Editoriale

Pici, il camionista che non sapeva amare

“Sarò anche gay, ma non sopporto le frociaggini” …. È con questo tormentone infilato tra  neuroni ancora annebbiati dall’ennesima delusione affogata nell’alcol che Pici traballa verso la macchinetta del caffè. Pici si è svegliato da poco. O forse no. Sta in piedi da troppo tempo per ragionare. C’è stato un tempo che i nodi callosi servivano per  raccontare sicurezza a chi l’ha persa. Poi, col tempo, dalle mani quelle linee contorte si sono trasferite nei pensieri sempre appassionati ma ora decisamente incerti.  Adesso solo il mare può sopportare quelle strane onde mentre di notte, guidando il Tir, a lui danno la certezza che la bellezza esiste. Esiste, nonostante nella veglia Pici sia del tutto incapace di amare. Pici non sa amare.

Lo sa, ma questa incontrovertibile verità lo porta a inventarsi ogni giorno un personaggio per confondere il mondo che incontra nella speranza che non lo riconoscano. Poi, se accade che qualche bambina sale sulla sedia per urlare a tutti “Guardate guardate quello è Pici, l’uomo che non sa amare” lui si strappa la pelle, se ne fa crescere cento altre mentre scappa e piange sul suo immenso Tir.

Lui può farlo. Pici, è giusto che sappiate, si è fatto togliere la pelle più di una volta per interesse. Pici pur di far suo quel bastimento a sedici ruote si fece strappare ogni cosa da una biologa capace di farsi in casa quel foglietto embrionale detto ectoderma. La ricercatrice dopo averlo spennato ben bene lasciò a Pici, oltre al bonus in pietre preziose per il Tir, una speciale crema che consentiva al nostro di trasformare cute, voce e, ahinoi anche il pensiero. Questa la spiegazione di molte cose che continueremo a non capire del nostro personaggio.

L’autostrada, a quest’ora, è affollata di piccole vetture stupide. Viaggiano lente e scomposte su corsie improvvisate. Pici accende tutte le luci. Più che un grande camion sembra una gigantesca nave. Non ha voglia di mangiare. Non ha voglia di parlare. Vuole solo sentire, sentire qualcosa. Si getta quindi acqua gelata sulla schiena, accende la radio sintonizzata su frequenze metallare e corre ruggendo sulla seconda corsia. È tentato dalla terza perché non vuole essere fermato dalle volanti: non sopporterebbe quel colloquio assurdo: patente, libretto, cosa trasporta, controlliamo la scatola nera, è milanista o interista?

“Sarò anche gay, ma non sopporto le frociaggini” continua a pensare nervoso finché i muscoli del viso non si rilassano. A quel punto Pici sembra quasi bello. E comunque a lui piace quel sorriso leggero che inizia a scorrere sul viso. Abbassa un po’, solo un poco, il volume, si concede sulla prima corsia e torna a pensare quasi come un quindicenne mentre scopre quel blu scuro letale per chi non sa lasciarsi trasportare dal seno di una donna.

Pici allenta a quel punto anche il pedale del pianoforte fantasticato a 150 chilometri orari. Il suono si fa più leggero e l’omone dalle mani grandi e nervose si accorge di battere l’indice sullo stesso tasto della sua Lettera 22 in perfetto stato di grazia. La stessa Olivetti utilizzata dalla redazione del giornale di De Gasperi per depistare le indagini sul caso Moro. Così a lui confessò un cappellino rosso frutto della stessa, anche se ancor più sperimentale e segreta, tecnica di manipolazione genetica. In quel caso si doveva creare un umanoide in grado di essere contestualmente papa, presidente del consiglio e capo dei crociati che con gli americani, la mafia e i nascenti sicari dell’economia potevano intercettare il sogno degli ingenui e dominare così il mediterraneo.

Chissà da quanto tempo stava lì a pigiare sul punto interrogativo. Chilometri di carta sparsi su fotocopie dell’archivio di stato non danno indicazioni certe sul tempo. Sicuramente tra l’inchiostro non c’era traccia di slip né di altri indumenti intimi femminili.

Pici era solo quella mattina, il caffè era uscito dalla macchinetta, l’odore della sua gomma stava per stonare anche le zanzare che di lì in quel periodo passavano.

“Fanculo anche al caffè” pensa l’umanoide reso ormai camaleonte dalla stregoneria moderna mentre ingurgita capsule di ginseng guaranà e schifezze varie con un succo di limone che gli sbrodola addosso.  Ma non c’è problema, Pici ormai è andato. I tasti scorrono e lui non vede e non sente più niente. Neanche le mani silenziose di una mora trasparente che, approfittando del suo stupore per quei tasti che danzano su nastro nuovo di zecca, si piega per non essere e godersi così, in silenzio, quel pisello maturato, in serra. fuori stagione.

