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SOCIAL Contro il @GenocideinGaza. La speranza viene dalla “Rivoluzione dei cocomeri”

Recentemente la Columbia University ha fatto arrestare studenti per aver protestato contro il “GenocideinGaza” di Israele e gli investimenti dell’università nell’apartheid israeliano. Le università in Europa stanno aumentando la cartolarizzazione e la repressione contro gli studenti che esprimono solidarietà con la Palestina.

Allo stesso tempo, è continuato il sostegno da parte di stati, aziende e istituzioni al genocidio in corso da parte di Israele a Gaza. La legislatura dell’Ontario ha vietato le kefiah; la polizia in Europa ha arrestato e punito individui semplicemente per aver esercitato il proprio diritto alla protesta pacifica e per aver chiesto la coerente applicazione del diritto internazionale.

Quali lezioni stanno impartendo le università e i governi occidentali ai loro giovani cittadini e studenti quando attaccano proprio i valori e i diritti che si ritiene siano fondamentali per le società occidentali?

Questa mobilitazione globale sostenuta e guidata dai palestinesi rappresenta una nuova, audace fase di un’ondata continua di solidarietà con la lotta palestinese contro il sistema israeliano di occupazione, apartheid e colonialismo, vecchio di decenni, e per i diritti inalienabili del popolo palestinese alla giustizia, alla libertà , alla dignità.

Quelli sotto occupazione, quelli con una cittadinanza di seconda classe in Israele o altrove, i rifugiati e il resto della diaspora; sono tutti “orfani di una patria” (nelle parole di EdwardSaid), e tutto ciò che chiedono è giustizia, diritti, libertà e non discriminazione. Ciò è compreso visceralmente e profondamente sentito attraverso le generazioni, e i giovani stanno assumendo l’iniziativa nel dare voce a un’umanità che altrimenti andrebbe perduta. Oggi la coscienza intersezionale di massa, comprese le comunità ebraiche in tutto il mondo, ha posto l’emancipazione palestinese al centro della lotta globale per la giustizia, compresa la giustizia climatica, e per i diritti umani e la dignità per tutti, non solo per pochi privilegiati.

La Carta delle Nazioni Unite parla di “Noi, i Popoli”. E Noi, i Popoli, Persone di ogni percorso di vita, dobbiamo restare uniti contro ogni oppressione, indipendentemente dall’autore e dalla vittima, e per la parità di diritti per tutti.

Francesca Albanese

La relatrice speciale delle Nazioni Unite per le violazioni dei diritti umani commessi nei Territori palestinesi occupati è la prima donna in assoluto ad aver ricoperto quell’incarico. “Ho intenzione di usare la mia posizione per dar spazio, al di fuori delle sedi istituzionali, a chi si batte per il rispetto dei diritti in quella regione, siano palestinesi o israeliani”, aveva dichiarato in una intervista il giorno della nomina. Conoscitrice della storia mediorientale, studi alla School of Oriental and African Studies (Soas) di Londra, ha vissuto in Palestina.

“Sono due anni che Israele mi nega di fare il mio lavoro come chiesto dall’Onu non facilitando il mio ingresso nel Territori palestinesi occupati – denuncia –. E sono 17 anni che lo fa nei confronti di tutti i relatori speciali che hanno ricoperto questo mandato”. La decisione di Israele dopo le sue affermazioni, definite «oltraggiose», secondo cui l’attacco del 7 ottobre “sarebbe stata una reazione all’oppressione israeliana”.

Il divieto non ferma la relatrice Onu, che su X, incalza: “Il divieto di ingresso da parte di Israele non è una novità. Israele ha negato l’ingresso a TUTTI i Relatori Speciali/OPt dal 2008! Ciò non deve diventare una distrazione dalle atrocità di Israele a Gaza, che stanno raggiungendo un nuovo livello di orrore con il bombardamento di persone nelle “aree sicure” di Rafah”.

 

In questo periodo l’emoji dell’anguria “🍉” si sta diffondendo sempre di più sui social network (Instagram, TikTok, Facebook e X/Twitter) per indicare il proprio sostegno alla causa palestinese e in sostituzione della bandiera dello Stato di Palestina 🇵🇸 (Paese non pienamente riconosciuto dal punto di vista internazionale).

In realtà il frutto ha assunto da decenni un significato politico e identitario nel più ampio contesto del conflitto israelo-palestinese ed è stato usato, ad esempio, nel corso di raduni e manifestazioni. Ma perché? In questo articolo elenchiamo brevemente i motivi grafici, storici e algoritmici di questa associazione.

Dal punto di vista grafico, l’associazione tra anguria (e sua emoji) e bandiera dello Stato di Palestina è abbastanza immediato: i colori. La bandiera utilizza, infatti, i cosiddetti “colori panarabi”, cioè rosso, nero, bianco e verde. Si tratta di tinte riprese totalmente o parzialmente da alcune bandiere africane e mediorientali un tempo conquistate e colonizzate dal popolo arabo e che hanno mantenuto una forte impronta araba.

I quattro colori furono combinati per la prima volta nel 1916-1917 nella “bandiera dell’Hejaz”, utilizzata dai nazionalisti arabi nel corso della rivolta contro l’ Impero Ottomano durante la Prima Guerra Mondiale. L’anguria, neanche a dirlo, combina le stesse tinte: il rosso della polpa, il nero dei semi e il bianco-verde della buccia. A livello cromatico è quindi perfetta per indicare la bandiera palestinese.

Motivazione storica
L’esposizione della bandiera dello Stato di Palestina è stata proibita dallo Stato di Israele all’interno dei suoi confini in alcuni periodi della sua storia o in specifici contesti o situazioni. L’utilizzo dell’anguria in sua sostituzione, come simbolo di sostegno e protesta, è quindi in atto da decenni, anche perché si tratta di un frutto ampiamente coltivato nella regione palestinese.

Ricostruire la prima volta che è stata stabilita l’associazione, oggi usata non solo nei social network, ma anche in opere d’arte, magliette, gadget e graffiti, è complesso e si rischia di dare informazioni sbagliate. Probabilmente tutto nacque nel periodo successivo al 1967 e alla Guerra dei Sei Giorni, dopo la quale Israele occupò temporaneamente la Striscia di Gaza e la Cisgiordania e proibì l’esposizione della bandiera palestinese (fino al 1993). Questo portò gli arabi palestinesi a utilizzare l’anguria come segno di appartenenza e protesta. L’associazione si estese poi al mondo dell’arte e della letteratura.

Motivazione algoritmica
Infine, c’è un’altra motivazione per cui l’associazione tra anguria e Palestina sta avendo grande diffusione sul web: in queste settimane gli algoritmi di alcuni social network stanno penalizzando la diffusione di alcuni contenuti che parlano del conflitto israelo-palestinese e che contengono, nel titolo, nella descrizione, nel parlato o negli hashtag, anche parole come “Palestina”, “palestinese” o l’emoji della bandiera palestinese. L’emoji dell’anguria, invece, non è soggetta ad alcuna limitazione e pertanto può essere usata liberamente dagli utenti che vogliano semplicemente parlare dell’argomento o che vogliano schierarsi.

Ma davvero si è verificato questo tipo di censura? E come mai? Almeno parzialmente pare sia avvenuto. Secondo Meta, ad esempio, cioè l’azienda proprietaria di Facebook e Instagram, si sarebbe trattato in parte di bug (errori di funzionamento delle piattaforme) e in parte di una limitazione preventiva attuata dagli algoritmi dei social network per evitare la diffusione di contenuti violenti.

 

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