Editoriale

VINCERE Il pianeta brucia tra mille conflitti avviati con pilota automatico, senza istruzioni per l’uso. Si ignorano i motivi della coazione a ripetere

Di fronte ad una situazione dove tutti parlano della vittoria come unico obiettivo possibile è lecito chiedersi cosa significhi vincere una guerra. Quale sarebbe una vittoria per Volodymyr Zelens’kyj? Respingere i russi oltre i confini del 2014? Liberare Donetsk e il Donbass avviando una diaspora della popolazione russofona? Oppure liberare anche la Crimea dove la popolazione russofona sfiora il 70 per cento? Sono, evidentemente, situazioni molto diverse le une dalle altre. E per Vladimir Putin quale sarebbe una vittoria plausibile? Completare l’invasione dell’intera Ucraina e farla diventare uno stato satellite sull’esempio delle Bielorussia? Mantenere la Crimea e accettare una qualche forma di autonomia delle regioni contese? Oppure annettersele direttamente? E per USA e NATO? Qui dipende dall’esito delle prossime elezioni americane. Nel caso vinca Donald Trump si profila un cambio di rotta della politica statunitense non da ridere. Depotenziamento se non addio alla NATO (per lo meno per come è organizzata adesso), revisione dell’alleanza con la UE, una forma radicale di isolazionismo e la divisione del mondo in zone di influenza con Russia e Cina come altri attori principali, fine del sostegno all’Ucraina e una sostanziale neutralità in caso di invasione dell’Estonia in difesa della minoranza russofona. Nel caso di vittoria di Joe Biden, le cose potrebbero rimanere come sono in un eterno stallo e sospensione dei vari scenari internazionali dall’Ucraina alla Palestina fino ad arrivare all’eterna contrapposizione con la Cina per Taiwan.

Al momento assistiamo ad un sostanziale fallimento della controffensiva ucraina per cattiva gestione e strategia sbagliata e perché venute meno munizioni, uomini e mezzi anche per un sostanziale rallentamento dell’appoggio occidentale. I russi da parte loro non stanno affondando il colpo, sembra quasi che stiano definendo i confini entro i quali assestarsi in vista di un eventuale accordo di pace. In presenza di notevoli difficoltà per l’entrata nella NATO e della UE dell’Ucraina Volodymyr Zelens’kyj sta cercando di ottenere accordi bilaterali come quello con la Gran Bretagna e in parte con l’Italia dopo la vista a Kyiv di Giorgia Meloni come presidente di turno del G7 come garanzia in caso di ripresa delle azioni militari da parte dei russi dopo eventuali accordi di pace. In tal senso sono già attivi accordi di collaborazione con la Norvegia in campo navale e di addestramento truppe e prossimamente ne saranno sottoscritti con Germania e Polonia.

Sull’altro fronte caldo, quello palestinese, qual è l’idea di vittoria che ha in mente Benjamin Netanyahu? Storicamente Israele è condannata a non vincere, al massimo a pareggiare. Nelle 5 guerre arabo israeliane dal ’48 ad oggi il massimo del risultato politico (a parte quello militare che l’ha vista sempre prevalere sugli avversari) che Israele ha ottenuto è stato quello di riportare la situazione a livello di una calma apparente senza aver risolto il suo obiettivo principale che è quello della sua sicurezza interna ed internazionale.  Adesso a causa della situazione politica interna il governo di Tel Aviv sembra deciso a risolvere il conflitto in maniera definitiva adottando tattiche feroci verso una parte della Autorità palestinese. Se guardiamo al passato anche in occasione di attacchi molto duri come nel ’77 in Libano con la cosiddetta operazione “pace in Galilea” ed altre operazioni simili di estrema violenza pur avendo ottenuto momentanei successi militari tali operazioni hanno seminato elementi che sono stati le micce di successive crisi.

Da parte sua Hamas proprio per aver portato Israele a questa decisione sembra essere il vero vincitore di questa fase della guerra. Ma alla lunga qual è la strategia? Negando l’esistenza dello stato sionista nega a se stesso e al popolo che vuole rappresentare una possibilità di soluzione politica. D’altra parte l’opposizione israeliana alla soluzione dei due stati offre un alibi agli opposti estremisti che al momento sembrano essere in pieno controllo della situazione.

In appoggio, o come pretesto, alla causa palestinese sono scesi in campo (non si sa quanto autonomamente o in nome e per conto degli ayatollah di Teheran) gli Houthi yemeniti contro i quali gli occidentali stanno combattendo una guerra simmetrica contro un nemico asimmetrico per dirla in termini militari cioè un esercito classico contro una milizia che usa più azioni di sabotaggio o di pirateria. In genere questa condizione non ha mai funzionato nella storia perché il quantitativo di risorse che è necessario mettere in campo da parte degli eserciti regolari sarà sempre spropositato rispetto agli obiettivi che si possono colpire. Gli Houthi non hanno installazioni militari o depositi così grandi da costituire obiettivi tali da essere determinanti se colpiti inoltre manca da parte degli occidentali la volontà di agire la leva del “boots on ground” cioè mettere truppe sul terreno, pertanto gli Houthi con poche risorse possono essere estremamente efficaci.

Nel frattempo è partita l’operazione Aspides a comando italiano che è di fatto un’appendice dell’operazione Atalanta già attiva nel sud del Mar Rosso contro i pirati somali. Questa è una missione al servizio degli interessi commerciali dei paesi che la esprimono.  Serve a convincere la marineria mercantile che è sicuro passare per il Mar Rosso evitando 32 giorni in più per circumnavigare l’Africa e, al contempo, evitando di fare un favore ai porti del Nord Europa come Rotterdam e Anversa che già rappresentano grandi concorrenti dei porti mediterranei. L’iniziativa vede, infatti, in prima linea Francia e Italia perché sono le due nazioni maggiormente interessate dal dimezzato del traffico delle navi nel Canale di Suez. I porti della Grecia, Gioia Tauro, Trieste, Genova e Marsiglia sono i porti più danneggiati da questa situazione. Prima di questa crisi transitavano per il canale 75/78 navi al giorno, oggi sono non più di 48/50. Considerando, inoltre, che ogni nave paga circa 400mila dollari per il transito si capisce come anche l’Egitto si molto interessato a risolvere la questione.

Alla luce di quanto detto fin qui sembra quasi che le guerre continuino per il semplice fatto di non aver ben chiaro quali siano gli obiettivi a breve e a lungo termine dei vari attori. Sembra assurdo pensarlo ma in effetti iniziare una guerra è più facile che concluderla e le condizioni e gli obiettivi iniziali, specialmente nelle crisi attuali sono così mutevoli da far perdere di vista le finalità e gli obiettivi fino ad avvilupparsi in un vortice senza fine di orrori e morte. Non è stato forse l’allora presidente Trump a dire che si doveva mettere fine all’occupazione dell’Afghanistan perché durava da così tanto tempo che non ci si ricordava perché era iniziata?

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