Anni di inattività fanno di lui un attrezzo buffo. Ha un aspetto infantile. Anche la circoncisione mai fatta da bambino riappare in tutta la sua goffa eleganza.

La ragazza non si scoraggia, anzi pare divertirsi a veder crescere quel cetriolo tra le sue mani gentili. Poi sulla guancia, il naso, i capelli. Infine il mare. Blu. Nero. Rosso intenso. Di nuovo blu. Ancor più intenso.

Pici non vede, non capisce, non coglie. Sente solo un dolore. Una fitta che attribuisce ai ricordi cui prova a dar forma con i tasti della Lettera 22. Solo quando la mora scappa via, Pici si rende conto che qualcosa è successo nonostante lui. Si guarda, si emoziona. E piange. Vede i suoi fogli: erano ancora tutti bianchi, tutti ancora da scrivere.

Solo a quel punto il camionista si accorge di quel faldone dove sono raccolti documenti che lo mandano ai pazzi da mesi. Lì c’è la richiesta di archiviazione per un caso di omicidio. La vittima una ragazzina convinta di far bene a denunciare chi vuol spegnere il sorriso dei ragazzi. I carnefici, stando al bar della piazza,il figlio pusher del capitano dei carabiniere e un prete maiale. Tutti allontanati dal territorio in questione. La motivazione delle tonache con ermellino: “ Solo Dio conosce la verità”.­

È a quel punto che a Pici tornano le forze per alzarsi e ritrovare nello stanzone dei ricordi la sua bomboletta preferita da graffitaro e spruzzare colore sulle pareti esterne della sua grande casa, una casa troppo grande per un uomo solo, fino ad ottenere questo risultato:

Stanotte cercherò Luna
La troverò
nel micro macro dell’infinito
un posto misterioso
sole che affascina
Più che un posto… un tempo
un’invenzione,
un’invenzione reale
sole inseguito, cercato, rincorso
sole
sole
È lì che ama nascondersi Luna
Si fa curva per non lasciarsi sorprendere dal mondo
Stupido mondo che ruota ruota
ruota sempre uguale
sole che illumina e scalda
sole che rapisce
Luna no, Luna è diversa
Cercherò Luna stanotte
sole che scotta e brucia
che acceca e istupidisce
Voglio conoscere mare
mare senza fondo
mare senza una ragione
sole che non si sopporta
sole che scompare
Voglio conoscere mare
senza ritmo, senza forma
mare che trasporta mille storie
Mille ferite, mille carezze
Mille velenossimi baci
Perché hai paura di sole
Perché ti spaventa mare
È solo un’immagine
Di un fiore giallo che non t’aspetti
Perché fai diaccio sole
Voglio vedere mare
mare che trasformando ricrea
perché hai paura di sole
perché ti spaventi in mare
mare che lascia riemergere
i colori di un tempo
perché vuoi ghiacciare sole
perché uccidi mare
Adesso voglio piangere per mare
non mi svegliate non mi toccate
mentre mi piego dolorante al fianco di una nave
sole che torna
sole che muove mare
Voglio rinascere mare
Un fiero mare di stelle
Memoria ormai lontana
memoria di una stupida notte d’amore
Ciao fascinosissima sconosciuta,
un giorno l’altro scoprirò perché fai muovere i mari

Quella notte una guerrigliera curda scese dalle colline dove molti impotenti maschi avevano sotterrato armi coraggio e dignità. Il passaggio era obbligato come per tutti i montanari che nel secolo scorso scendevano a valle, nel mercato, e lì attaccavano il somaro alla pietra bucata, toglievano gli stivali per indossare scarpe alla cromatina e pregavano iddio per tornare a casa con alici e baccalà.

Quella donna capace di fronteggiare e uccidere un battaglione di feroci bastardi fuori di testa, di fronte a quel murales non ebbe nessuna esitazione. Aprì con decisione la porta, prese Pici con forza, lo condusse in tutte le stanze della grande casa fino ad esaurimento della sua ultima pelle. Pici non aveva più segreti: aveva mostrato e dimostrato quanti uomini poteva essere.  Solo a quel punto capì di non essere gay, anche se continuava ad odiare le frociaggini.

