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TEMPO ZERO. La Shoah non va presa a pretesto per fermare il mondo. Bisogna superare le crociate etno-nazionaliste radicali e ripensare profondamente quel pezzo di Medio Oriente. Israele può sopravvivere solo se ingloba Gaza e la Cisgiordania in un unico stato

Per tempo “zero” s’intende l’istante in cui lo spazio e il tempo hanno avuto origine e che normalmente si fa coincidere con la nascita dell’universo, con il “Big Bang”. Da essere un solo punto – insomma – l’universo, al primo “vagito” del cosmo, è diventato spazio.
Se vi è chiaro, provate ora a ripensare, con questa suggestione negli occhi, una rinascita concreta del Medio oriente che prescinde, senza negare, dagli orrori del passato. In Europa e come in quella martoriata regione.

Dopo il Corriere della Sera con i più saggi ex inviati, è il magazine wired a rilanciare il dibattito partendo da quanto disse una volta l’ex presidente degli Stati Uniti Donald Trump in presenza del re di Giordania. “Con la soluzione di uno Stato unico iprimo ministro d’Israele tra qualche anno farà di nome Mohammed”. Le parole del magnate risaltarono – e non è la prima volta – per la loro brutale onestà. Nel tormentato dibattito sulle possibili soluzioni alla crisi in Medio Oriente, non c’è modo migliore per sintetizzare meglio le obiezioni della destra israeliana e di numerosi attori occidentali per la creazione di un unico Stato che comprenda Israele, Cisgiordania e Striscia di Gaza, con il riconoscimento di cittadinanza e pari diritti per tutti gli abitanti, a prescindere da etnie e religione.

La battuta ironica di Trump, nel 2018, erano fondata su una semplice constatazione: Israele è uno Stato etno-nazionalista. Questa semplice affermazione è accolta spesso con rabbia dai sostenitori liberal di Israele, nonostante abbia le sue radici nei precetti di Theodore Herzl o nella Dichiarazione di nascita dello Stato ebraico.

Una scomoda verità

L’identità di Israele è stata definita, nella radicalizzazione degli ultimi decenni, da una miriade di leggi. La più eclatante delle quali, approvata dalla Knesset (il parlamento israeliano) nel luglio di cinque anni fa, fu chiamata “legge Stato-nazione”, e per la prima volta definiva ufficialmente lo Stato come “la casa nazionale del popolo ebraico“, congelando i palestinesi in Israele, e non solo, in una condizione da “stranieri in casa propria“.

Per i difensori dello status quo questa identità ebraica è sfumata dalla realtà dei fatti: un vivace, giovane Stato multietnico con numerose minoranze integrate in ruoli di potere. Tuttavia c’è la spina dei coloni in Cisgiordania: molti sostenitori di Israele li considerano una forza illegittima e aggressiva che ostacola la creazione di uno Stato palestinese. Persino Joe Biden, mercoledì 25 ottobre, ha denunciato le loro aggressioni in un discorso a braccio tenuto in Australia. Essendo spesso degli ultra-religiosi, ultra-conservatori e ultra-nazionalisti, i coloni rendono questa condanna un po’ più facile.

Ma è una condanna che spesso resta vuota, utile solo a far apparire ragionevole chi la pronuncia: nonostante un impegno dichiarato a opporsi agli insediamenti, anche da parte di Washington, Israele non ha mai intrapreso azioni sostanziali per fermarli, probabilmente a causa delle conseguenze politiche interne.

Una eccezione ci fu, ed è ancora nella memoria di tanti: quando, nel 2005, il falco Ariel Sharon decise di schierare l’esercito israeliano a Gaza per trascinare via a forza alcuni coloni, facendo distruggere tutte le case per non lasciarle ai palestinesi. Si trattava di “appena” 8.000 abitanti israeliani della Striscia: oggi, per liberare gli insediamenti illegali in Cisgiordania, bisognerebbe trasferirne circa 30 o 40 volte di più. Il potenziale risentimento degli ultra-nazionalisti lo possiamo solo immaginare.

I rischi di uno Stato plurale

Se la soluzione a due Stati è complicata dalla presenza dei coloni, l’alternativa, ossia una soluzione a uno Stato in cui Israele controlla la Cisgiordania e la Striscia di Gaza, comporta un altro rischio evidente, per i nazionalisti di destra e di sinistra: l’inglobamento di una vasta parte della società palestinese, posseduta da risentimento atavico, desiderio di vendetta privata e un credo religioso caratterizzato da una forte intolleranza, nella cittadinanza israeliana preesistente.

