Al “non” come negazione ho sempre preferito il “no” come rifiuto. Fa stare meglio. Così ai negazionisti ho sempre privelegiato i rivoltosi. A volte fan sorridere, altre volte irritano; comunque sia non mi fanno troppa simpatia neanche per questioni di poco conto. C’è chi pur di negare le festività anziché buon natale ti augura “buon solstizio d’inverno” e c’è chi, pur di negare il più grande evento musicale e di costume nazionale, è capace di soccombere in una sala d’essai con “La corazzata Potëmkin”.
La premessa sfuggita di mano, che farà irritare tanti, vuol essere solo una sorta di “civetta” per le edicole al fine di evitare equivoci al lettore che vorrà continuare a scorrere il testo. Null’altro. Chiedo quindi venia e procedo.
Mentre si consuma il più feroce crimine umanitario contro un’intera popolazione, trucidando uomini, donne e bambini c’è chi fa l’offeso per le parole dell’ex ambasciatrice Elena Basile quando invita la senatrice Segre a perorare con la sua autorevolezza la pace per i minori palestinesi. C’è chi si agita per una canzone al festival di Sanremo e chi provoca il buon senso organizzando, proprio ora, nelle università giornate dedicate alla shoah così da imprigionare presente e futuro al passato.
Il comunicato ripreso dalle agenzie. “L’importanza di una giornata come quella di oggi è il ricordo, per far sì che certe cose non accadano più. Tor Vergata in questo senso è impegnata nell’organizzazione di una serie di eventi che consentono, attraverso l’immersione in luoghi storici come questo della Villa di Mondragone, di condividere con la comunità il ricordo di un evento drammatico che ha funestato la società”.
Parole difficilmente opinabili quando non si coglie tra le righe un latente conservatorismo che acceca per non far vedere quel che di drammatico sta avvenendo davanti ai nostri occhi. Dovrebbe essere evidente che, senza negare quanto di disumano hanno combinato fascisti, nazisti, cristiani, truppe marocchine ecc… in passato, non ha alcun senso celebrare adesso le vittime del secolo scorso.
“L’attacco di Hamas del 7 ottobre non dà a Israele “la licenza per disumanizzare gli altri”. Il segretario di Stato americano, Antony Blinken, lancia l’ennesimo avvertimento a Tel Aviv, a quattro mesi dall’inizio della guerra a Gaza, ma le azioni concrete per manifestare il proprio cambio di postura non si vedono ancora. Il Senato, in queste ore, ha bocciato l’erogazione dinuovi fondi all’Ucraina e allo ‘Stato ebraico‘, ma il motivo non è legato a una scelta dell’amministrazione democratica, bensì all’ostruzionismo dei Repubblicani pro-Trump.
Foreign Affairs ci aiuta a capire.“Un luminoso giorno dell’aprile 1956, Moshe Dayan, il capo di stato maggiore delle Forze di difesa israeliane (IDF) con un occhio solo, si diresse a sud verso Nahal Oz, un kibbutz di recente costruzione vicino al confine della Striscia di Gaza. Dayan venne per partecipare alla funerali del 21enne Roi Rotberg, ucciso la mattina prima dai palestinesi mentre pattugliava i campi a cavallo. Gli assassini trascinarono il corpo di Rotberg dall’altra parte del confine, dove fu trovato mutilato, con gli occhi fuori dalle orbite Il risultato fu shock e agonia a livello nazionale. Se Dayan avesse parlato nell’Israele dei giorni nostri, avrebbe usato il suo elogio in gran parte per denunciare l’orribile crudeltà degli assassini di Rotberg. Ma come formulato negli anni ’50, il suo discorso era straordinariamente solidale nei confronti “Non diamo la colpa agli assassini”, ha detto Dayan. “Per otto anni sono rimasti nei campi profughi di Gaza, e davanti ai loro occhi abbiamo trasformato le terre e i villaggi dove loro e i loro padri abitavano nella nostra tenuta”. Dayan alludeva alla nakba, che in arabo significa “catastrofe”, quando la maggioranza degli arabi palestinesi fu costretta all’esilio a causa della vittoria di Israele nella guerra d’indipendenza del 1948. Molti furono trasferiti con la forza a Gaza, compresi i residenti di comunità che alla fine divennero città ebraiche e Dayan non era certo un sostenitore della causa palestinese: nel 1950, dopo la fine delle ostilità, organizzò lo sfollamento della rimanente comunità palestinese nella città di confine di Al-Majdal, oggi la città israeliana di Ashkelon. Dayan si rese conto di ciò che molti ebrei israeliani rifiutano di accettare: i palestinesi non dimenticheranno mai la nakba né smetteranno di sognare di tornare alle loro case. “Non lasciamoci scoraggiare dal vedere l’odio che infiamma e riempie la vita di centinaia di migliaia di arabi che vivono intorno a noi”, ha dichiarato Dayan nel suo elogio funebre. “Questa è la scelta della nostra vita: essere preparati e armati, forti e determinati, per evitare che la spada venga strappata dal nostro pugno e le nostre vite interrotte”. Questo il mantra che ha regolato finora la vita in medioriente.
Anzi, fino a ieri. Perché ora c’è Benjamin Netanyahu che con i suoi scagnozzi vuol fare tabula rasa dei Territori occupati e uccidere o scacciare tutti i palestinesi. La cronaca è sotto gli occhi di tutti. Non aggiungerò parole, foto e filmati strazianti, ma è ora che tutti, a prescidere dalle eventuali credenze religiose, si dedichino solo a costruire un unico (non due) stato dove possano convivere tutti, diciamo pure, in santa pace.
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