Quella splendida femmina che lo aveva incollato al muro piegandolo al mondo reale in modo così selvaggio e dolce lo sconvolse fino al mattino, quando la stessa femmina, piena del suo amore ma stufa dei fantasmi che Pici lanciava per esaurimento della sua umanità, decise di avviarsi verso un treno che porta nella tempesta di sabbia dove nessuno ha paura di niente.

Solo a quel punto l’ultimo fantasma che recitava fesso Vorrei dare il mio volto al tuo futuro si sciolse sulla scalinata colorata in bianco e nero come la tastiera del pianoforte che Pici di notte, privo di coscienza, provava a risuonare mentre raggiungeva un letto che non aveva mai conosciuto l’amore.

All’ultimo scalino della tastiera Pici si bloccò per qualche decina di anni finché il suono del cellulare che aveva dimenticato di possedere gli ricordò di avere un impegno. In tasca aveva ancora capsule di eleutorocco e spirulina. Inghiottì i due flaconi di capsule, cercò una fontanella per deglutire quell’ammasso di tonici incapsulati in idrossiproilmetil cellulosa ma scovò solo una boccia di Amarone dimenticata tra due calici abbandonati tra i cuscini come una speranza persa.  Se la scolò tutta come un bimbo cuccia tutto d’un fiato la tetta buona della madre che non delude. E corse verso il vicolo che portava alla strada che conduceva al parcheggio dove il grande Tir riposava.

Pici era alto poco più di un metro e mezzo, ma davanti a quel drago sembrava un gigante. Sgancia trattore stradale e trazione dal resto e imbocca la statale che porta tra le nebbie della valle del Po dove. Lì lo attendono le Fatine per la chiusura. Lo fa sempre da anni. Arriva, parcheggia ed entra in quel bizzarro locale dove un tempo Monica Vitti e Mastroianni facevano tremare i polsi ad Antonioni.

Oltrepassata la nebbia, si attraversa un ponte di legno. Qui c’è una porta sempre aperta per chi sa camminare sui sassi e sedersi sulle altalene. Pici saluta con un bacio sulla guancia la polacca alta quasi il doppio di lui e si dirige verso la cucina. Mentre la fatina chiude la porta e fa la chiusura di cassa, Pici raccoglie tutte le cipolle tagliate per non sprecarle. Sa bene che è pericoloso utilizzarle il giorno dopo, la cipolla diventa  tossica anche per una sola notte. Pici le mette tutte in una casseruola e le fa sciogliere e scolarle in un piatto grande. Su quel letto rosso scuro stende gli avanzi ripuliti di trota anguille e coregone, ma anche capesante, garusoli (gasteropodi – come le lumache – di mare, che la fatina lessa, sguscia, condisce e rimette nel guscio), canocchie, seppie e, quando ce ne è,  , nei mesi primaverili (aprile e maggio) e autunnali (ottobre a novembre), le mitiche mo’eke, quei granchi verdi in fase di muta, quando cioè, nello spazio di poche ore abbandonano il loro rivestimento (carapace) e si presentano tenere e molli.

Porta chiusa, piatti in terra sui sassolini, si raccolgono due bottiglie di rosato rientrato in cucina, un ti voglio bene fraterno  con le cosce aperte che mostrano la grazia di dio e prima di prender sono, l’ultimo sforzo per salire insieme sulla motrice. La fatina sviene sul sedile, Pici è felice mentre imbocca la Romea. Pochi chilometri prima di fermarsi davanti il cancello casa di una donna che non la molla, ma lo ama. Lo vuole sempre ogni notte tutto per se, per chiudere insieme il locale e farsi accompagnare a casa. Così. Come fosse un gay che non sopporta le frociaggini.

C’è un particolare che ancora non abbiamo detto. Dopo quel famoso esperimento genetico a cui si sottopose Pici per pagarsi il Tir, oltre alle cose già descritte i suoi occhi cambiarono. Il sinistro aveva una tonalità blu mare mentre l’altra retina sembrava aver strato da quelle terre dove crescono sani gli ulivi un marrone che non vuol cedere intensità né al buio della notte né al rosso del solleone estivo.

Con quegli occhioni incredibili, l’uomo alto un metro e mezzo raccoglie con mani altrettanto surreali dieci confetti di Guaranà, il viagra dei camionisti, e li cala in un colpo solo con un’insipida birra analcolica rimasta nel frigobar del Tir. Inutili come il viagra quando una donna decide di farti venire nelle mutande mentre ti fa piedino sotto il tavolo. Ma Pici ama fare cose inutili e dopo aver visto la fatina chiudere il portone riaccende il motore e muove le quattro ruote rimaste alla sua nave verso il porto dove a quell’ora rientrano i pescatori.

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