Editoriale

REPORTAGE Prendere il largo come volontario sulla Life support di Emergency è un atto rivoluzionario che attraversa un mare che nessuno vuole navigare per essere esseri umani

Il 13 agosto scorso, con lo sbarco nel porto di Ortona dei 64 naufraghi a bordo si è conclusa la 23^ missione della Life Support, la nave di ricerca e soccorso di EMERGENCY che opera nel Mediterraneo Centrale. I naufraghi soccorsi dalla nave della Ong in due distinte operazioni di salvataggio avvenute il 9 agosto in acque internazionali della zona Sar maltese erano in tutto 65, ma durante la navigazione verso il porto assegnato è stata necessaria un’evacuazione medica. Con loro sono già oltre 1900 le persone salvate dall’inizio delle sue attività nel dicembre 2022. Come spiega Anabel Montes Mier, capo missione della Life Support, in uno dei comunicati stampa pubblicati da EMERGENCY: “Entrambi i casi erano stati segnalati da Alarm Phone. La prima operazione di soccorso è stata realizzata nella notte: una barca in vetroresina con 37 persone a bordo, di cui un minore non accompagnato. Una volta completato l’intervento abbiamo ricevuto l’indicazione di Ortona come porto di sbarco da parte delle autorità italiane. Dopo aver ricevuto una seconda segnalazione di una barca in pericolo abbiamo contattato le autorità, che ci hanno accordato il permesso di ritardare l’arrivo al porto assegnato. Siamo quindi andati verso il secondo caso di imbarcazione in difficoltà e siamo riusciti a trovarla dopo dieci ore di ricerca.” In entrambe le operazioni lo staff dei soccorritori è stato coordinato da Jonathan Naní la Terra, SAR Team Leader della Life Support.

Ho avuto l’opportunità di partecipare come volontario a questa missione. Il mio impegno di volontario con EMERGENCY dura ormai da oltre 15 anni e questa è stata l’ennesima occasione di constatare (non che ce ne fosse bisogno) quanto, oltre a fare la cosa giusta EMERGENCY ha la dote di fare le cose nel modo giusto. Il lavoro su questa nave di 51 metri, una piccola oasi rossa in un mare di disumanità come è diventato purtroppo il Mediterraneo, è incessante. Quello che colpisce è la ricerca costante dell’efficienza, del coordinamento nelle procedure e nell’efficacia degli interventi in mare. Sono continue le attività di addestramento sia del personale impegnato nelle operazioni di salvataggio che delle persone addette all’accoglienza dei naufraghi. Le frequenti riunioni di verifica e di confronto si concentrano su ogni dettaglio al fine di garantire il successo di ogni azione. Al comando della Life Support in questa missione c’era la comandante Laura Pinasco, persona che affianca alle indubbie qualità professionali doti rare di umanità e disponibilità. Sono valori che riscontro anche nel resto dell’equipaggio. A parte me, nessuno di loro è un volontario, sono tutti professionisti, ognuno con il proprio bagaglio di esperienza maturata nelle varie attività nel campo degli interventi umanitari. Eppure è chiaro ed evidente ciò che li unisce: tutti sono lì per uno scopo che va oltre il lavoro, tutti sanno che abbiamo, me compreso, una missione da compiere, un’azione da contrapporre alla disumanità della politica, un atto che testimoni che c’è ancora speranza.

Nonostante lo scopo della missione fosse, ovviamente, chiaro fin dall’inizio, mi rendo conto soltanto nel momento in cui è stato notificato l’ingresso in area SAR, con relativo inizio del monitoraggio dello spazio di mare che circondava la nave alla ricerca dell’imbarcazione segnalata da Alarm Phone tramite mail, di quanto questa missione sia al centro della più paradossale vicenda umana degli ultimi decenni. In un mondo globalizzato dove le merci e i capitali si muovono con una velocità mai sperimentata prima, l’unica componente alla quale è impedito di muoversi liberamente, relegandola al ruolo di clandestini, è la componente umana dei paesi che di questa globalizzazione sono le prime vittime. Da quel momento osservo il mare come mai mi è capitato prima, nonostante le migliaia di miglia percorse nella mia vita. Mi ritorna in mente la scritta lasciata da chissà chi su uno dei muri del porto di Anzio “In questo mare muoiono i migranti”: è vero, questo è il luogo dove tante persone hanno trovato la morte, e noi siamo qui per impedire che anche questa notte si trasformi in tragedia.

