Diritti, Salute

Se dalle carceri psichiatrizzate non se ne esce, è doveroso evadere dalla malattia mentale. Va in diretta da Torino il convegno “Dalla cura delle psicosi alla prevenzione”

In questo mondo di matti conviene partire da un fatto conclamato. Quasi seimila persone, il 12 per cento delle persone detenute ha una diagnosi psichiatrica grave (l’anno scorso era il 10 per cento). È un numero calcolato da Antigone non è quello medico-sanitario, dunque non serve contestarne la raffinatezza. È vero, potrebbe essere più preciso, anzi dovrebbe esserlo, se solo i ministeri della salute e della giustizia si decidessero a affrontare con più rigore la questione.

Il dato comunque ci dice moltissimo sul “governo” del carcere e della penalità nel nostro Paese e ci riporta alle fondamentali riflessioni sul carattere intrinsecamente “patogeno. Il carcere è tossico, nuoce alla salute, soprattutto quella mentale. Occorre partire da qui per capire davvero qualcosa sui rapporti tra detenzione e salute mentale.

“Sta’ diventando un carcere di matti”. A dirlo, appena varcata la soglia della ATSM (Articolazione per la tutela della salute mentale) è un ispettore di polizia penitenziaria con tanti anni di servizio alle spalle. Con parole diverse, ma dallo stesso significato, lo ripetono tutti gli operatori. Poco cambia se si tratti di un grande carcere metropolitano o di una piccola struttura in provincia. In Sicilia o in Trentino. La percezione diffusa tra gli operatori è che le patologie psichiche tra la popolazione detenuta siano in continuo ed esponenziale aumento e che gli strumenti e le risorse a disposizione per trattarla siano sempre più scarse e inadeguate.

Se agli operatori il problema appare chiarissimo, la reazione diffusa del decisore politico è quella di vedere la causa principale di questo diffuso disagio la chiusura degli Ospedali Psichiatrici giudiziari, che hanno smesso di esistere per legge nel 2014 e per davvero nel 2017. Gli Opg erano infatti l’ “istituzione di scarico” a cui inviare le persone detenute con disagio psichico di più difficile gestione.

A partire dalle l. 9/2012 e, poi, definitivamente, con la l. 81/2014 per le persone con disagio psichico che già si trovano in carcere (i “rei-folli”, come li definisce, ancora oggi, il gergo penalistico) devono essere trovati gli strumenti di cura esclusivamente all’interno del sistema penitenziario.

Oggi dunque non è più possibile “scaricare” sulle nuove Rems la persona detenuta con patologia psichica (nelle forme dell’ “osservazione psichiatrica”, della infermità psichica sopravvenuta o nelle ipotesi previste dagli artt. 111 e 112 del Regolamento penitenziario).

Se non fosse stata prevista questo limite, il carcere avrebbe continuato a (sovra)affollare le Rems, come prima faceva degli Opg, usando l’etichetta di malattia mentale, come “scusa” per delegare ad altri la gestione di quell’individuo “problematico”. L’unico modo di rompere questo meccanismo, era distinguere la risposta sanzionatoria, precludendo, per legge, la possibilità di ricorrere al ricovero in Rems e riaffermando una tanto netta quanto criticabile divisione tra pene per gli imputabili e misure di sicurezza per i non imputabili.

Oggi dunque, per la persona detenuta con disagio psichico dichiarata con logiche surreali “capace di intendere e volere” esistono due principali soluzioni. Una è fuori dal carcere, qualora la patologia psichica lo renda “incompatibile” con l’ambiente carcerario. E’ questa una strada percorribile, da quando nel 2019 è intervenuta la Corte Costituzionale (sent. n. 99/2019). Investita della questione dalla Corte di Cassazione (Cassazione Penale, Sez. I, Ordinanza n. 13382, 22 marzo 2018) sulla compatibilità costituzionale della differenza tra grave patologia fisica e psichica. Fino ad allora la legge distingueva tra grave infermità fisica e psichica, precludendo ai malati psichici di usufruire delle possibilità date ai malati fisici e, principalmente, del rinvio della pena ex art. 147 c.p. e della detenzione domiciliare ex art. 47, terzo comma, 1-ter (la c.d detenzione domiciliare “in deroga” o “umanitaria”).

