Editoriale

Basta un click per disumanizzare l’altro

Vi è un aspetto nella comunicazione di tutti i giorni di cui rileviamo il fastidio, oserei dire fisico, ma del quale non discutiamo abbastanza le sue implicazioni immediate e future, mi riferisco alla disumanizzazione dell’altro. No, non è un’intemerata contro i social network, strumenti assai utili alla diffusione della conoscenza, alla creazione di rete e di dialoghi, ma questi elementi veritieri si accompagnano a una polarizzazione sempre più esasperata di ogni tipo di questione, siano esse le prodezze calcistiche o le guerre tornate (ma se ne erano mai andate?) a insanguinare il pianeta.

Lo spazio per la riflessione critica, soprattutto quando si affrontano argomenti estremamente complessi e delicati, si è assottigliato, in una continua chiamata alle armi volta a convincere gli esitanti e a intimorire gli avversari, un appello alla militarizzazione del pensiero che rende quest’ultimo debole, feroce, inutile. Soprattutto a essere impressionante è la mancanza di limiti che raggiunge la violenza esercitata in forma di post, una brutalità che assume le categorie di quel che sostiene di combattere senza nessun pentimento, e un esempio è la vicenda di Patrick Zaki, il giovane egiziano studente dell’Università di Bologna liberato dopo anni di galera nel proprio paese.

È bastato che Zaki esprimesse la propria vicinanza al popolo palestinese in questi terribili giorni contrassegnati dall’attacco terroristico alle città israeliane da parte di Hamas e dalla durissima risposta del governo di Benjamin Netanyahu per additare il giovane come terrorista islamico (è un cristiano copto), urlare all’ingratitudine (perché?) chiedendo la revoca della cittadinanza italiana (che non ha); e no, non sono elettori leghisti o militanti sovranisti a gridare anatemi orribili, ma cittadini e opinionisti dalle belle e splendenti idee democratiche, alfieri di una democrazia dove però le posizioni diverse dovrebbero essere punite togliendo il passaporto a chi le esprime.

Si può obiettare che si tratta di affermazioni iperboliche, dettate dall’emozione, ma mi permetto di dissentire: social e media sono spazi pubblici, contesti dove le parole andrebbero esercitate con cura specialmente da chi ha (o sostiene di avere) una visione democratica e illuminista della società, sia esso un semplice commentatore o uno studioso. Ma vi è un altro elemento a esser inquietante in questa guerra quotidiana a colpi di like: l’assenza di ogni conseguenza immediata nella realtà concreta del quotidiano, l’aver scambiato l’impegno politico e sociale per ore passate online a litigare con chiunque non la pensi come noi.

Farebbe sorridere tale approccio se non presentasse un effetto a lungo termine, un veleno a rilascio prolungato: l’accumulo di odio, la costruzione di una immagine disumanizzante e disumanizzata dell’interlocutore che non è d’accordo con noi. Rendere l’altro privo di ogni qualità e di ogni elemento della sua dignità di essere umano è una strategia antica, a cui si è ricorsi migliaia di volte nella storia, ma la questione qui è la scala di grandezza, la magnitudo, di questo processo, accessibile a tutti via smartphone, e tutti possono avviarlo.

Si esulta per i barconi che affondano, si inneggia all’uccisione di ucraini o russi, si banchetta sul sangue di israeliani o palestinesi, si strumentalizzano donne e bambini, e tutto questo avviene senza porsi la domanda di quanto possano sedimentare le parole nel senso comune, normalizzare la violenza, renderla moralmente accettabile per liberarsi dei “corpi estranei” della società: attenzione, perché anche pensare di poter confinare questi processi a “bolle”, a cerchie di amici e contatti, è una, poco pia, illusione. Le bolle, come i bubboni, scoppiano, si rompono, rilasciano miasmi in grado di inquinare e di determinare tristi e spietati orizzonti; recuperare la capacità d’ascolto e di confronto, di dissenso forte e deciso restando umani, senza abdicare al rispetto della dignità propria e altrui sembrano essere oggi obiettivi ambiziosi ma inevitabili per scongiurare ulteriori spirali di barbarie.

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