È ovvio che non si tratta di una passeggiata. È improbabile che Hamas, come entità etno-teocratica, subisca un processo di moderazione in questo scenario. Ne va della sua natura intrinseca, e gli sforzi per riformarla potrebbero essere vani.

Ma proprio per questo sia Israele, come indiscussa potenze economica e militare nella regione, che gli Stati Uniti come nazione più armata e ricca della Terra hanno una responsabilità cruciale nel compiere passi per portare un cambiamento positivo nei Territori, e provare a integrarli in un ordine democratico, plurale e in un sistema di welfare che renda superfluo quello di Hamas. Formazione che, peraltro, non si confronta con le elezioni dal 2006, e potrebbe non godere di un consenso democratico così stabile. Va da sé che questo fardello non sia gradito dalla maggior parte degli israeliani medi, ma non può esistere un percorso valido verso la pace per loro senza assumersi questa responsabilità.

Stato ebraico o democratico?

Tuttavia, prima ancora di questa montagna da superare, è proprio l’etno-nazionalismo israeliano a fare da ostacolo: uno Stato unico potrebbe portare i palestinesi a superare numericamente gli ebrei a causa della crescita demografica. Questo si tradurrebbe nella la fine di Israele come Stato ebraico e democratico o, come ha affermato con rassegnazione l’ex primo ministro israeliano Ehud Barak, nella creazione di uno Stato di apartheid, che priva di diritti politici, libertà economica e giustizia i 4,7 milioni di palestinesi, causando instabilità permanente per Israele e ulteriore risentimento nel mondo arabo.

Sembrerebbe la soluzione più ovvia quella di far condividere sia a israeliani che palestinesi la terra di Canaan, con un impegno assoluto per il disarmo e un sistema parlamentare rappresentativo nel quale fare politica, come succede nella maggior parte delle democrazie. Ma se l’incremento di una popolazione etnica minaccia l’identità di uno Stato, questo non indica in sé una situazione premoderna? Non ci suggerisce un’incompatibilità di quello Stato con la modernità?

Forse, conoscendo la risposta, il sostegno rassegnato a una soluzione a due Stati anziché uno è stato la policy degli Stati Uniti fin dall’amministrazione di George W. Bush, in quanto potrebbe garantire che Israele rimanga una democrazia a maggioranza ebraica e, al contempo, offrire giustizia ai palestinesi. Questo progetto gode tuttora di un ampio sostegno nell’elettorato statunitense, anche all’indomani dell’atroce attacco di Hamas del 7 ottobre, che ha causato la morte di circa 1.300 israeliani e scatenato la risposta militare di Israele con una catastrofe umanitaria.

Ma le rinnovate richieste per una soluzione a due Stati non riescono a tradursi in un’azione politica significativa. Forse perché nessuno crede più alla liberazione dei territori della Cisgiordania dai coloni. O forse perché quella partizione, se avvenisse, potrebbe paradossalmente certificare quegli stessi territori come entità nemica dell’intero Occidente. Biden si è detto disponibile per una nuova generazione di colloqui in Medio Oriente, ma solo dopo che la guerra sarà finita e Hamas sradicata. La sinistra del Partito Democratico ha sostanzialmente abdicato a qualsiasi tentativo di fare pressione. Non granché, per un cambiamento di strategie.

Qualcosa sta cambiando

La storia solitamente è scritta dal più forte. Eppure, inevitabilmente, la marcia del tempo comporta l’emergere di concetti trasformativi che sfidano le narrative dominanti. Nonostante gli eccidi del 7 ottobre, la convinzione che né israeliani né palestinesi, ebrei o arabi o chiunque altro, possano essere moralmente rimossi sistematicamente dalla Palestina – come infatti insistono le Convenzioni di Ginevra – spinge milioni di persone negli stessi Stati Uniti a dichiararsi alleati di entrambi.

Che si tratti dell’opzione due popoli – due Stati, oppure dell’opzione a uno Stato solo, con uno Stato in cui ebrei e arabi, musulmani cristiani o di religione ebraica abbiano uguali libertà e diritti, si sta sempre più palesando nel dibattito l’insostenibilità dell’idea di Stato etnico. E questa nozione getta i semi per un movimento politico e d’opinione volto modificare il rapporto di Israele con i suoi alleati.

Se vanno prese sul serio gli ammonimenti di quanti vedono Israele come un santuario da proteggere dalla barbarie, e le loro preoccupazioni molto sincere, i difensori dell’andazzo attuale e delle politiche fallimentari della destra non hanno affrontato davvero il nucleo del problema: che l’etno-nazionalismo ha conseguenze, poche o nessuna delle quali buona, e che sia la violenza periodica che la crescente condanna internazionale del governo israeliano sono riflessi di quella tensione centrale, inevitabile, irrisolvibile.

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