Intelligence

Tutto si tiene, madama la marchesa. Come l’intelligenza artificiale è entrata nell’elenco delle distopie di Davos

Guardate bene questa foto per un momento. Tanto poi ci ritorniamo.

Come sempre, quando qui parliamo di intelligenza artificiale finiamo, volutamente, per parlare l’altro, e dovendo in qualche modo tracciare un “dove eravamo rimasti” dalla puntata precedente di questa rubrica, l’unica rotta possibile passa dal far mente locale su cosa abbia catturato l’attenzione, a proposito di intelligenza artificiale, negli ultimi giorni del caotico flusso di informazioni sul tema.

Ora vi risparmieremmo oscuri processi di associazione di idee e noiose ricostruzioni cronologiche. La sintesi è che, alla fine, ci è rimasto il ritrovarci invischiati nella trama di fili che unisce disinformazione, energia, questioni ambientali e, come sempre, il potere di chi decide l’agenda da cui dipende il nostro oggi e il nostro futuro collettivo.

E allora, come sempre, prendiamola un po’ alla larga. Per qualche motivo qui non importante ci siamo imbattuti in questi giorni nell’ultima edizione del Global Risk Index Report del World Economic Forum (quelli di Davos, gente seria, che non scazza, avrebbe detto Giorgio Gaber)

Proviamo a dare una sbirciatina. L’incipit è già un programma. Nella descrizione del documento, il sito recita: “esplora alcuni dei rischi più gravi che potremmo affrontare nel prossimo decennio, in un contesto di rapidi cambiamenti tecnologici, incertezza economica, riscaldamento del pianeta e conflitti. Poiché la cooperazione è sotto pressione, le economie e le società indebolite possono richiedere solo il più piccolo shock per superare il punto di non ritorno della resilienza”.

E tiriamo fuori questa sintesi grafica:

Concentriamoci sui rischi a dieci anni (quelli a breve basta la cronaca, sono di una tragica e criminale banalità): eventi climatici estremi; sovraccarico dei sistemi vitali del pianeta; perdita di biodiversità e collasso ecologico; carenza di risorse naturali critiche; disinformazione; impatti negativi derivanti dalle tecnologie di intelligenza artificiale; migrazioni involontarie; problemi di cybersicurezza; polarizzazione della società; inquinamento. Insomma, un incrocio tra derive tecnologiche, crisi dell’ecosistema e collasso sociale globale.

Potremmo chiederci tante cose su questa lista, per esempio quanto essa coincida con i temi oggetto del “dibattito politico”, delle azioni di governo, dei programmi elettorali, delle campagne di comunicazione e dell’interesse del mainstream mediatico. Ma sono domande retoriche, e qui parliamo di AI, dopotutto, quindi vediamo cosa ci racconta lo zibaldone delle ultime cronache tecnocratiche.

Non seguiamo un metodo, non preoccupiamoci dei passaggi necessari per costruire una ragnatela. Quando sei una mosca invischiata nei fili, le questioni di ingegneria sono presumibilmente l’ultima delle tue preoccupazioni, per dirla gentilmente.

E visto che nella lista degli incubi del WEF c’è la questione ecologica, iniziamo da due storie: la prima riguarda Microsoft e la centrale nucleare americana di Three Miles Isle.

Secondo quanto riporta “The Verge” in questo articolo, Microsoft avrebbe siglato un accordo con la Constellation Energy Corporation, proprietaria dell’impianto, per riattivare uno dei reattori. Non quello coinvolto nel parziale meltdown nel 1979, ma un altro, fermato nel 2019 per ragioni economiche e sito nello stesso complesso industriale.

L’accordo prevede che Microsoft paghi una cifra non nota – ma sappiamo che Constellation ha messo a budget 1.6 miliardi di dollari per riattivare il reattore – per garantirsi per 20 anni 835 megawatt. Ovviamente per i suoi data center sempre più famelici di energia e di acqua per il raffreddamento delle sale calcolo piene di chip da 50 mila dollari al pezzo.

La seconda storia di incroci tra AI ed energia ce la racconta – qui il link al video dell’incontro – Eric Schmidt, CEO di Google dal 2001 al 2011, Presidente del Board di Google dal 2011 al 2015 e in seguito “consulente tecnico” di Alphabet, la società “madre” di Google.

Schmidt interviene a un summit “AI ed energia” convocato dal  think-tank “Special Competitive Studies Project”, il cui CEO è tale Ylli Bajraktari, un signore di cui sinceramente non sappiamo moltissimo, se non che ha fatto una brillante carriera nei ranghi del Dipartimento della Difesa USA fino a diventare Direttore della Commissione di Sicurezza Nazionale sull’AI. Per una serie di non improbabili eventi, l’inaspettato Presidente del think-tank è sempre lui, ça va sans dire, Eric Schmidt. Se vi siete mai chiesti che facce abbia il famoso complesso militare-industriale, eccovene servite un paio.

