al verbo respingere. Delle frontiere fisiche ci siamo quasi dimenticati tanta è la semplicità, in Europa, con la quale si attraversano. Si parla di divisione tra nord e sud del mondo ma la si immagina solo idealmente, si pensa che sia un modo di dire, di semplificare un concetto più articolato.

Le frontiere invece, quelle fisiche, esistono e quando le vedi ti rendi conto che pesano come macigni nell’economia e nella vita delle persona che le abitano. Il confine tra Messico e USA è uno dei più discussi da quando il presidente Trump ha voluto farne uno dei punti più caratterizzanti della sua presidenza con l’ossessione di voler terminare il muro tra i due Paesi già iniziato da altri presidenti.

L’emblema, l’icona della frontiera tra il nord ricco e il sud povero del continente americano è Tijuana. Attraversare questa frontiera in un senso o nell’altro è un’esperienza straniante, una di quelle situazioni dove la differenza di condizione socio economica diventa nel breve tempo della percorrenza di un paio di chilometri talmente evidente da dare la sensazione di viaggiare nel tempo oltre che nello spazio.

Ne ricordo altre di queste situazioni. La frontiera tra Giordania e Israele sul Mar Rosso è un’altra di quelle situazioni dove affacciarti dal balcone di un albergo giordano con vista sul versante est del Golfo di Achab e guardare la città gemella israeliana Eilat divisa da una rete elettrificata equivale a leggere tutti i libri di storia che parlano del conflitto arabo-israeliano.

Da una parte il deserto, dall’altra una rigogliosa vegetazione figlia della decisione dello stato di Israele di deviare il corso del fiume Giordano per assicurarsi le sue riserve di acqua. E poi ricordo l’emozione di salire le scalette alla Porta di Brandeburgo a Berlino per vedere la parte Est dall’altro lato del muro.

Affacciarsi su quel mondo che al tempo sembrava così lontano e che nella notte del 9 novembre del 1989 una festante folla ha smontato pezzo per pezzo cancellando un’onta non più sopportabile. E poi la giungla, il sentiero Ho Chi Minh, il confine che non si vede attraversato da turista tra Cambogia e Vietnam che durante i venti lunghi anni della guerra veniva utilizzato per portare rifornimenti ai Viet Cong.

Nessuna frontiera e, però come Tijuana, città di confine, 1600000 abitanti ammassati gli uni sugli altri a ridosso di quella linea immaginaria e pure cosi presente che è il confine. Corridoio della speranza o della disperazione, a seconda dei punti di vista, terra desolata e marginale, schiacciata tra il gigante ricco ed egoista degli Usa e quello orgoglioso e povero del Messico. Per l’antropologo Néstor García Canclini si tratta di “uno dei maggiori laboratori della postmodernità”.

Per lo scrittore di Tijuana Luis Humberto Crosthwaite, è “una città inventata, mutevole e poliedrica”. La scritta “Welcome to Tijuana. Tequila, sexo, marijuana” ripresa anche da Manu Chao in una delle sue canzoni è una delle cartoline simbolo di questo posto. Entro con la mia Chevy noleggiata a San Diego con l’idea di scendere verso Cabo San Lucas lungo la lingua di terra chiamata Baja California. Non ci arriverò, troppi chilometri, troppo sole. Il primo impatto con quello che una volta si chiamava il Terzo Mondo è uno schiaffo in faccia.

Si passa in un attimo dall’ordinato traffico californiano, la pulizia asettica delle strade, le poche persone in giro al caos dei venditori ammassati lungo la strada di ingresso in Messico pronti a venderti ogni sorta di prodotti legali e non che siano. Mi colpisce un ragazzo che vuole ricoprire i finestrini della mia vettura con una pellicola che impedisce di vedere chi ci sia dentro, mi dice che è per la mia sicurezza.

Quando esco da un ristorante e mi accorgo di aver chiuso la macchina con le chiavi dentro è bastato rientrare e chiedere alla cortese cameriera di risolvere il problema. Lei non ha fatto altro che uscire, guardarsi intorno e chiamare un ragazzo che in una attimo tira fuori dalla manica della camicia un arnese con il quale in una sola mossa apre la mia vettura senza danneggiarla. Tijuana ha la maggior concentrazione al mondo di farmacie, se ne vedono una dopo l’altra senza soluzione di continuità.

Gli statunitensi sono grandi consumatori di farmaci non si sa se molto malati o molto ipocondriaci e qui le medicine si vendono senza ricetta medica. E’ una sanità di confine, economica e permissiva con molti studi dentistici, dermatologici e di chirurgia estetica che vivono dei pazienti transfrontalieri, turisti della salute che vengono a garantirsi quei trattamenti medici che l’opulente vicino non riesce a garantire ai propri cittadini.

Quando si va verso sud ci si lascia alle spalle il caos, l’umanità, i colori, gli odori di un luogo unico al mondo e ci si immerge in una natura altrettanto unica. La strada scavalca le dune di sabbia lasciando vedere da una parte l’immenso Pacifico e dall’altra il placido e caldo Mar di Cortez. E’ il luogo dove vengono a partorire le balene, un luogo magico e incantato. Quando scende la sera ai margini della strada si accendo, come per incanto, centinaia di lumini.

Non capisco, scendo dalla macchia e rimango impietrito, sono gli occhi di decine di coyote che nottetempo si avvicinano alla strada alla ricerca del cibo gettato dai turisti. A Tijuana chiamano coyote quelli che noi chiamavamo spalloni. I nostri portavano zaini carichi di banconote verso le banche svizzere, i loro portano gli “espalda mojada” (schiena bagnata), termine usato dai locali per indicare gli immigrati clandestini verso gli Stati Uniti.

Gli Yankee che fanno i duri contro gli immigrati finiscono per essere gli stessi che nella frontiera vedono opportunità per attività lecite ed illecite. Tijuana, come tutte le città di confine, è diventata il crocevia di un gigantesco traffico di cocaina. Nei bar, nei ristornati, persino nei McDonald’s droga e prostituzione sono alla portata di tutte le tasche e di tutti i gusti.

Come nella Cuba di Batista, anche a Tijuana gli Yankee esportano le loro perversioni, i loro vizi lasciando che la loro casa mantenga intatta l’immagine di una borghesia puritana e bigotta. In questo teatro dell’assurdo che è diventato il confine USA-Messico, ognuno finisce per giocare la propria partita. Il governo statunitense radicalizza le sue posizioni per conquistare il voto razzista e il governo messicano ne approfitta per permettersi di protestare per la negazione di quei diritti umani che nel proprio Paese non vengono rispettati. Perché le frontiere sono queste, luoghi che vogliono dividere ma che inevitabilmente uniscono. In una partita impari dove c’è uno dei due contendenti che ha la forza per imporre all’altro le regole del gioco.

 

 

 

 

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