Editoriale

Una vita messa all’asta

Due giorni fa ha scelto i corsi d’acqua reatini che gli hanno dato la vita per fuggire da una vita professionale messa all’asta. Parliamo un uomo buono, chiamato Silvio. Ne hanno scritto in qualche breve di qualche giornale “locale” giusto per conforto e indignazione della comunità. Non ha senso dire come e perché. Ha senso parlare di Silvio, perché la sua storia ci parla di una crisi economica che, come diceva mammà, “sta portando via i migliori”. C’è chi si sta arricchendo con la crisi (questo Padoan non lo dice mai nonostante i numeri abbondino) e chi la sta pagando duramente. C’è chi la crisi la vede da una comoda poltrona in pelle. E chi ci sbatte la faccia contro, nella più perfetta solitudine che solo un raffinato sistema “democratico” sa regalarti. Dobbiamo trovare la forza di dire basta. 

Silvio aveva un dono che tutti gli riconoscevano, la luce della semplicità. Una semplicità inadeguata ai tempi, potrebbe dire qualcuno, eppure radiosa. Nell’ipotetica Antologia di Spoon River della crisi 2007-2015 la sua storia occuperebbe le prime pagine. Quella luce della semplicità lo rendeva unico. Ne aveva fatto, del resto, una scelta di vita. Viveva in modo frugale, faceva un mestiere antico, forse più antico di tanti altri, produceva farine con il suo molino.

La sua semplicità non è bastata a fermare i draghi che un giorno si sono presentati davanti a lui al posto del vento. Ma su un punto, Silvio, ha lottato come un leone: ha preteso che gli restiuissero solo una pietra. La pietrra sulla quiale aveva edificato l’opera. Un atto d’amore e di rispetto verso se stesso che e i draghi hanno oltraggiato in modi irriferibili.

Sapeva macinare il grano Silvio, ma non aveva ancora imparato a triturare la pazzia che rende disumani gli uomini. O forse non gli interessava. Al mercato contadino che frequentava assieme al suo amico Pietro, appunto, medico che sapeva triturare i malanni dell’anima attraverso la cura dei corpi, lo ricordano tutti come una persona degna di stare tra gli angeli. Perché gli angeli sono proprio la forza della semplicità. E cos’altro?

Quella pietra, messa all’asta con il suo molino, a Silvio serviva per ancorare al mondo la sua semplicità, perché non diventasse evanescenza e acquistasse forza. Il mondo gli ha impedito di farlo, con violenza. Siamo tutti in qualche modo in debito con lui. Di non aver cantato la sua semplicità, di non aver cambiato il mondo.

Di solito cantiamo gli sguardi miti, ma solo perché avvertiamo che non possono nuocerci. Silvio va cantato perché tutto ciò che in lui era leggero e mite, dalle farine al suo sguardo, in realtà aveva il peso della saggezza. E sapeva illuminare la strada del nostro cammino impervio. Quello che non sanno fare quelli che pretendono di governarci, di imbonirci, di costringerci con la violenza a seguire dettami di un interesse generale che sono loro i primi a rinnegare. Stiamo scivolando nella schiavitù senza accorgerci del passo estremo. E questo a Silvio, almeno, dobbiamo.

 

Fonte: Fabio Sebastiani (controlacrisi.org)

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