Attualità

Se la povertà diventa un delitto da perseguire

Le recenti polemiche sul reddito di cittadinanza con l’inevitabile linciaggio mediatico dei percettori (invitati nelle varie trasmissioni vengono scherniti da imprenditori e politici provocandone la reazione che spesso ha sfiorato la rissa), hanno portato al centro dell’attenzione un tema che è da sempre dibattuto: la povertà. Per secoli si è la si è considerata come conseguenza dei valori e degli atteggiamenti dei poveri che si supponeva si generassero all’interno di una non meglio definita “cultura della povertà”. I primi tentativi di dare una spiegazione più strutturalista furono portati da Adam Smith e David Ricardo che iniziarono a mettere la povertà in relazione alla particolare conformazione della struttura sociale e in particolare con il mercato del lavoro. Ma sarà soltanto con Karl Marx che la condizione di povertà di gran parte della popolazione dell’epoca verrà considerata una conseguenza del sistema di produzione capitalistico contribuendo a spogliare in parte questa condizione di ogni connotazione negativa. La povertà, infatti, diventa una “questione sociale” con l’avvento della società industriale. Anche se questi concetti furono anticipati da altri studiosi in epoche ben precedenti basta vedere l’analisi del fenomeno analizzata da Alessio Macrembolite nel 14° secolo. Qui già si faceva una distinzione tra “laboring pour”, il povero in grado di mantenersi con il proprio lavoro anche se in determinate circostanze il reddito non garantisce la sopravvivenza e il “pauper”, il povero con totale insufficienza di guadagni a causa di una disabilità o di una serie di concause.

Da queste e da altre analisi e studi si è arrivati un po’ ovunque alla determinazione della necessità di articolare una qualche forma di sostegno alla povertà come carattere obbligatorio dell’assistenza ai poveri, non più all’elemosina, atti discrezionali, espressione contingente di benevolenza, di solito valida nel caso particolare ma inefficace come azione di regolamentazione o repressione del pauperismo.

La grettezza del dibattito attorno al reddito di cittadinanza ci pone di fronte ad una involuzione culturale, su questo argomento, di cui cominciamo a vedere, complice anche l’accelerazione prodotta prima dalla pandemia poi dalla guerra con le relative speculazioni sul mercato dell’energia e con le relative pesanti ricadute sociali ed economiche. Siamo in presenza di un ritorno all’idea della povertà come colpa individuale. Da questo arretramento culturale derivano alcune conseguenze nelle politiche sociali non solo in Italia ma in tutti quei Paesi dove la presenza di consistenti formazioni sovraniste ha esercitato una spinta involutiva nelle dinamiche sociali. In Italia assistiamo alla trasformazione della natura delle politiche della sicurezza sociale che sono gradualmente passate dall’essere strumenti di garanzia dei diritti di cittadinanza a condizioni di mantenimento dell’ordine pubblico. Da questa mutazione culturale derivano politiche di tipo repressivo che vedono il sistema giudiziario sempre più orientato a perseguire quella che il sociologo Ferrajoli chiama criminalità di sussistenza e non i crimini dei cosiddetti colletti bianchi. Da qui a definire la povertà una sorta di devianza il passo è breve. Si tende ad attribuire colpe individuali e collettive sempre più in base a una determinata condizione o a una specifica identità (Rom, migrante ecc) stravolgendo le più elementari basi del diritto penale e del principio di legalità.

Fa da contraltare a questo orientamento punitivo della povertà e della marginalità quello che Marvin Olansky definisce conservatorismo compassionevole una sorta di neopaternalismo caritatevole che tende a ridurre la questione della giustizia sociale, che dovrebbe avere una caratterizzazione fortemente politica ed etica, ad un approccio che appartiene alla morale privata. Noto queste caratteristiche in molti volontari di organizzazioni umanitarie che finiscono per mantenere un atteggiamento ben descritto da Marco Revelli : “Ripropongono- nel vuoto aperto dalla caduta, o quanto meno dall’affievolimento, di quella forma universalistica di riconoscimento che era stata la grande famiglia moderna dei diritti – nuove modalità del senso del sé o del noi. Nuove accezioni dell’essere in relazione, per certi versi rovesciate e opposte a quella: selettive, laddove i diritti erano universali. Personalizzate, mentre quelli erano astratti. Discrezionali e concesse – octroyées, come la costituzione dell’età della Restaurazione- in contrapposizione a ciò che era stato conquistato con la lotta, e affermato come prerogativa indisponibile”. Manca qui la capacità e la volontà di mettere in discussione il sistema capitalistico nel suo complesso, di vedere come la povertà sia la cartina di tornasole di tutte le contraddizioni del sistema e trarne le dovute e necessarie conseguenze. Stupisce che proprio in un momento di grande difficoltà economica non ci sia una spinta dal basso attraverso iniziative rivendicative di tipo sociale e/o sindacale. La silente accettazione di una situazione in così grave deterioramento fa il paio solo al silenzio dell’opinione pubblica di fronte alla degenerazione del conflitto Russo/Ucraino. Entrambe queste istanze (giustizia sociale e pace) non sembrano avere rappresentanza nel panorama politico e sindacale di questo come di altri Paesi

La cultura punitiva dei poveri e il conservatorismo compassionevole finiscono per produrre un orientamento sempre più diffuso a richiedere ai beneficiari delle misure di sostegno al reddito una prova di responsabilità, ad esempio nella gestione del denaro (vedi le norme sull’utilizzo del reddito di cittadinanza) e una disponibilità a intraprendere percorsi di uscita dalla povertà mediante l’accettazione di un lavoro di qualsiasi genere, senza peraltro prevedere un cambiamento nelle condizioni strutturali che hanno portato alla maturazione di uno stato di bisogno. Questo atteggiamento produce la tendenza a subordinare il sostegno agli indigenti alla condotta degli aventi diritto, talvolta ammantata da buoni propositi come quelli di attenuare il carattere burocratico e impersonale degli interventi stessi.

Non sorprende, alla luce di quanto fin qui scritto, che ci sia una tendenza ad essere sopravanzati da spinte che vanno nella direzione di una sorta di immunizzazione, di una mancata identificazione dei poveri. Ha buona ragione Serge Paugam a segnalare come sembri prevalere una “logica egoistica che conduce la maggioranza della società a distaccarsi dai suoi segmenti ritenuti poco raccomandabili”. Non sono più i sentimenti, la compassione, la solidarietà, l’atteggiamento collettivo prevalente, ma la reificazione (nella dottrina marxista, il processo per cui, nell’economia capitalistica, il lavoro umano, soprattutto manuale, è considerato e trattato alla stregua di una cosa). Ai preesistenti legami sociali si sta velocemente sostituendo un vuoto sociale. A causa dello straordinario aumento delle disuguaglianze economiche, la distanza sociale tra i poveri e i super-ricchi asserragliati nei loro fortini inespugnabili diventa tale da non poter essere neanche tematizzata. Essa non è più soltanto incolmabile, diventa incommensurabile, esattamente come non era comparabile quella che opponeva il servo al padrone.

Ci vorrebbe una classe politica di ben altro spessore e, forse ancor più, una società con ben chiari i valori che vuole mettere al centro della propria vita sociale e avere la forza morale e la coerenza di perseguire l’applicazione in ogni aspetto della vita, della politica e del lavoro. Ci vorrebbe ma non c’è, non ci sono né l’una e, purtroppo, neppure l’altra e la prospettiva non induce all’ottimismo.

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