Editoriale

Senza vincitori né vinti. La diplomazia del ping pong chiude un’epoca. Dopo Kissinger la pace si gioca su altri tavoli, ma non tutti rispettano le regole

Ci vuole talento, fantasia e spregiudicatezza per pensare che una partita di ping pong possa essere decisiva per riportare armonia o, per lo meno normalità, nei rapporti tra due nazioni. L’evento è noto come “diplomazia del ping pong” o “ping pong diplomacy” ed ha giocato un ruolo cruciale nel rafforzare i legami tra gli Stati Uniti e la Cina durante gli anni della Guerra Fredda. Questo episodio ha contribuito a smorzare le tensioni e ha aperto la strada al riconoscimento ufficiale da parte degli Stati Uniti della Repubblica Popolare Cinese come governo legittimo. Ne fu artefice Henry Kissinger, grande amante del calcio, amico di Gianni Agnelli (lo definì un personaggio rinascimentale) con il quale, quando poteva, assisteva alle partite della Juventus. Durante i Campionati Mondiali di Ping Pong a Nagoya, Giappone, un giocatore di ping pong statunitense, Glenn Cowan, accidentalmente si trovò a condividere un pullman con giocatori cinesi. Questo casuale incontro portò a scambi amichevoli e alla condivisione di regali tra i giocatori cinesi e statunitensi. In seguito a questo incontro informale, il governo cinese invitò la squadra di ping pong degli Stati Uniti a visitare la Cina. Nel corso di aprile 1971, la squadra statunitense fece una storica visita alla Cina, segnando il primo contatto ufficiale tra cittadini degli Stati Uniti e della Repubblica Popolare Cinese in molti anni.

Questa iniziativa di scambi culturali tramite lo sport ebbe un impatto significativo nella distensione delle relazioni tra gli Stati Uniti e la Cina. La visita della squadra di ping pong aprì la strada alla successiva visita segreta di Henry Kissinger in Cina e, infine, alla normalizzazione delle relazioni diplomatiche tra i due paesi.

Nel 1972, il presidente Richard Nixon si recò in Cina, incontrando il presidente cinese Mao Tze-tung e il primo ministro Zhou Enlai. Questa visita portò alla firma degli “Accordi di Shanghai” e alla normalizzazione delle relazioni diplomatiche tra i due Paesi, ponendo fine a decenni di isolamento reciproco.

La politica diplomatica di Henry Kissinger, morto ieri all’età di cento anni, è stata caratterizzata da un approccio realistico e pragmatico alle relazioni internazionali. Servendo come Segretario di Stato degli Stati Uniti sotto i presidenti Richard Nixon e Gerald Ford negli anni cruciali della Guerra Fredda, Kissinger ha svolto un ruolo significativo nella definizione della politica estera americana.

Il realismo politico di Kissinger adottato nella sua analisi delle relazioni internazionali è stato, tuttavia, tutto al servizio degli interessi nazionali considerati come fattori primari. Kissinger è stato soltanto l’altra faccia della medaglia del potere americano. L’impegno profuso dei rapporti con nazioni comuniste come la Cina e l’Unione Sovietica, spostandosi oltre le ideologie, avevano sempre l’obiettivo di rafforzare il perseguimento degli interessi nazionali degli Stati Uniti. In quest’ottica Kissinger ha spesso favorito trattative bilaterali che meglio rafforzavano il ruolo degli Usa anziché approcci multilaterali. Questo si è manifestato, ad esempio, nel suo coinvolgimento nei colloqui segreti che hanno portato alla normalizzazione delle relazioni tra gli Stati Uniti e la Cina nel 1971 di cui si diceva prima.

L’ approccio realistico ha portato Kissinger ad avere un ruolo fondamentale nella soluzione del conflitto in Indocina. Gli accordi di Pace di Parigi nel 1973, per i quali ha ricevuto il Premio Nobel per la Pace, furono, di fatto, la presa di coscienza che in nessun modo gli Stati Uniti avrebbero vinto la guerra contro i Vietcong. Non mancava loro la forza militare ma mai come in quell’occasione il gigante appariva con i piedi di argilla per dirla con Mao Tse-tung. Non furono pochi gli sforzi che dovette compiere per piegare a questa decisione i riluttanti generali americani mal disposti a subire una ulteriore disfatta dopo il cocente stop alla guerra in Corea nel 1953. 

Kissinger fu molto abile a sfruttare le tensioni tra la Cina e l’Unione Sovietica. Questa politica di “gioco triangolare” ha contribuito a indebolire il blocco comunista e a rafforzare la posizione degli Stati Uniti. La Cina al tempo non era la potenza economia che è diventata negli ultimi 20/30 anni per cui le concessioni sul piano diplomatico erano, per gli Usa, a costo zero potendo contare su una potenza economica incontrastabile ed una forza del dollaro tale da condizionare i mercati mondiali. 

Le cose sono cambiate e molto velocemente negli ultimi anni. L’instabilità attuale è dovuta a rapporti di forza molto diversi dagli anni dell’attivismo diplomatico di Kissinger. Ben altri equilibri si dovranno ricercare che non quelli benevoli di un generico riconoscimento politico reciproco tra le grandi protagoniste sul teatro mondiale. Un nuovo Kissinger non si vede all’orizzonte e chissà se il vecchio Henry sarebbe in grado di compiere il miracolo di riportare tutti i players internazionali al tavolo delle trattative. Aspettiamo di vedere chi sarà il prossimo presidente americano perché da qui si dovrà ricominciare perché una cosa è certa, la guerra in Ucraina e l’attuale crisi medio orientale sono uno spartiacque, c’è un prima e ci sarà un dopo quale che sia nella speranza che i signori della grande finanza internazionale decidano che la pace è per loro più conveniente della guerra.

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