I quaranta minuti di sermone di Schmidt a questo incontro di altissimo livello tra tecnocrati, politici e industriali del settore energetico sono passati alla storia del circo mediatico per quello che il guru dice quasi alla fine (dal minuto 37 in poi), a proposito del fatto che non raggiungeremo mai l’obiettivo di 1.5 gradi dell’Accordo di Parigi, e che tanto vale continuare a spingere sull’AI visto che non siamo globalmente organizzati per rendere realistico il raggiungimento di quel target.

Ma il vero cuore del discorso sta nelle sue previsioni sull’evoluzione della domanda di energia dell’AI e sui limiti delle attuali infrastrutture elettriche, sia in USA che nel mondo. Herr Schmidt dice al suo importante auditorium che già oggi, in USA, l’AI consuma il 3% dell’energia disponibile in rete e che la sua previsione è che questo dato raggiungerà presto l’8 per cento. Il boss ci dice, molto chiaramente, che servirà una quantità enorme di energia, che oggi, semplicemente, nessuno è in grado di produrre.

Peccato che, oltre a bacchettare “Washington DC”, ossia politica e istituzioni pubbliche, il Sig. Schmidt abbia provato a fare quello che quelli come lui sanno fare meglio: prometterci salvifiche soluzioni per buona parte dei mali del mondo a colpi di data center e algoritmi. Ma non è una nuova bacchetta magica tecnologica quello di cui abbiamo bisogno per fare ciò che va fatto. Come arrestare il disastro ambientale e invertire una rotta diretta a un possibile collasso sistemico non è un problema di cui noi umani non conosciamo la soluzione. Dai rapporti dell’IPCC, agli impegni sempre disattesi delle varie COP, la lista delle cose da fare è nota ed è chiarissima. E non sarà l’intelligenza artificiale a risolvere il fatto che – e qui Schmidt ha drammaticamente ragione – non siamo minimamente organizzati per implementare nessuna soluzione.

Per chiudere il cerchio, e provare a toglierci di dosso un altro filo della ragnatela, è venuto il momento di parlare della foto. Ritrae una bambina in lacrime, appena salvata dai soccorritori dopo il disastro dell’uragano Helene, che ha provocato più di duecento vittime in vari Stati USA appena due giorni dopo il summit di SCSP. La bambina ha un giubbotto salvagente, e stringe amorevolmente il suo delizioso e fradicio cucciolo. Sullo sfondo le immagini dell’alluvione, e una barca di soccorritori.

Questa foto è diventata naturalmente virale, come poteva non esserlo? Ma il fatto nuovo è che numerosi “officials” della campagna presidenziale di Trump abbiano deciso di adottare questa immagine. Gente come Amy Kremer, ex candidata al Congresso in Georgia e fondatrice del movimento “Women for Trump”,  che dopo aver pubblicato la foto in un tweet che ha avuto più di tre milioni di visualizzazioni, e dopo essere stata subissata da commenti relativi al fatto che la foto era visibilmente un “deep-fake”, abbia tranquillamente replicato:

Voi tutti, non so da dove provenga questa foto e, onestamente, non ha nemmeno importanza. È impressa nella mia mente per sempre. Ci sono persone che stanno passando molto peggio di quello che viene mostrato in questa foto. Quindi la lascio perché è emblematica del trauma e del dolore che le persone stanno vivendo in questo momento“.

Occhio. Questa non è la versione aggiornata dei “fatti alternativi” di cui parlava in questa tragicomica intervista l’allora portavoce del Presidente Trump, Kellyanne Conway, nella vecchia polemica su quante persone avessero davvero presenziato la cerimonia del giuramento presidenziale sette anni fa.

Quello di cui si parla, qui, è lo sdoganamento finale della disinformazione tecnologica oggi resa facilmente possibile dalla AI generativa. Non importa che l’immagine sia falsa; è comunque rappresentativa della sofferenza di tante vittime di un uragano, e francamente, del fatto che sia falsa o no, come il vecchio Rhett Butler di “via col vento”, la nostra Amy Kremer se ne infischia.

Se dopo tutto questo saltare di palo in frasca vi sentite un po’ persi, tornate adesso al Risk Index Report del World Economic Forum: questioni ambientali, impatti negativi dell’AI, disinformazione, polarizzazione della società. Tutto si tiene, la ragnatela è solida e noi, come dice Erich Schmidt, non siamo organizzati per risolvere nulla.

Ma siete proprio sicuri, siamo proprio sicuri, che un addetto stampa di un capo di governo che se ne infischia dei (suoi) deep-fake sia una questione di poco interesse?

Alla prossima

Di seguito i collegamenti ad articoli e citazioni del servizio: Global Index Report WEF,  “The Verge” , incidente 1979, intervento Schmidt, sito SCPS, partecipanti evento SCPS, primo tweet Amy Kremer,  tweet risposta Amy Kremer, intervista portavoce Trump

 

 

 

 

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