Editoriale

Dopo i trattori, taxi e ombrelloni sulle barricate per rivendicare privilegi concessi nel ventennio

Negli ultimi giorni si sono fatte sentire, in maniera diversa, due categorie che hanno fatto della difesa dei propri diritti/privilegi la ragione della loro stessa funzione: i tassisti e i balneari. Sono diventate due categorie simbolo di una condizione comune a molti Paesi ma che in Italia, anche per motivi storici, ha mantenuto negli anni una articolazione ed una influenza particolarmente importanti, il corporativismo.

Sono innumerevoli le espressioni in cui si manifesta un male atavico che attanaglia questo Paese rendendo difficile, se non impossibile, qualsiasi forma di sviluppo e di ammodernamento dell’organizzazione delle attività professionali. I tassisti stanno facendo barricate per impedire l’ingresso in Italia di forme di offerta di pubblico servizio come Uber che in altri Paesi funziona benissimo e si integra con il servizio pubblico ed il classico servizio taxi. Quella dei tassisti è una categoria che ha delle peculiarità davvero originali. Una licenza in città come Roma può essere ceduta per cifre elevate (si parla anche di oltre 100mila euro) per una attività che mediamente genera un reddito di poco superiore agli 11mila euro annui se stiamo alla media delle dichiarazioni dei redditi della categoria.

I balneari (concessionari di aree demaniali a fini turistico ricreativi), godono da decenni di libero uso di spiagge sulle quali operano con attività delle più varie, dalla semplice offerta di lettini e ombrelloni a servizi bar, ristoranti, fitness ecc. a fronte di canoni al limite dell’irrisorio.
Il loro spauracchio è la direttiva dell’Unione Europea 2006/123/CE, conosciuta come Direttiva Bolkestein, relativa ai servizi nel mercato europeo comune, presentata dalla Commissione europea nel febbraio 2004 per iniziativa del commissario per il mercato interno della Commissione Prodi Frits Bolkestein, ed approvata ed emanata nel 2006. In base a questa direttiva le concessioni pubbliche sono soggette ad essere messe a bando con scadenza periodica determinata. Apriti cielo, i privilegiati gestori delle concessioni attualmente in atto hanno subito issato barricate sostenute dagli esponenti della destra in particolare da Salvini e Meloni che adesso si trovano, specialmente quest’ultima, in gravi difficoltà a mantenere le promesse fatte in campagna elettorale.

Questi sono solo due esempi di un sistema di caste organizzate intorno agli ordini professionali atti a difendere diritti e, spesso ancor più, privilegi degli associati. Il ragionare per corporazioni non è una semplice difesa della categoria alla quale si appartiene, si tratta di una organizzazione della società per classi che viene da molto lontano e che ha una logica autoritaria.

Superate le categorie economiche e sociali dell’800 sarà proprio il regime fascista a riorganizzare la società in classi/caste attraverso il “Corporativismo fascista”, teoria che trovò ampio spazio nella Carta del Lavoro varata nel 1927 che si poneva come ipotetica alternativa tra il capitalismo liberale e il comunismo. Lo Stato fascista si poneva così come regolatore dell’economia del Paese anteponendo all’interesse individuale quello nazionale. In realtà il corporativismo è stato l’emblema della natura reazionaria del fascismo che trova, in questo caso, la sua espressione nel vano tentativo di regolare l’eterno conflitto tra capitale e lavoro.

Con la caduta del fascismo la struttura corporativa rimase ben salda sostenuta anche dai suoi naturali eredi. Una forma di corporativismo neofascista sopravvisse, infatti, nel Movimento Sociale Italiano e nella Confederazione Italiana Sindacati Nazionali Lavoratori (CISNAL), che ripresero alcuni punti programmatici della Repubblica Sociale Italiana, come la formula della “partecipazione corporativa”.

Nella storia del pensiero economico non solo italiano, anche se in Italia ha avuto la sua più importante articolazione, il corporativismo costituisce ancora oggi una presenza scomoda, oggetto di valutazioni discordi. Una parte della politica lo considera un indirizzo organico di economia che, unita al consociativismo, ha la funzione di conciliare la libertà economica degli individui e l’interesse pubblico. A questa visione eterodiretta si oppone quella di chi gli nega la natura di autentico sistema di conoscenze scientifiche e lo intende come uno strumento di organizzazione politica del consenso al servizio di un sistema intimamente autoritario.

In questo senso è interessante constatare che mentre il corporativismo di tipo democratico-contrattuale si è storicamente radicato in paesi di forte tradizione protestante (paesi scandinavi, Danimarca, Gran Bretagna, Olanda), quello autoritario si è manifestato in paesi prevalentemente cattolici (Italia, Austria, Portogallo, Brasile, ecc.).

Su questo tema si sono cimentati non soltanto economisti ma anche intellettuali come Sciascia, Pasolini ed Eco. Loro, in tempi e modi diversi tra loro, consideravano il corporativismo l’eternità del fascismo, il suo proseguimento, non la “fascisteria” del saluto romano, ma le corporazioni, gli Ordini. Quando ciò scivola sul piano delle professioni, l’influenza della visione corporativa va molto oltre l’ambito lavorativo ed economico influenzando anche le battaglie per i diritti civili. Queste ultime sono, o almeno dovrebbero essere, espressione di una visione liberale della società ma spesso vengono incanalate o si orientano in maniera autonoma, non si sa quanto scientemente, verso rivendicazioni di puro tatticismo sterili e fini a se stesse perdendo di vista l’obiettivo strategico.

E’ arrivato il tempo di liberare la società da questi impedimenti allo sviluppo e al libero accesso alle professioni e ad un mondo del lavoro che si è evoluto ed indirizzato in tutt’altra direzione. Sarà una battaglia lunga e degli esiti molto incerti anche perché le forze politiche che dovrebbero farsene carico sono in tutt’altre faccende affaccendate.

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