Viene male a pensare e scrivere di altro che non sia la guerra quando senti il peso delle bombe sui palazzi, lo strazio dei piccini che muoiono di fame, delle donne stuprate in casa davanti ai loro figli e in strada davanti ai loro mariti. Parliamo di Gaza, Beirut, Teheran, Kiev ma anche Congo, Haiti e Darfur. Purtuttavia abbiamo un problema che, poi, è il cuore di tutti i problemi: la diseguaglianza. E qui dobbiamo rigirare il nastro fino all’ 8 e 9 giugno.
Gli esiti del referendum per abbreviare i tempi di conseguimento della cittadinanza da parte degli stranieri in Italia, che come gli altri quattro non hanno visto il raggiungimento del quorum, si è differenziato dagli altri quesiti per un maggiore numero di No.
Circa cinque milioni di italiani, oltre un terzo dei votanti, ha espresso parere contrario. In Alto Adige, dove il dato dell’affluenza è stato il più basso d’Italia, il No alla Cittadinanza ha vinto, a Plaus addirittura con il 77 per cento. Luigi Manconi, sociologo e già senatore, si interroga sulla diffusione della paura dello straniero in Italia e sull’incapacità di creare una forza che riesca a radicare la cultura dell’accoglienza partendo anche da principi giuridici.
“Io penso – racconta al giornale della Cgil – che la relazione con i cittadini migranti sia stata finora impostata, in particolare da pressoché tutta la sinistra includendo dunque non solo i partiti ma anche i sindacati, sul piano della solidarietà, sui buoni sentimenti dell’accoglienza verso chi fuggiva da condizioni disumane di vita. Tutte cose ovviamente vere, ma che non sono palesemente sufficienti a consentire l’integrazione di queste persone dentro il nostro sistema politico e sociale”.
Il sociologo spiega meglio le sue affermazioni: “Certamente per settori importanti, penso al lavoro agricolo e al bracciantato, il sindacato sta operando con grande sforzo, con grandi investimenti di energie e di intelligenza, con grande sacrificio e sta facendo passi avanti. Ma questo atteggiamento, appunto, ha riguardato a mio avviso solo alcuni settori del lavoro straniero in Italia”.
Sintetizzando il concetto in una frase, Manconi dice a Collettiva che si tratta di “passare dalla solidarietà all’organizzazione e all’integrazione piena dei lavoratori stranieri anche dentro le organizzazioni sindacali”. Questo è l’unico modo perché i lavoratori italiani non li vivano come altro da sé e dunque, in situazioni di crisi come quella attuale, come pericolosi concorrenti, che è il modo in cui spesso li percepiscono con la conseguenza che al momento opportuno, al momento del voto referendario, non voteranno a loro favore”.
Circa l’atteggiamento del governo che si sente ora, dopo il voto referendario, molto rafforzato nelle sue scelte restrittive per le norme sulla cittadinanza Manconi dichiara di essere preoccupato per questa involuzione ulteriore, “anche perché il governo falsifica i dati. Quando i propagandisti di regime sostengono che l’Italia è il Paese che concede più cittadinanze, circa 200mila all’anno, propone dati falsi. Rispetto agli altri Paesi europei, se noi analizziamo i dati con serietà e quindi con criteri scientifici, non è affatto così”.
Negli altri Paesi, come ricorda il sociologo, c’è un automatismo che non viene registrato, dunque alla voce ‘accoglimento della domanda’ le cittadinanze in realtà sono maggiori di quanto accade in Italia: “Ma questo il governo non lo dice, quindi usa strumentalmente quelle 200mila richieste di cittadinanza ogni anno, ma voglio ricordare che la Banca d’Italia e Confindustria da almeno venti anni sostiene che l’Italia avrebbe bisogno di circa 600mila lavoratori stranieri all’anno. Rispetto a questi lavoratori stranieri la concessione della cittadinanza, ovviamente, è un formidabile contributo alla loro integrazione nel nostro sistema di relazioni, nella nostra convivenza civile e sociale”.
Ragionamenti ineccepibili, ma insufficienti a comprendere i timori di tanta gente per bene e di sinistra (e sì perché a votare sono andate prevalentemente persone con un discreto senso civico che votano diciamo così il Campo largo) e a tentare di convincerli. Qui – direbbe lo storico Gianpasquale Santomassimo – davvero bisognerebbe smettere di trattare i votanti da selvaggi, razzisti e trogloditi e cominciare a discuterci. In effetti, se non si spiega che se non fai, ad esempio, la raccolta differenziata a modìno poi quella spazzatura alla fine te la trovi nel piatto, nel naso attraverso i fumi di un bel inceneritore e nel cervello con infinite microplastiche che fin lì si sono infilate.
Vediamo allora di spiegare perché non bisogna aver timore del principio cardine della sinistra, l’uguaglianza, e al contempo gestire “cum grano salis” il fenomeno irreversibile dell’immigrazione.
