Mentre il mondo trattiene il respiro in attesa degli esiti delle trattative sulla guerra in Ucraina, in altre zone del pianeta si continua a combattere. Oggigiorno nel mondo sono attivi 56 conflitti di diversa estensione e intensità che coinvolgono oltre 92 Paesi (più o meno direttamente). Dalla Palestina all’Ucraina, dal Myanmar al Messico, una panoramica guerre che hanno prodotto nel solo 2024 almeno 233 mila vittime come riportato da enti come ACLED, Armed Conflict Location and Event Data Project.
E’ il numero più alto dalla Seconda Guerra Mondiale, situazione che costringe oltre cento milioni di persone ogni anno a migrare sia internamente sia all’estero per sfuggire alle violenze. Negli ultimi cinque anni, inoltre, episodi ed eventi violenti associabili a situazione di conflitto sono quasi raddoppiati passando da oltre 104mila nel 2020 a duecentomila nel 2024, di cui la metà rappresentati da bombardamenti. Questi eventi hanno causato, nel solo 2024, 233 mila vittime, dato sicuramente sottostimato.
Uno di questi conflitti ha avuto, nelle ultime settimane, una ripresa in qualche modo inaspettata. Si tratta della Siria dove si sono prodotte oltre 1400 vittime negli scontri tra le forze governative e le milizie sciite ancora fedeli al deposto dittatore Bashar al-Assad. Questo conflitto si inserisce in quella sorta di Guerra dei trent’anni del mondo islamico che prosegue ininterrottamente da decenni. Così come il conflitto tra cattolici e protestanti che devastò l’Europa tra il 1618 e il 1648, segnato da crisi economica, demografica e politica anche la lotta tra le due correnti dell’Islam (shiita e sunnita) si protrae ormai da moti anni.
Cosa sta succedendo in Siria? Nello scorso dicembre, con l’incruento passaggio di potere tra Bashar al-Assad designato come successore dal padre Ḥāfiẓ al-Asad a continuare il potere assoluto della dinastia sciita e Aḥmad Ḥusayn al-Sharaʿ, noto anche per il suo nome di battaglia di al-Jawlānī sembrava, o almeno così ci veniva detto, che la Siria fosse finalmente stata liberata e che con la sconfitta degli alawiti fosse terminata la dittatura. Gli alawiti rappresentano circa il 10 per cento della popolazione siriana, ma per decenni durante la dittatura della famiglia Assad, anche loro alawiti, questa minoranza ha contato come fosse una larga maggioranza.
Il problema è che il governo attualmente in carica non è propriamente democratico e incline alla pacificazione del Paese. A comandare in Siria dopo gli anni di una sanguinosa dittatura sono gruppi jihadisti, cioè terroristi, estremisti islamici, compresi molti combattenti stranieri guidati da quel Al-Jolani, ex dell’ISIS di Al-Qaeda, con un passato di “ospite” nella prigione americana di Abu Ghraib in Iraq e una taglia di dieci milioni di dollari che gli stessi americani gli avevano messo, prontamente ritirata una volta che Al-Jolani ha sconfitto l’odiato Assad.
In Siria negli anni si sono formate alleanze con sponsor internazionali portatori di interessi geopolitici tra essi contrastanti. La Russia e l’Iran sono stati i principali alleati del governo siriano, fornendo supporto militare e politico. Al contrario, gli Stati Uniti pur con una presenza limitata, hanno sostenuto le forze curde (SDF) nella lotta contro l’ISIS e per contrastare l’influenza iraniana.
Questa situazione ha creato un’imbarazzante situazione dove due Paesi della NATO (Turchia e USA) si sono trovati alleati di forze contrapposte. Del resto l’esecutivo di transizione che controlla la Siria, dopo la fuga del dittatore Bashar Assad lo scorso dicembre, è asservito al presidente turco Recep Tayyip Erdogan. Il Sultano è stato uno degli sponsor della “primavera araba” siriana (iniziata nel 2011 e subito repressa brutalmente dal regime) tramutatasi in una sanguinosa guerra civile. La Turchia fin dall’inizio del conflitto ha infatti sostenuto politicamente e militarmente gli ex ribelli islamisti ora al potere.
Il 6 marzo scorso un gruppo armato alawita ha colpito uomini della sicurezza vicini al governo. La reazione dei governativi ha portato, come si diceva, alla morte di oltre 1.400 persone. Si tratta di una sorta di pulizia etnica con tantissimi civili uccisi nelle regioni costiere di Latakia e Tartus e nell’entroterra tra Hama e Homs.
Il governo in carica ha commesso l’errore che portò in Iraq alla formazione di Al-Qaeda ovvero sciogliere la polizia e l’esercito proprio perché, appunto, dominati dagli alawiti, creando così un vuoto nella sicurezza che ha dato alle milizie alawite l’opportunità di agire contro esponenti di spicco del nuovo regime.
Come si vede la situazione anche in questo Paese è tutt’altro che pacificata come ci era stato fatto credere. Né qui né in altri scenari di guerra si è trovata una soluzione giusta e duratura. Come potrebbe succedere se in ognuna di questi conflitti, oltre ai motivi domestici che li hanno generati, si inserisce la famelica attenzione di players internazionali, ognuno portatore di un proprio pacchetto di interessi?
Oltre ai conflitti in Ucraina e in Medio Oriente dovremmo occuparci con più attenzione delle altre aree di crisi ed è quello che intendiamo fare. Nelle ultime settimane abbiamo dedicato articoli sulla situazione nel Sahel, oggi ci siamo occupati della Siria, continueremo con altri conflitti perché non ci sono vittime di serie A e di serie B, tutti hanno diritto all’attenzione dell’opinione pubblica mondiale che non faccia dimenticare il loro dramma.