Un’alternativa al trattamento “fuori” sarebbe quella di prevedere una misura “alternativa” specificamente pensata per le persone detenute con una patologia psichiatrica diagnosticata nella detenzione domiciliare, sulla scorta dell’affidamento “terapeutico” immaginato per le persone tossicodipendenti, ma il legislatore pare rimanere sordo a questa proposta. Che, diciamolo, presupporrebbe una chiarezza del sistema per la cura della malattia mentale che tuttora latita.

L’altra strada – che è anche la più frequente – è che la patologia psichica venga “trattata” dentro al carcere. Ed è qui che il carcere dimostra tutta la sua inadeguatezza di spazi, professionalità e risorse.
Gli spazi interni per il trattamento della patologie psichiatriche, soprattutto nella fase più acuta sono chiamate Articolazioni per la Tutela della Salute Mentale (ATSM), i “repartini”, nel gergo carcerario. In Italia sono 32 Atsm italiane, collocate in 17 istituti penitenziari, uno per regione. Hanno posto per meno di trecento detenuti in totale, Le più grandi sono a Barcellona Pozzo di Gotto (50 persone) e Reggio Emilia (43 persone), certamente non a caso quei due istituti erano Opg, oggi diventati case circondariali.

Sono organizzate per via amministrativa e regolamentare, senza precisa copertura normativa, le Articolazioni per la tutela della salute mentale (c.d. Atsm), sezioni a prevalente gestione sanitaria, concentrate in pochi istituti, almeno uno per regione, con un compito quasi impossibile: curare il disagio psichico, soprattutto nelle forme più acute, in un luogo di espiazione di pena. Un ossimoro, che ha prodotto sistematiche violazioni dei diritti individuali e gravi problemi gestionali, più volte sottolineati dalla rete dei Garanti delle persone private della libertà, dalle associazione per la tutela dei diritti umani e dal Comitato Europeo per la Prevenzione della Torture durante le visite ispettive svolte nel nostro Paese.

Quelle Articolazioni rispondono però ad un “bisogno” profondo e radicato della cultura psichiatrica e penitenziaria, soprattutto in epoca di risorse scarse. “Dove lo metto?” è la domanda che cela infatti l’urgenza e la continua necessità di trovare una collocazione fisica dove la persona “non rechi danno a sé e agli altri”, un luogo sicuro. Una domanda che mette in secondo e terzo piano, le esigenze della persona, la sua storia clinica e personale, i suoi vissuti, la rete di famigliari e rapporti sociali che quella persona ha fuori dal carcere.

E qui il principale strumento di governo della salute mentale diventa il ricorso massiccio agli psicofarmaci, utilizzate con finalità non solo terapeutiche-sanitarie, ma di “sedazione collettiva” e “pacificazione” delle sezioni. I numeri sono impressionanti: il 20 per cento persone detenute (oltre 15 mila) fanno regolarmente uso di stabilizzanti dell’umore, antipsicotici e antidepressivi, cioè di quella tipologia di psicofarmaci che possono avere importanti effetti collaterali con picchi del 70% a Trento e del 44% a Modena; il 40% (30 mila persone) fa uso di sedativi o ipnotici.

Le donne con diagnosi psichiatriche gravi rappresentavano, negli istituti visitati, il 12,4% delle presenti, contro il 9,2% della rilevazione complessiva; le donne che facevano regolarmente uso di psicofarmaci rappresentavano invece il 63,8% delle presenti, contro il 41,6% complessivo.

Se la malattia è una prigione, se i malati vengono arrestati e le “carceri psichiatrizzate” sembrano una via senza ritorno, a Torino in questi giorni c’è comunque chi dice no propondendo una ricerca diversa, AppassionataMente. Il titolo facile, dal sapore giovanile, non fa giustizia dell’autorevolezza del convegno presso l’Ospedale Mauriziano: Dalla cura delle psicosi alla prevenzione. L’evento con Andrea Masini, Andrea Filippi, Gabriele Cericola è aperto a tutti. Seguiamolo.

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