La rapidità con la quale vengono messi in acqua i mezzi di salvataggio una volta individuate le imbarcazioni da soccorrere mi avrebbe meravigliato se non avessi partecipato, nei giorni precedenti, alle esercitazioni, durante le quali le squadre di soccorritori hanno messo a punto ogni piccolo dettaglio dell’operazione. In pochi minuti i naufraghi sono a bordo, un primo screening certifica le loro condizioni di salute, poi giù nella pancia della nave per essere sistemati e rifocillati.

Osservo Sauro Forni, infermiere a bordo e responsabile delle attività mediche della Life Support, muoversi costantemente intorno alla clinica di bordo insieme al resto del personale medico per dare conforto a chi denuncia malesseri dovuti specialmente alle condizioni di permanenza a bordo delle imbarcazioni con le quali hanno effettuato il viaggio verso l’Italia. Alcuni hanno bruciature dovute al sole, altri ustioni chimiche dovute al contatto con la miscela di carburante e acqua di mare. Durante il viaggio verso Ortona si aggravano le condizioni di uno dei pazienti e, come anticipato, si rende necessario richiedere l’intervento della Capitaneria di porto per una evacuazione medica che consenta di trasportare al più presto il paziente in ospedale, operazione che avviene davanti al porto di Roccella Jonica.

Ho ritrovato l’amico Flavio Catalano che è sulla Life Support  in qualità di deck leader dall’inizio e che stento ad immaginarlo a terra tanto è parte integrante dell’equipaggio e della stessa natura di questa missione. Ci ritroveremo con lui e con Sauro al Festival di EMERGENCY di Reggio Emilia dal 6 all’8 settembre prossimi.  Sarà uno dei tanti momenti nei quali avremo modo di condividere la mia breve e la loro lunga esperienza su questa nave.

A bordo ci sono momenti nei quali si vivono forti emozioni come quando si comunica il porto di sbarco ai migranti. Il loro entusiasmo è contagioso, che sia questo porto vicino (quasi mai) o lontano (come in questo caso quasi 500 miglia dal luogo del secondo salvataggio) poco importa. Ciò che conta è che sia terra e terra lontana dai loro incubi, che sia Italia anche se solo pochissimi tra i 65 vuole rimanere tra noi, gli altri hanno mete più lontane da raggiungere: la Germania, la Francia, la Gran Bretagna. L’importante però è non essere riportati in Libia, nelle mani dei loro torturatori, come è successo a Khaled (nome di fantasia) che è riuscito nell’impresa al nono tentativo. In uno dei tentativi precedenti la guardia costiera libica ha sparato sulla loro barca uccidendo diverse persone. Non parlano volentieri di quello che hanno dovuto subire per arrivare fino alla Life Support, a volte fingono di non capire, altre volte rispondono con un sorriso, ed io non insisto.

Mi rimane dentro una strana sensazione, tutto si è svolto con straordinaria efficienza, quasi una routinaria procedura. Ognuno ha fatto la sua parte, i soccorritori, la Capitaneria di porto di Roccella Jonica, le autorità a Ortona, i giornalisti che hanno raccontato dello sbarco sulla stampa locale. Routine appunto, banalizzazione di una tragedia, assuefazione al male. Quante altre volte lo abbiamo visto nella storia, anche delle tragedie ci si abitua, le si accetta fatalmente, si assume che siano parte del nostro quotidiano. Invece non è così, queste sono storie di uomini e di donne costrette ad un percorso di vita che di banale non ha nulla, è una pagina straordinariamente drammatica che tutti dovrebbero sentire come propria e farsene carico, ognuno secondo le proprie competenze e responsabilità, a cominciare da coloro che su questa tragedia hanno costruito le loro fortune politiche.

Ho avuto bisogno di qualche giorno per scrivere questo articolo. Ho dovuto rielaborare ciò che ho vissuto in quei giorni perché è tutto così irreale, così lontano dal nostro quotidiano che è difficile condividerlo con altri. Ho avuto difficoltà a parlarne e adesso a scriverne ma è giusto farlo e l’ho fatto cercando le parole che esprimessero i sentimenti e le emozioni ma anche la cruda realtà dei fatti.

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