La prima domanda da porsi è quanto ci costa (la paura) e cosa cambierebbe se la trattassimo come un investimento, e non solo come un problema da gestire. E per far prima, utilizziamo i calcoli ben fatti di Will Media.
Il 34,51 per cento dei 14 milioni di votanti ai referendum dell’8-9 giugno ha votato NO al dimezzamento da 10 a 5 anni dei tempi di residenza legale in Italia richiesti per ottenere la cittadinanza.
La campagna per il NO ha fatto leva sugli alti costi legati alla gestione dei nati all’estero ma residenti in Italia. Ma a guardare bene i numeri, e vista la situazione demografica in cui si trova il nostro Paese, c’è molto da smentire.
L’idea che gli immigrati pesino sui conti pubblici persiste da tempo. Eppure, nei media, gli immigrati danno più di quanto ricevono . Lo dice l’OCSE in uno dei suoi Migration Outlook .
Negli Stati Uniti OCSE, il rendimento fiscale degli immigrati è del 53 per cento più alto rispetto a quanto ricevono , mentre in Italia e Spagna il ritorno arriva al 100 per cento. Tradotto: per ogni euro speso, lo Stato ne riceve almeno dovuto indietro.
Elaborazione Reuters su dati dell’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (OCSE)
Ma allora perché si continua a trattare l’immigrazione come un problema economico e non come una risorsa strategica?
Il falso mito del costo
Chi è contrario dice: “ Eh, ma non contate le spese per i controlli, le frontiere, ecc. ”. Ok, mettiamole dentro. Che succede? I ritorni fiscali per persona rimangono comunque pari o superiori a quelli del resto della popolazione e in Italia rimangono addirittura positivi.
Elaborazione Reuters su dati dell’Organizzazione Europea di Cooperazione Economica (OECE)
Come mostra il grafico, in Italia, gli immigrati generano un ritorno fiscale positivo del +20%, a fronte di un -8% dei nativi, il differenziale più marcato tra i paesi analizzati. Negli USA entrambi i gruppi hanno un impatto negativo, ma i nati all’estero (-12%) pesano meno dei nativi (-19%). Nel Regno Unito avviene il contrario: gli immigrati (-15%) incidono più dei nativi (-4%). In Germania il dato è neutro per i nati all’estero (0%) e lievemente negativo per i nativi (-4%). In Svezia, invece, i nativi contribuiscono positivamente (+3%) mentre i nati all’estero mostrano un impatto negativo del -10%. A livello OCSE, entrambi i gruppi registrano un saldo medio negativo: -3% per stranieri e -5% per nativi.
In ogni caso, sarebbe irrealistico pensare di poter fare a meno delle persone immigrate con profili di competenze più basse, considerando i ruoli essenziali che spesso ricoprono. La loro assenza avrebbe infatti conseguenze significative e potenzialmente negative sull’economia.
Chi scegliamo e chi perdiamo
Non tutti gli immigrati contribuiscono in egual misura, è vero. Quelli con qualifiche alte e redditi potenziali elevati, nei media, versano più imposte e ricevono meno aiuti pubblici. Ma proprio per questo sono i primi a scegliere dove andare.
Ed è qui che entra in gioco un concetto poco discusso ma fondamentale: la selezione avversa.
Mettiamola così:
Il Paese A concede la cittadinanza dopo 5 anni.
Il Paese B dopo 10 anni, più 3 di burocrazia, test culturali, balzelli e incertezza.
Dove sceglie di trasferirsi e lavorare un ingegnere altamente qualificato o un medico con 10 anni di esperienza?
La risposta è ovvia. E così, mentre ci convinciamo di “tenere sotto controllo” l’immigrazione, rischiamo di respingere proprio chi avrebbe un impatto positivo su PIL, gettito fiscale e innovazione.
Il circolo vizioso europeo
L’Europa è un continente demograficamente vecchio, con bassi tassi di natalità e con un’economia che fatica a tenere il passo con il resto del mondo. In questo scenario, ridurre l’immigrazione non solo non aiuta: accelerare il declino .
Meno lavoratori meno crescita
meno entrate fiscali
più deficit
meno soldi per investire
ancora meno crescita
Draghi l’aveva detto
A settembre, Mario Draghi che, seppur a suo modo (turbo capitalismo), sa certo far di conto, aveva lanciato l’allarme: senza investimenti massicci, l’Europa rischia una agonia lenta fatta di crescita zero e declino economico. Limitare l’immigrazione in modo indiscriminato va esattamente nella direzione opposta: più debito, meno PIL, meno competitività .
Certo, l’immigrazione va gestita se non si vuol fabbricare rifiuti umani da disperdere nelle strade delle città ad uso e consumo della criminalità, della Caritas cristiana o degli imam misogini. Ma usarla come capro espiatorio è una scorciatoia narrativa che non possiamo più permetterci. Così come non può più permettersi la Sinistra di prescindere dal concetto di uguaglianza anche per dare un senso a un mondo che un senso non ce l’ha, quando fa la guerra ai bambini.